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lunedì 27 giugno 2016

L'attentato di Sarajevo



1. La visita ufficiale di Francesco Ferdinando e Sofia in Bosnia.

Il 28 giugno 1915 l'Arciduca Francesco Ferdinando di Asburgo-Este, nipote dell'Imperatore e primo in linea di successione al trono asburgico dopo il suicidio del cugino Rodolfo d'Asburgo-Lorena il 30 gennaio 1889 nel casino di caccia di Mayerling (v. QUI per la tragica storia di Rodolfo e dell'amante Maria Vetsera) e la morte del padre Carlo Ludovico il 19 maggio 1896, era in visita ufficiale a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina.

La Bosnia-Erzegovina era un territorio balcanico ex turco che dal 1908 faceva parte ufficialmente dell'Austria-Ungheria, cioè esattamente trent'anni dopo che il Trattato di Berlino (v. QUIne aveva demandato ad essa l'amministrazione pur mantenendone formalmente la sovranità in capo al decadente Impero Ottomano.


Una rarissima foto che ritrae Francesco Ferdinando alla grandi manovre in Bosnia nel 1914, pochi giorni prima del suo assassinio (tratto dal sito: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9879477)






Francesco Ferdinando, nelle cui vene scorreva il sangue di 112 famiglie aristocratiche e di ben 2047 antenati illustri, era in quel momento Ispettore Generale delle Forze Armate Imperiali di Austria-Ungheria ed in tale veste si era recato in quella turbolenta regione balcanica per assistere alle imponenti manovre militari previste da tempo in quei giorni nella Bosnia.
Lo accompagnava nella visita l'amatissima moglie morganatica, la Contessa Sofia Chotek di Chotkova und Wognin, rinominata nel 1909 Duchessa di Hohenberg, sposata il 1° luglio 1900 contro il parere dell'illustre zio, l'Imperatore Francesco Giuseppe, che non amava il nipote ed era scandalizzato dall'enorme differenza di grado esistente tra i due coniugi, tanto da non partecipare, insieme col fratello dello stesso sposo, Ferdinando Carlo, al loro matrimonio.

Francesco Ferdinando, la moglie Sofia
ed i figli Sofia, Massimiliano e Ernesto
Anche Sofia amava teneramente il marito, che aveva conquistato sin dal primo momento non tanto per la (modesta) bellezza quanto con la sua tenerezza e la sua dedizione, oltre che con la grande religiosità: l'algido e anche lui religiosissimo Francesco Ferdinando infatti, uomo imponente, rigido, un autentico misantropo, si scioglieva letteralmente di fronte ai suoi occhi, tanto da sfidare ogni protocollo e soprattutto l'ira di Francesco Giuseppe, geloso custode della purezza del sangue imperiale di diretta derivazione divina, pur di poterla sposare, e da accettare che la coppia non avesse status reale e che i figli, Sofia, la più grande, Massimiliano, il secondo ed Ernesto l'ultimo, restassero comunque esclusi dalla linea di successione al trono, senza che né loro né le loro generazioni successive potessero fregiarsi del nome Asburgo.



2. L'anniversario della Battaglia del Kosovo.

Ma il 28 giugno non era un giorno qualunque per Sarajevo: era San Vito (Vidovdan), festa nazionale serba, e si commemorava la famosissima battaglia della Piana dei Merli del 1389, conosciuta anche con la dizione albanese di Kosovo Polje: nel corso di essa la migliore nobiltà serbo-bosniaca ed albanese alla testa dei 25000 soldati cristiani guidati dal Knez serbo  Lazar Hrebeljanovic si era immolata invano combattendo contro le assai più numerose truppe ottomane del Sultano Murad I, ma  il nobile serbo Milos Obilic era riuscito a uccidere lo stesso sultano, dopo essere penetrato nella sua tenda e questo è da sempre considerato forse il punto più alto del patriottismo serbo (anche oggi, come abbiamo potuto tristemente scoprire alla fine degli anni '90).

La battaglia del Kosovo, di Adam Stefanovic, olio su tela del 1870



L'Arciduca non era particolarmente amato per la sua fama di uomo autoritario ed intransigente, sia coi suoi sudditi che coi suoi soldati, ed era altresì molto fermo sulle prerogative del suo ruolo e dello stesso Trono Asburgico rispetto alle  tante nazionalità multietniche dell'Impero; oltre a questo erano assai conosciute le idee che aveva in mente sulla nascita di un'altra Corona da affiancare su di un piano di parità alle due già esistenti, l'austriaca e l'ungherese, quella croata-slovena-dalmata, di religione cattolica come quella da lui professata, che avrebbe inglobato anche il dominio sulla regione serbo-bosniaca, di stampo ortodosso e musulmano, con la concessione di una certa autonomia amministrativa formale ma sempre sotto lo stesso rigoroso controllo di un fortissimo Potere Centrale.

Poteva essere un'idea comunque accattivante, certo potenzialmente capace di portare progressivamente ad una sorta di federalismo vero e proprio nel fino allora accentratissimo Impero Asburgico, ma in realtà era una prospettiva che non piaceva per niente ai nazionalisti serbi, affascinati dall'esempio dei moti risorgimentali (con davanti proprio l'esempio del piccolo Piemonte per la loro Serbia) che in tutta Europa avevano portato negli ultimi trent'anni alla nascita di molte nazioni nuove, affrancatesi dai vecchi Imperi in disfacimento, così come non piaceva a quelli ungheresi la sua opinione di introdurre il suffragio universale maschile, che avrebbe minato alla radice la predominanza magiara nel regno ungherese.
Ecco perché, in tutta quella landa ai confini tra varie nazionalità, in un'atmosfera arroventata e carica di tensioni e di fervore patriottico contro gli Asburgo, sette giovani patrioti, muniti di documenti falsi ed appartenenti all'organizzazione politica panserba Mlada Bosna (Giovane Bosnia), succeduta alla precedente Narodna Odbrana (La difesa del popolo), tutti quanti affiliati segretamente al gruppo terroristico della Crna ruka (Mano nera), desiderosi di una Grande Serbia indipendente ed autonoma dall'Austria-Ungheria e che includesse nei suoi territori tutte le terre degli Slavi del sud, progettarono in maniera un po' arruffona, con l'utilizzo di sei bombe rudimentali e qualche pistola, un attentato dinamitardo ai danni dei due illustri ospiti.

La macchina dell'Arciduca e della moglie percorre l'Appel Quay. Probabilmente l'ultima foto prima dell'attentato




3. L'attentato sembra fallire.



L'attentato doveva svolgersi contro il corteo di sette auto che si dirigeva al Konak (il municipio) di Sarajevo tra due ali di folla plaudente attraverso l'Appel Quay (oggi Obana Kulina bana), il lungofiume che costeggiava il parallelo corso del fiume Mijliacka, provenendo dal campo militare di Filipovic, dove l'Arciduca aveva assistito alla messa solenne dopo la grande rivista militare.
Danilo Ilic
Il lungofiume aveva ai suoi lati da una parte il basso argine che dava sul fiume, un corso d'acqua che divide in due la città, in quel periodo dell'anno in secca, dall'altra le file delle case.
Gli attentatori si erano disposti in successione, ognuno a trecento metri di distanza dall'altro, con un altro cospiratore ancora, Danilo Ilic,  il capo della Mano nera, colui che aveva ideato punto per punto il progetto dell'attentato, a pencolare tra gli uni e gli altri per coordinare eventuali variazioni di programma del corteo o far fronte comunque a degli imprevisti.
Nonostante tutte queste precauzioni in un primo momento l'attentato sembrò fallire ingloriosamente.
Mehmed Mehmedbasic

La macchina di Francesco Ferdinando e di Sofia, la terza della fila, una Graf & Stift double phaeton modello "Bois de Boulogne" del 1911, di proprietà del Conte Franz von Harrach, presente in vettura insieme con il Governatore Generale della Bosnia Erzegovina Oskar Potiorek, e guidata dall'autista personale del conte, passò davanti al primo cospiratore piazzato sul percorso, il trentenne Mehmed Mehmedbasic, appostatosi alla finestra di un piano alto, ma questi rinunciò all'ultimo a sparare perché non aveva la visuale libera e non voleva allertare la polizia, anche se forse fu proprio la paura a fermarlo.

L'auto su sui viaggiavano Francesco Ferdinando e Sofia, esposta  ora
all'Heeresgeschichtliches Museum di Vienna


Trecento metri più in là, intorno alle 10,30, un altro congiurato, il tipografo Nedeljko Cabrinovic, dopo aver chiesto ad un poliziotto quale fosse l'auto dell'Arciduca, le lanciò  contro una piccola bomba a mano.
Questa effettivamente colpì ma senza esplodere solo la capote arrotolata della vettura, forse grazie alla prontezza dell'autista, che con la coda dell'occhio aveva visto volare l'ordigno ed aveva istintivamente accelerato, e rotolò indietro, scoppiando infine all'altezza della ruota di quella che seguiva.
Vennero così feriti due degli occupanti di quest'ultima vettura, il tenente colonnello Erik Edler von Merizzi, aiutante capo di Potiorek, ed il conte Alexander Boos-Waldeck, colpiti entrambi da alcune schegge, il primo sembra alla testa, il secondo al polso, oltre ad un poliziotto e ad alcune persone tra la gente.

L'auto colpita dall'esplosivo lanciato da Cabrinovic







Nedeljko Cabrinovic
Nell'incredibile trambusto che ne seguì l'attentatore Cabrinovic, inseguito dalla polizia, scavalcò il parapetto sull'argine e si gettò nel fiume per fuggire a nuoto, ma poiché le acque erano molto basse tentò subito dopo di suicidarsi col cianuro: il veleno, forse in dose minima o perché mal conservato, non fece comunque effetto, quindi l'uomo, in preda ai conati di vomito dovuti al cianuro, venne prima catturato e ferocemente picchiato dalla gente, poi consegnato alla polizia, mentre tutt'intorno le macchine dell'Arciduca acceleravano bruscamente verso il municipio e in città scoppiava un caos indescrivibile.

4. L'arrivo trafelato del corteo arciducale al municipio di Sarajevo. 

Tesissimo, Francesco Ferdinando, giunto comunque al ricevimento programmato al municipio, interruppe il discorso di benvenuto del sindaco Fehim Effendi Curcic (anche lui presente in una delle macchine del corteo), preparato tempo prima e quindi ovviamente colmo di espressioni festose del tutto fuori luogo in quel momento, dicendo:

"A che servono i vostri discorsi, borgomastro? Noi veniamo qui in amicizia e la gente ci tira addosso delle bombe. E' oltraggioso!"

L'intervento  della Duchessa Sofia, che aveva incontrato per qualche minuto gli esponenti del clero musulmano, aveva rasserenato gli animi, ma il Principe ereditario dovette attendere qualche secondo per il suo discorso di replica in attesa che gli riportassero i fogli su cui tutto era scritto, rimasti nella cartella di von Merizzi.
Vedendo che erano pressoché illeggibili perché macchiati di sangue, improvvisò poche parole a braccio di circostanza, cercando di sminuire l'incidente augurandosi che fosse solo opera di uno squilibrato, per poi chiedere con un improvviso cambio di programma di andare subito a visitare von Merizzi, ricoverato in ospedale.

L'Arciduca Ferdinando e la moglie Sofia mente escono dalla biblioteca di Sarajevo, pochi minuti prima dell'attentato mortale che li porterà alla morte



5. Confusione ed equivoci.

Nel frattempo, le Autorità si trovavano nel dilemma di cosa fare per evitare nuovi attentati all'incolumità dell'Arciduca.
L'idea di schierare sul percorso arciducale le truppe impegnate nelle manovre venne scartata perché non disponevano di divise da parata (!), per cui le uniche accortezze prese furono quelle di chiedere di far indossare a Francesco Ferdinando sotto l'uniforme un giubbetto antiproiettile e mettergli al fianco sinistro un altro ufficiale, che gli facesse da scudo. La Duchessa Sofia dal canto suo rifiutò di allontanarsi dal marito per tutta la durata della visita, che non ebbe modifiche protocollari.
In quella confusione, con la gente sulle strade, sui balconi e alle finestre ancora atterrita e sorpresa dall'accaduto e con i soldati e i poliziotti a fare indagini a tappeto, gli altri cospiratori si erano eclissati, un po' perché spaventati dalla reazione popolare e della polizia, un po' forse perché delusi dall'esito misero dell'attentato su cui avevano tanto fantasticato nei giorni di preparazione e spaventati dalla punizione che li attendeva se fossero stati presi.

Un'antica cartolina che ritrae i luoghi dell'attentato






Fu quindi con grande stupore che uno di essi, il diciannovenne Gavrilo Princip, studente alla scuola commerciale di Grahovo, fermatosi alla pasticceria Moritz-Schiller, sul lato destro di via Francesco Giuseppe, si vide passare a pochi metri di distanza proprio l'auto dell'Arciduca.
Gavrilo Princip

Per una di quelle circostanze fortuite che piacciono tante volte alla Storia quando vuole dare una Svolta alle cose umane, l'autista della prima auto, Franz Urban, forse non informato sul cambio di programma deciso dall'Arciduca, si era diretto come previsto immediatamente fuori città, aveva lasciato il lungofiume Appel ed effettuato quindi una svolta che non doveva fare in una piccola via laterale che portava verso il museo, nei dintorni del Ponte Latino.
Costretto a fare retromarcia da Potiorek, aveva involontariamente creato nel piccolo spazio di quella stretta stradina un vero e proprio ingorgo con la seconda e la terza auto che sopraggiungevano da dietro, costrette a loro volta a fare manovra per rimettersi nella giusta direzione.
E tutto questo accadeva proprio lì dove si trovava il giovane universitario serbo.




6. Il Destino di Francesco Ferdinando e Sofia si compie.

Fu così che Princip si vide sfilare a non più di cinque metri di distanza proprio davanti a sé a moderata velocità l'automobile che voleva colpire.
Proprio dal suo lato destro, dov'era l'Arciduca.

Fotogramma tratto dal film:"L'attentato-Sarajevo 1914"




Nonostante fosse circondato dalla folla, il giovane non ci pensò due volte, prima pensò di lanciare la bomba che aveva con sé, poi, capendo di non avere tempo per innescarla e spazio per estendere il braccio, estrasse la sua pistola, una semiautomatica Browning FN Mod.1910 cal. 7,65 x 17 mm di fabbricazione belga
Una pistola uguale a quella usata da Princip
e fece fuoco due volte.
A bruciapelo.

Il primo proiettile trapassò la fiancata dell'auto, bucò il divanetto foderato di pelle e colpì all'addome in maniera devastante la Duchessa Sofia, il secondo centrò Francesco Ferdinando alla giugulare: lo sventurato aveva alla fine rifiutato di indossare il corpetto antiproiettile, che a suo dire l'avrebbe reso ridicolo visti i suoi chili di troppo, ma anche se l'avesse messo non avrebbe avuto scampo lo stesso.


L'attentato di Sarajevo descritto da A. Beltrame per la Domenica del Corriere



Princip fu immediatamente individuato da tutti i presenti, tentò di scappare ma vedendosi ormai perduto si puntò alla tempia la pistola: un passante lo bloccò, allora inghiottì una capsula di cianuro ma anche in questo caso come per Cabrinovic non successe nulla, e mentre veniva sconvolto dai conati di vomito dovuti al cianuro veniva letteralmente salvato dal linciaggio grazie alla polizia subito intervenuta, che lo arrestò dopo un breve e concitato inseguimento.

Le fasi concitate dell'arresto di Gavrilo Princip subito dopo l'attentato
Mentre l'auto granducale si precipitava a tutta velocità verso la residenza del governatore, distante solo pochi minuti, Francesco Ferdinando disperatamente cercava di tener sveglia la moglie ormai morente:

"Sofia cara! Sofia cara! Non morire! Vivi per i nostri figli!"("Sopherl! Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe an Leben fur unsere Kinder!").

L'ormai debolissima moglie replicava sempre più stancamente: "Non è niente".

La divisa insanguinata di Francesco Ferdinando
I due sarebbero giunti ormai cadaveri alla residenza di Potiorek: Sofia si sarebbe spenta all'incirca alle 11,00, Francesco Ferdinando un quarto d'ora più tardi.
Alla notizia della loro morte, Francesco Giuseppe, che mai aveva accettato il loro matrimonio, si sarebbe fatto sfuggire queste parole durissime:

"L'Onnipotente non accetta provocazioni! Una Potenza Superiore ha ristabilito quell'ordine che io non ero riuscito a mantenere".

Le salme dei due coniugi esposte nella camera ardente



La cerimonia funebre avvenne, su ordine diretto dell'Imperatore al Maestro di Corte, il Principe Alfredo di Montenuovo, in forma non ufficiale, breve e molto semplice nel pomeriggio del 3 luglio, nella cappella della Hofburg, a Vienna, nella quale le due regali salme erano state solennemente trasportate in treno da Trieste dopo un breve trasporto effettuato via mare.
Come estremo sfregio il feretro della Duchessa era stato posto ad un livello più basso di quello del marito, e con la sola guarnizione non degli emblemi ducali ma di un ventaglio e di una coppia di guanti bianchi, simbolo delle semplici Dame d'Onore.
Ma quando il mesto corteo funebre si avviò nel tardo pomeriggio verso la Westbahnof, dove attendeva il treno che avrebbe portato le bare all'ultima dimora del castello di Arstetten, nella Bassa Austria, ove l'Arciduca, ben sapendo che nella Cappella dei Cappuccini non ci sarebbe mai stato posto per la moglie, aveva già dato ordine a suo tempo di voler essere sepolto, si verificò un fatto straordinario: tutti i rappresentanti delle grandi famiglie d'Austria, guidati dal Principe Ernst Rudiger von Starhemberg, i cavalieri di Malta in grande uniforme,  i vertici dell'esercito, molti arciduchi e persino l'Arciduca Karl d'Asburgo-Lorena-Este, nuovo erede al trono, gli fecero ala.

Il castello di Arstetten



7. Il destino dei congiurati.

La polizia era stata molto efficiente. Dopo aver catturato Cabrinovic e Princip era subito risalita al ventiquattrenne Ilic e da qui a tutti gli altri congiurati.
Dei venticinque arrestati, nove furono presto riconosciuti estranei all'attentato e quindi rilasciati, altri vennero condannati a più blande pene detentive, ma i sei principali responsabili vennero tutti processati e condannati con severità.

Il processo agli attentatori di Sarajevo



Tra essi però solo Danilo IlicMihajilo Jovanovic e Velicko Cubrilovic sarebbero stati condannati a morte ed impiccati il 3 febbraio 1915, mentre tutti gli altri, non avendo nemmeno vent'anni, vennero condannati a scontare solo delle lunghe pene detentive.
Velicko Cubrilovic
Nedeljko Cabrinovic, Trifko Grabez e Gavrilo Princip, gli autori materiali dell'attentato, vennero condannati al massimo della pena detentiva, vent'anni, e morirono tutti e tre di tubercolosi in carcere a Terezin, nell'attuale Repubblica Ceca, il primo il 20 gennaio 1916, il secondo il 21 ottobre di quello stesso anno ed il terzo il 28 aprile 1918, a poco meno di sette mesi dalla fine delle ostilità.
Trifko Grabez
Cvjetcko Popovic fu condannato a tredici anni di reclusione, ma venne liberato dagli alleati alla fine della guerra, nel novembre 1918. Morì il 9 giugno 1980.
Un altro dei cospiratori, Vaso Cubrilovic, fratello minore di Velicko, solo diciottenne all'epoca dell'attentato, venne condannato a 16 anni ma anche lui fu liberato al momento della vittoria alleata.
Sembra che al momento di sparare avesse esitato, alla vista della Duchessa Sofia.
Vaso Cubrilovic
Sarebbe sopravvissuto fino all'11 giugno 1990, facendo nel corso della sua lunga e perigliosa vita prima l'insegnante, poi il professore universitario ed infine il politico, aderendo al partito comunista jugoslavo e diventando amico e addirittura ministro di Tito.
Fu tra i più fanatici assertori della pulizia etnica a danno degli Italiani in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia alla fine della seconda guerra mondiale.
La morte l'avrebbe colto a 93 anni,  alla vigilia delle guerre nella ex Jugoslavia, ancora in piena attività come consigliere del dittatore serbo Slobodan Milosevic.
Mehmed Mehmedbasic, che sicuramente sarebbe stato condannato a morte, riuscì invece a sfuggire avventurosamente alla cattura rifugiandosi in Montenegro.
Qui fu scoperto, ammise la sua responsabilità nell'attentato ma, mentre era in attesa di estradizione verso l'Austria-Ungheria, scappò ancora, probabilmente con la complicità delle stesse autorità montenegrine.
Al termine della guerra si sarebbe ristabilito a Sarajevo.
Sarebbe morto il 29 maggio 1943, ucciso dagli Ustascia croati.

8. Sofia non doveva morire.

Gavrilo Princip sostenne sempre fino alla morte che non fosse sua intenzione uccidere la Duchessa Sofia oltre all'Arciduca, ma semmai il Governatore Oskar Potiorek, uscito invece miracolosamente illeso nonostante fosse nella stessa auto dell'Arciduca.
La Storia, purtroppo, quando si fa avanti a forza, non fa quasi mai sconti.



9. Dietro a tutto c'è Apis.

L'attentato di Sarajevo aveva ormai innescato un meccanismo ad orologeria che sarebbe stato impossibile da fermare, anche se forse la guerra sarebbe scoppiata lo stesso a breve comunque, con un altro pretesto.
Sin dall'inizio violente manifestazioni spontanee antiserbe si erano verificate a Vienna, Brno e Budapest, tuttavia Francesco Giuseppe era forse l'unico in Austria ad essere convinto che, basandosi sugli esiti dell'inchiesta  in corso a Sarajevo, la situazione potesse risolversi pacificamente, aiutato evidentemente anche dalla sua palese antipatia per quel nipote che si era comportato così fuori dalle regole, che lo aiutava ad affrontare il problema senza esserne così emotivamente coinvolto come tutti gli altri.
Ma mentre i giorni passavano aumentavano sotto sotto le pressioni soprattutto da parte del Kaiser Guglielmo II, che vedeva in quel tragico evento l'occasione tanto attesa per scatenare la guerra e non esitava a svolgere coi suoi diplomatici un'intensa attività di convincimento nei confronti dei principali collaboratori dell'Asburgo. molti dei quali peraltro già di per sé desiderosi di finirla una volta per tutte con quella piccola nazione balcanica morta di fame eppure perennemente infoiata da sussulti nazionalistici nei Balcani, in aperto contrasto con gli interessi strategici dell'Austria-Ungheria.

Dragutin Dimitrijevic, alias Apis

Nikola Pasic
Forti erano infatti i sospetti che ci fosse proprio il governo serbo dietro all'attentato, e risaputi erano i rapporti di aperta complicità, secondo alcuni addirittura di vero e proprio controllo, che legavano alla Mano nera il capo dei servizi segreti serbi, lo spietato, implacabile e sinistro colonnello Dragutin Dimitrijevic, da sempre soprannominato "Apis" (Ape) per la sua eccezionale operosità.
Apis infatti apparteneva alla Mano nera già almeno sin dall'11 giugno 1903, quando da semplice capitano aveva guidato altri ufficiali nel colpo di Stato che aveva detronizzato il precedente sovrano, Re Alessandro I Obrenovic, colpevole di essere troppo prono agli Asburgo, in favore dell'attuale, Pietro I Karadjordjevic, assai più vicino allo Zar: in quella tragica circostanza il re e la regina, Draga Masin, di quindici anni più anziana e già dama di compagnia della madre di Alessandro, la Regina Natalja, erano stati sorpresi all'alba nei loro appartamenti privati ed orrendamente uccisi a sciabolate dai militari golpisti, dopo di che i loro corpi fatti a brandelli erano stati gettati letteralmente a pezzi dalle finestre di palazzo reale.
Alessandro I e Draga
L'assassinio di Alessandro e Draga nel 1903

Ma se le responsabilità di Apis nell'organizzazione dell'attentato sono in effetti state ormai storicamente accertate, sembra altrettanto sicuro che nella realtà il primo ministro serbo, il moderato Nikola Pasic, venuto a conoscenza da una talpa dell'esistenza del piano, facesse in modo di avvisarne discretamente circa un mese prima la Cancelleria austriaca tramite il proprio ambasciatore a Vienna, ma senza risultato.
La verità è che assai probabilmente Apis, conoscitore di troppi segreti e troppi uomini, era ormai diventato un soggetto troppo potente e totalmente fuori dal controllo delle Autorità serbe che pure aveva giurato di servire, e la sua contiguità con certe organizzazioni terroristiche era ormai un tutt'uno, nella sua testa, con il bene del paese (come prova il fatto che, tre anni dopo l'attentato, il 23 giugno 1917, Apis per volere del governo serbo in esilio venne condannato per tradimento e fucilato a Salonicco, da un plotone d'esecuzione serbo).

10. La profezia di von Bismarck.

A seguito delle indagini svolte dagli inquirenti di Sarajevo vennero fuori i nomi suo e di due suoi collaboratori, Milan Ciganovic, un agente sotto copertura, capo dei cosiddetti "Comitagi" (bande di confine), formalmente funzionario nelle ferrovie serbe, ed il maggiore Voijslav Tankosic, colui che aveva spifferato al premier Pasic l'esistenza del piano criminale, come veri mandanti dell'attentato.
Accusando apertamente la Serbia di complicità, l'Austria-Ungheria  le presentò quindi il 23 luglio 1914  un umiliante e pesantissimo Ultimatum in quindici punti non trattabili,.
Tra le altre cose, in quel durissimo  documento veniva imposto a Belgrado di arrestare ed estradare a Vienna i mandanti, dove sarebbero stati giudicati da una corte mista austro-serba e avrebbero dovuto scontare la pena, si chiedeva l'istituzione di una commissione mista d'indagine austro-serba sull'attentato, si ordinava di cessare di dare appoggio ai movimenti panjugoslavi in Bosnia e più in generale di aizzare più in generale la propaganda antiaustriaca e si invitava l'esercito stesso ad arrestare e  condannare i militari coinvolti.
Pietro I Karadjordjevic, Re di Serbia
E' possibile che Francesco Giuseppe si aspettasse comunque un atteggiamento collaborativo e sottomesso da parte di Pietro I Karadjordjevic, dato che negli ultimi anni ben due volte gli ultimatum asburgici avevano immediatamente sopito sul nascere le ambizioni di Re Pietro nei Balcani, in occasione del tumultuosissimo passaggio della Bosnia-Erzegovina all'Impero nel 1908 ed al momento delle guerre balcaniche del 1912-13, in cui la Serbia aveva fatto ben intendere la sua voglia di espansione ai danni soprattutto degli ex territori turchi abitati da cittadini di etnia slava.

Ma stavolta non fu così.
Due giorni, dopo, il 25 luglio, l'orgogliosissima Serbia rifiutò sdegnosamente di arrestare o comunque sanzionare i suoi militari e funzionari civili a vario titolo chiamati in causa per l'attentato perché le proprie norme costituzionali lo impedivano e iniziò la mobilitazione delle sue forze armate, pur dichiarandosi tuttavia pronta ad affidarsi al Tribunale Internazionale dell'Aja.
A quel punto però, nonostante la Russia sin dall'inizio avesse fatto sapere che non sarebbe rimasta indifferente ad un eventuale conflitto tra l'Austria-Ungheria e i "fratelli serbi", anche Vienna avviò la mobilitazione generale, richiamando altresì il proprio ambasciatore da Belgrado.
Tre giorni dopo, il 28 luglio 1914, venne consegnata alla Serbia la dichiarazione di guerra.
Nel firmare il ferale documento, assai probabilmente, Francesco Giuseppe era convinto tra sé e sé che con quell'autografo stesse condannando alla fine il suo stesso Impero, ma ormai non si poteva più fare altro.
Il dado era tratto. 
Otto von Bismarck
D'altronde era stato profetico una trentina d'anni prima il famosissimo cancelliere tedesco Otto von Bismarck in persona: "La prossima guerra scoppierà per una qualche maledetta sciocchezza nei Balcani".



Probabilmente la prima guerra mondiale sarebbe scoppiata lo stesso, qualunque pretesto sarebbe stato buono in quell'atmosfera infuocata di nazionalismi prorompenti, vecchi casati ormai alla fine del loro ciclo storico, risorgimenti incompiuti, nuovi slanci tecnologici e industriali, differenze religiose, ideologiche e politiche sempre più accentuate tra i popoli, magari una volta anche amici.
Ma in questo episodio apparentemente minore, pur nella sua drammatica tragicità, non possiamo non notare anche i segni premonitori del Fato: un'azione nata comunque tra mille dubbi, con protagonisti molto inesperti, con mezzi assai spartani e che nel 99% delle volte si sarebbero dimostrati assolutamente inadeguati, una operazione apparentemente fallita in maniera imbarazzante all'inizio ma che poi la forza delle circostanze, la sfortuna dei Granduchi, l'incredibile incrociarsi dei tempi, gli errori umani, hanno clamorosamente portato all'esito finale, probabilmente anche oltre ogni più grande immaginazione degli stessi attentatori...
Era evidentemente Destino che quel giorno a Sarajevo dovesse accadere Qualcosa.
E se noi ne parliamo qui, in questo blog eminentemente dedicato all'Italia, è perché, nel complicato gioco delle cose che spesso governa le vicende della Storia, da questo duplice omicidio sarebbe scaturito, in via indiretta, sicuramente secondario rispetto a tutto ciò che la Grande Guerra ha rappresentato nella Storia del mondo intero, anche l'esito che intere generazioni di patrioti avevano desiderato e cercato negli ultimi cento anni almeno: il ritorno di tutte le terre storicamente italiane sotto un'unica bandiera, per la prima volta dopo 2000 anni.



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