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Diavolo che scrive al pc

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Tic tic tic tic tic tic

lunedì 27 giugno 2016

L'attentato di Sarajevo



1. La visita ufficiale di Francesco Ferdinando e Sofia in Bosnia.

Il 28 giugno 1915 l'Arciduca Francesco Ferdinando di Asburgo-Este, nipote dell'Imperatore e primo in linea di successione al trono asburgico dopo il suicidio del cugino Rodolfo d'Asburgo-Lorena il 30 gennaio 1889 nel casino di caccia di Mayerling (v. QUI per la tragica storia di Rodolfo e dell'amante Maria Vetsera) e la morte del padre Carlo Ludovico il 19 maggio 1896, era in visita ufficiale a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina.

venerdì 24 giugno 2016

Il Re è nudo. Viva il Paese della Regina!


L'esito è stato I-N-E-Q-U-I-V-O-C-A-B-I-L-E.
Contro tutti i pronostici degli ultimi giorni, sul 100% dei dati scrutinati il 51,9%, pari a 17.410.742 elettori, ha votato LEAVE (Lascia), il restante 48,1%, pari a 16.141.241 elettori, ha votato a favore del REMAIN (Resta).
Il BREXIT ha vinto!
Nonostante tutti gli intellettuali ed i mass media "illuminati", nonostante i sondaggi farlocchi fino persino al giorno del voto, nonostante l'appello di Renzi sul Guardian (in questo periodo non è cosa, Matte'!!!, sembri quasi Fassino con le sue profezie), nonostante le minacce di Juncker ("Non ci saranno altre trattative, chi è fuori è fuori"), nonostante persino l'ignobile tentativo di speculare con cattivo gusto ed una faccia di bronzo da fare schifo sull'omicidio di una sventurata deputata britannica da parte di uno squilibrato, accomunando di fatto a quest'ultimo tutti coloro che avessero intenzione di votare a favore del BREXIT.
Ebbene, tutto questo non è servito, il BREXIT ha vinto.
Ed io godo come un riccio.




Intendiamoci bene, la Gran Bretagna da tempo stava nell'U.E. più per finta che sul serio, visto che non è mai stata nell'Euro avendo preferito mantenere orgogliosamente la propria tradizionale Sterlina, senza quindi che altri potessero decidere per lei sulla politica economico-monetaria dagli sconosciuti uffici di Bruxelles (QUESTO significa fare i propri interessi nazionali!) [50% dei problemi eliminati] e visto che rispetto a tutti gli altri paesi aveva numerosissimi privilegi su aspetti molto sensibili, primo fra tutti il tema delle politiche comuni dell'immigrazione (per esempio la mancata adesione al trattato di Schengen) e dell'assistenza sociale, oltre a quello dei contributi, etc. [un buon 20% ulteriore di problemi eliminati alla radice].
Di più, se fosse prevalso il REMAIN, inoltre, molto probabilmente l'U.E. come premio le avrebbe concesso ulteriori privilegi, SOLO A LEI ovviamente, ed a ulteriore scapito degli ALTRI europei.
Ma la scelta di oggi finalmente spariglia le carte.




Un conto era la Grecia, che ha un'economia che è una risibile frazione di quella britannica, che era nell'euro, che aveva i conti veramente al collasso ed è stata facilmente ricondotta alla ragione semplicemente strozzandola (anche giustamente, sotto diversi punti di vista, visto che certe politiche di spesa seguite fino a lì erano assolutamente inconcepibili) fino ad indurla a recedere dai suoi bellicosi propositi referendari, un altro è la Gran Bretagna, che è uno dei quattro grandi dell'Europa, insieme con Germania, Francia e Italia.
Se va via la Gran Bretagna si rompe un tabù, si dimostra che una fuoruscita è possibile, si traccia una via che molti altri paesi, in primis l'Olanda e la Francia, ma anche altri Stati del Nord Europa, la Polonia, l'Ungheria e altri paesi dell'Est potrebbero seguire a breve.
Chissà, persino l'Italia
, nonostante la classe politica imbelle e prona che abbiamo ora.



L'U.E. forse ora sarà costretta ad aprire definitivamente gli occhi, a capire che così non si può andare avanti, che, parafrasando una abusata frase fatta, UN'ALTRA U.E. è possibile.
Una Unione Europea che non sia eterodiretta da fuori, da poteri non ben definiti mai eletti da nessuno ma nominati da chissà chi sulla base di chissà quali accordi di cui la gente comune è puntualmente lasciata all'oscuro.
Una Unione Europea che ha una moneta ed una Banca comuni ma nessuna politica economica-monetaria cui rispondere che non sia subordinata ai desiderata di Berlino o addirittura del F.M.I.
Insomma un nano politico guidato da una commissione che altro non è che un organismo fantoccio al soldo degli interessi sempre di Berlino e delle lobbies internazionali, senza quindi un governo vero, soprattutto con un premier, un ministro degli esteri ed uno della difesa che siano autorevoli, un governo che sia effettivamente decidente in autonomia sulla base di programmi chiari, completi, su cui si sia espresso l'intero elettorato europeo...
Un elettorato europeo che invece ora è costretto ad eleggere nazione per nazione un parlamento che ha solo la competenza a stabilire la misura della circonferenza delle banane, nel segno di un consociativismo ormai stantio tra popolari e socialisti, senza una maggioranza ed una minoranza chiare, con la prima che governi sul serio e la seconda che faccia regolare opposizione, sulla base dei rispettivi programmi...
Con questo voto finalmente una parte dell'Europa, autorevole e da non trascurare in alcun modo,  ha urlato sia pure d'istinto BASTA!
Basta con quel mostro burocratico e dispendiosissimo, quel moloch indistinto e liquido che c'è ora, che prende decisioni sempre sulla testa dei cittadini senza che ci siano precise responsabilità da parte di nessuno, su argomenti epocali che incidono direttamente sulla vita di tutti noi, in tema di emigrazione, di economia, di tasse, di Valori...
NON ERA QUESTA L'EUROPA CHE VOLEVANO ALCIDE DE GASPERI, KONRAD ADENAUER E ROBERT SCHUMAN!!!



Da diverse parti si leva il grido di coloro che disprezzano il referendum come strumento per dirimere certe questioni di politica estera. 
Io pure sono molto diffidente sul referendum come modo ordinario di prendere delle decisioni, ma al contempo in questo caso mi dico: ma senza il referendum, che scelta alternativa ci poteva essere per la gente comune, posto che politicamente parlando l'U.E. non ha referenti specifici cui potersi rivolgere e con la responsabilità vera di prendere decisioni in piena autonomia, di cui venir chiamati a rispondere al termine della legislatura? 
No, perché vorrei far notare a chi pur legittimamente ha questa convinzione che non è più il tempo del governo degli ottimati, che dall'empireo dei loro attici meravigliosi, tra una tartina di caviale e un flute di champagne (magari innervati da una striscia chimica qua e là), decidono delle sorti di oltre 500 milioni di europei, la maggior parte dei quali ormai lotta giorno dopo giorno per pagarsi le bollette, le tasse, il mangiare e le rette dell'asilo per i figli (vedendosi magari scavalcati regolarmente in tutte le graduatorie possibili e immaginabili da gente proveniente da fuori senza più alcun controllo...)
Se non ho chi mi rappresenta e la situazione va facendosi insostenibile a chi posso rivolgermi, se non ho a disposizione nemmeno  uno strumento democratico come il referendum per far valere le mie volontà su certe questioni di epocale importanza?
Esatto, c'è solo il Generale, come ho scritto su questo blog tempo fa.
Ma il Generale è meglio evitarlo, come ho detto, per millemila motivi.
Ecco, forse la BREXIT consentirà di evitarlo.
FORSE, SE non è troppo tardi e SE l'U.E capisce il messaggio.
Perché se non lo capisce...



Ve lo dico sin d'ora, il referendum aveva natura solo consultiva, le procedure per una uscita formale richiederanno almeno due anni e comunque la Gran Bretagna ha contratto impegni economici verso l'U.E. fino al 2020 che dovrà mantenere, per cui la mia previsione è che alla fine le due parti contratteranno e troveranno una soluzione concordata affinché i britannici restino nell'U.E., da sanzionarsi con un altro referendum uguale e contrario a quello di oggi, ma questo ora conta meno.
Perché ora le cose andranno risolte per il meglio non più guardando caso per caso e paese per paese, ma all'intera Europa, trovando un nuovo assetto più o meno effettivamente confederale, sulla base di Principi, Valori e Radici comuni, che apra a un'autonomia politica del soggetto giuridico Unione Europea, con poteri effettivi e responsabilità adeguate al nuovo vento che porta con sé questo colpo di maglio di oggi, nella netta distinzione dei poteri e con alla base di tutto IL POPOLO EUROPEO SOVRANO, sia pure articolato nelle sue diverse specificità nazionali.
Per poi portare tutto questo di fronte a TUTTO l'elettorato europeo, 500 e passa milioni di europei chiamati a decidere tutti insieme, lo stesso giorno, nelle stesse ore, con un referendum che coinvolga l'INTERA Europa e non solo i singoli paesi, ed il cui esito sia a quel punto effettivamente sovrano.



La verità è che la BREXIT apre finalmente una breccia nel muro, una breccia enorme dalla quale  se lo vorranno potranno uscire tanti altri paesi che all'U.E. invece appartengono a pieno titolo e che finora erano frenati probabilmente solo dalla paura dell'ignoto.
La BREXIT ha lanciato un pesantissimo segnale, che l'Unione Europea non può non cogliere, pena la sua estinzione, o almeno quella di QUESTA U.E.
Perché tutto sta a dirlo a voce alta:

 "IL RE E' NUDO!"

Fino a quando non succede tutti stanno zitti.
Ci voleva il paese della Regina (e della Magna Charta Libertatum) per ricordarcelo.





giovedì 23 giugno 2016

Stavolta l'hanno messo in mezzo


Il primo pensiero è stato: "Peccato, quella di Alex Schwazer era una bella storia di redenzione, un positivo esempio per i giovani e non solo, la plastica evidenza che ci si può sempre rialzare, anche dopo le cadute più brutte, ed invece ora tutto questo sarà sepolto, inverecondamente sepolto dal ritorno del più becero giustizialismo forcaiolo, ma d'altronde cosa ci vogliamo fare, se se le vanno a cercare...Mi dispiace tantissimo soprattutto per quel galantuomo di Sandro Donati, persona moralmente inattaccabile ed assolutamente al di là di ogni sospetto che in questa vera e propria opera di misericordia umana ci aveva scommesso tutto ..."




Poi però ho letto i fatti per come sono andati, ho visto i primi commenti sui media e tra gli atleti, letto le prime dichiarazioni a caldo degli interessati.
Soprattutto, ho visto la conferenza stampa immediatamente convocata da Schwazer, Donati ed i loro legali ed ormai mi sono convinto.
Quest'uomo è innocente.

venerdì 17 giugno 2016

Un mondo che fa paura


Mi fa veramente paura un mondo in cui una sfortunata deputata inglese del Labour Party, Jo (Joanne) Cox, viene ignobilmente assassinata da uno squilibrato a Birstall, alle porte di Leeds, ma soprattutto mi fa veramente paura un mondo in cui viene diffusa, ripetuta ed amplificata ad arte (le nostre reti tv pubbliche non ne parliamo...) una notizia falsa, ripeto FALSA, ribadisco F-A-L-S-A, secondo la quale l'omicida prima di ucciderla avrebbe urlato: "Britain first!" ("Prima la Gran Bretagna", per chi non sapesse l'inglese), nata per un tweet di tale Maria Eagle poi CANCELLATO dalla stessa (v. sotto).
E tutto questo guarda caso alla vigilia del referendum che potrebbe sconvolgere (io dico in meglio) l'Europa, quello sulla fuoriuscita della Gran Bretagna dall'U.E., la cosiddetta BREXIT...



Mi fa paura un mondo in cui un cittadino americano di origine afghana compie una strage di immani proporzioni in un locale gay di Orlando, in onore all'Islam coranico predicato dall'ISIS, cui apertamente si richiamava, e tutte le organizzazioni LGBT, i media e le forze politiche interessate parlano di delitto dovuto all'omofobia e alla diffusione delle armi, attaccando anche in maniera inurbana e scomposta, almeno qui in Italia, la Chiesa Cattolica, Adinolfi, il Popolo della Famiglia e le Sentinelle in piedi (il mondo islamico no, quello non c'entra niente evidentemente...)
...Poi si scopre che in realtà l'assassino era lui stesso un omosessuale che frequentava quel locale, vi prendeva appuntamenti, intratteneva delle chat con altri come lui e in più era  guardia giurata e quindi poteva detenere legalmente le armi che aveva usato nell'attentato per cui che si fa?
Si mette la sordina sia alle implicazioni presunte omofobiche che a quelle contro le armi, facendo scomparire con una rapidità mai vista tutta la vicenda dalle prime pagine dei giornali occidentali, senza che nemmeno un misero minuto di silenzio (che ormai non si nega mai a nessuno) venga fatto in tutte le pur importanti manifestazioni sportive di queste settimane pur di non dare risalto alla cosa (e favorire Brexit e Trump, ovviamente...)



Mi fa paura un mondo in cui nel caso di Jo Cox, un delitto singolo in cui è evidente la radice solo psichiatrica dell'accaduto, si fa però una propaganda ignobile ed interessata contro tutti i movimenti pro-Brexit, ed in evidente malafede si prende a spunto una frase mai detta per causare indignazione contro di essi come se chi li vota sia un potenziale omicida.
Tutto questo mentre nel caso del locale gay si riduce al contrario a mero caso di pazzia una situazione che invece non è altro che la massima espressione del nuovo terrorismo islamico, quello che si avvale in misura continuativa e penetrante proprio dei "matti" per fare più danni possibili, con ormai decine e decine di attentati nel mondo intero, e migliaia di morti, sicuro che tanto il mondo occidentale preferisce voltarsi dall'altra parte piuttosto che dare alle cose il loro vero nome, soprattutto quando poi una tale linea di condotta è funzionale ai propri fini di piccola cucina politica ed esistenziale, e chi se ne frega se poi i primi a cadere saranno proprio questi speculatori di bassa lega...

Mi fa paura un mondo in cui facebook, nato come strumento di libertà, tollera addirittura al suo interno pagine, gruppi e singoli che inneggiano a Satana, offendono sistematicamente  i credenti, la Chiesa e i Santi, che si augurano la fine di Israele e degli ebrei, che sostengono apertamente la causa del Jihad, consentendo la sopravvivenza a profili di zoccole, esibizionisti, magnaccia, scambisti, sadici, violenti e feccia varia.
Però poi censura il profilo di Mario Adinolfi per ciò che dice e rappresenta e per la presenza come sua immagine del simbolo del Popolo della Famiglia, che altro non è che una raffigurazione grafica che descrive una famiglia "normale", con un padre, una madre e due bambini, ma che ha il bruttissimo torto di avere scritto sopra la frase "NO GENDER NELLE SCUOLE", invisa ovviamente alla chiassosissima minoranzissima LGBT, tuttavia dominante tra i media e tra le menti "illuminate" (sempre loro, oh...!).
E tutto questo poi quando tale simbolo è quello, accettato e vidimato dal ministero dell'interno, di un partito democratico regolarmente presente alle elezioni e che sta partecipando tuttora alle votazioni per i ballottaggi!!!



Mi fa paura un mondo in cui Boko Haram trucida quasi giornalmente in Nigeria vecchi, donne e bambini colpevoli solo di essere cristiani e nessuno ne parla, nessuno trova un JE SUIS qualsiasi, anche di risulta, per questi poveracci.
Un mondo in cui nell'indifferenza di chi ha il dovere di non essere indifferente la cristiana Asia Bibi è ancora in isolamento in una lurida prigione pachistana con una condanna a morte pendente sulla testa per una presunta accusa di  blasfemia contro Maometto peraltro del tutto campata in aria (si veda QUI).
Un mondo in cui un milione di cristiani siriani e iracheni sono stati costretti a scappare dalle loro case, tra sofferenze, lutti, torture, privazioni, senza che nessuno in Occidente dicesse qualcosa.
Un mondo in cui si parla solo di accogliere senza tenere conto delle immani conseguenze antropologiche che questo comporta, senza rendersi conto che il più importante barcone che può rovesciarsi da un momento all'altro è proprio quello europeo...
Salvo indignarsi se poi giustamente la reazione comincia a salire proprio dal basso, dal popolo reale, quello che vive sulla propria pelle le contraddizioni, le manchevolezze, le superficialità, le speculazioni politiche, religiose, culturali di questi cambiamenti epocali impostici da vertici spesso sconosciuti e di sicuro mai votati da alcuno, e finisce per votare contro i desiderata degli "illuminati" che non si sa a quale titolo vogliono decidere delle nostre vite senza chiederci nemmeno il permesso!!!

La verità è che dobbiamo riuscire a sconfiggere questo sistema onnivoro e pervasivo, che sta tentando di cambiare a forza la nostra identità, il nostro modo di vivere, sfruttando sistematicamente, per interessi ben lontani da quelli della gente comune, le rivendicazioni egoistiche  di singole minoranze contro la maggioranza tutta (ognuno di noi fa parte di una minoranza di qualche tipo, in fondo), e con la scusa di ampliare le nostre singole libertà sta riuscendo nell'intento di comprimere sempre di più la nostra Libertà tout court, quella con la L maiuscola, pezzettino dopo pezzettino, passo dopo passo, generazione dopo generazione.
Fino a quando un bel giorno, senza accorgercene, ci troveremo nudi di fronte al Potere, senza più opposizione, senza più capacità critica, senza più la facoltà di poterla esercitare...

La legge sull'omofobia, quella già fatta sul negazionismo, sono solo gli antipasti di un programma assai più grave che, nato con l'azzoppamento dell'ultimo governo Berlusconi, sta sviluppandosi ulteriormente anche attraverso le cosiddette "primavere arabe" col tentativo di sabotare mediaticamente la Brexit per giungere anche a quello di imporci a forza TTIP e CETA (leggete al riguardo le riflessioni di Geopolitical Center).

Ma quando la pentola a pressione comincia a fischiare bisogna spegnere, sennò esplode.
Se si impedisce alla gente di decidere democraticamente ed in modo corretto il proprio destino arriva un momento in cui la gente passa alle vie di fatto.
Cerchiamo di evitarlo, per cortesia.
Perché a quel punto non so come andrà a finire.
In Italia prima che altrove.








lunedì 13 giugno 2016

E' solo un pazzo omofobo armato. O no???




Quindi il problema che ha causato la strage di Orlando sarebbe una pura e semplice questione di omofobia, unito alla troppa e indiscriminata diffusione delle armi ed a una situazione di disagio personale confinante con lo squilibrio mentale.

venerdì 10 giugno 2016

FORZA E CORAGGIO, PRESIDENTE!!!


La vogliamo vedere tornare sereno, combattivo e sorridente come in questa foto, Cavaliere.
Ci sarebbero tante altre cose da dire.
Ma non le dico.
Anzi una sì: FORZA E CORAGGIO PRESIDENTE BERLUSCONI!!!

lunedì 6 giugno 2016

Chanson d'automne



"Les sanglots longs
Des violons 
De l'automne
Blessent mon coeur
D'une langueur
Monotone..."

(Chanson d'automne, Paul Verlaine)

6 GIUGNO 1944

Ci hanno salvati.
E al contempo ci hanno rubato l'anima.
Gli dobbiamo tutto, la libertà, la vita, il benessere diffuso, ma probabilmente anche la nostra perdizione.
Ma la colpa non è stata loro, loro sono morti in decine di migliaia per noi.
Sulle loro lapidi e su quelle di chi li ha combattuti è nata la nuova Europa.
Giudicate voi.

Per saperne di più:
http://www.operapoesia.it/?p=1137

mercoledì 1 giugno 2016

La storia delle colonie italiane: la riconquista della Libia e la colonizzazione degli anni '30 - 2

Aprile 1930: Lo squadrone automitragliatrici savari in sosta durante un'esercitazione a lungo raggio nel deserto libico (Alberto Parducci)


1. ALLA SCOPERTA DEL FEZZAN




Una volta organizzata amministrativamente la nuova colonia libica con la suddivisione nei due governatorati distinti di Tripolitania e Cirenaica ci si cominciò anche a porre il problema dell'aridissimo deserto meridionale del Fezzan, sin dall'inizio della campagna libica colpevolmente trascurato dalle autorità italiane (ma lo era stato anche dalle stesse autorità turche), probabilmente a causa della sua maestosa desolazione che lo rendeva di fatto irrilevante sul piano strategico: si trattava infatti di un territorio praticamente disabitato se non fosse stato per le carovane delle tribù beduine nomadi che l'attraversavano in lungo ed in largo a cavallo dei loro dromedari, esercitando il commercio e più spesso razziando gli sventurati di passaggio, anch'esse fortemente influenzate dalla religiosità senussita dominante nella vicina e altrettanto arida Cirenaica.



Le missioni di Ignazio Sanfilippo

In realtà prima della guerra con la Turchia vi erano notevoli speranze sulla presenza in quello sterminato deserto di grossi giacimenti di zolfo e la cosa interessava molto al nostro ministro degli esteri Paternò, poiché in quel momento la sua Sicilia era la terra leader al mondo nell'estrazione dello zolfo e la scoperta che il Fezzan turco potesse farle concorrenza non poteva riempirlo di gioia.

Ignazio Sanfilippo a cavallo nel Fezzan
Una prima missione organizzata per via diplomatica dal ministero degli esteri e finanziata dall'onnipresente Banco di Roma, a scopi ufficiali di esplorazione agronomica, tra il 23 giugno ed il 15 agosto 1910, guidata dal geologo italiano Ignazio Sanfilippo, di Agrigento, direttore tecnico generale della italo-francese Societè des Soufres, praticamente monopolista sull'isola, avrebbe fatto in un primo momento crollare quest'illusione sul potenziale mineralogico del Fezzan, ma una seconda e ben più ambiziosa spedizione, partita l'8 aprile 1911 con a capo lo stesso Sanfilippo e il Conte Ascanio Michele Sforza, un ingegnere civile piacentino fratello del più noto Carlo, avrebbe successivamente confermato la presenza lì del prezioso minerale, nonostante la sospettosissima scorta turca facesse di tutto per ostacolare le indagini minerarie: tuttavia l'improvviso scoppio della crisi libica portò il 1° ottobre 1911 al sequestro di Sanfilippo, del Conte Sforza e di tutti i loro uomini, tenuti poi in prigionia per 13 mesi dalle autorità turche, fino alla fine delle ostilità, in condizioni ambientali, igieniche e di sicurezza pessime, e solo al momento del loro rilascio il 13 novembre 1912 si ebbe modo di conoscere le nuove scoperte fatte da Sanfilippo, quando però la sollevazione delle tribù locali, la guerra in tutta Europa e la scoperta di nuovi metodi per l'estrazione a bassissimo costo dello zolfo avrebbero di fatto reso nullo l'interesse per lo zolfo libico.


La liberazione della missione Sanfiippo, il 13 novembre 1912



Sanfilippo, che in tutti i suoi lunghi e perigliosi viaggi avrebbe raccolto anche tantissimi reperti fossili (echinidi e molluschi), alcuni dei quali, mai conosciuti prima, avrebbero preso il suo nome, condusse tra il 1929 ed il 1934 su incarico delle autorità fasciste una terza missione, molto spartana, nel corso della quale avrebbe rilevato la presenza di vasti giacimenti di fosfati, utili per la realizzazione dei fertilizzanti chimici, di cui il Regime aveva disperato bisogno a seguito dell'avvio della cosiddetta "campagna del grano".
Il fossile Sanfilippaster
Successive esplorazioni governative assai più dotate di mezzi, uomini e disponibilità finanziarie, tra cui quella del 1936 alla guida del famoso Ardito Desio,  avrebbero confermato anche queste scoperte.

(Per informazioni ulteriori vi invito a leggere QUI).




La prima spedizione del tenente colonnello Antonio Miani

Per tanti anni le autorità di Roma non avrebbero tuttavia dato al Fezzan una autonoma rilevanza amministrativa, anzi solo nel 1914, quindi ben dopo la chiusura delle ostilità con la Turchia, esso fu formalmente occupato dall'Italia grazie ad una spericolatissima spedizione al comando del Commissario governativo per l'occupazione ed il governo del Fezzan, il tenente colonnello di stato maggiore Antonio Miani, incaricato direttamente dal Ministero delle Colonie a Roma e posto alle dipendenze del generale Vincenzo Garioni, allora nuovo governatore della Tripolitania (alla quale il Fezzan venne aggregato), dopo esser subentrato il 1° giugno 1913 al generale Ragni, sostituito per dei contrasti ormai insanabili sorti col Ministro Bertolini, che lo accusava sostanzialmente di essere troppo autonomo nelle sue iniziative belliche.


La popolazione del Fezzan festeggia l'arrivo della colonna Miani
(Domenica del Corriere, 28/12/1913)

Il 9 agosto 1913  la colonna al suo comando, composta da 1100 uomini, di cui 108 Italiani e gli altri indigeni libici ed eritrei, munita di 10 cannoni, 4 mitragliatrici pesanti, 4 autocarri e 1756 cammelli carichi di acqua, viveri e munizioni lasciava Sirte, sul Mediterraneo, diretti prima all'oasi di Socna, e poi a Murzuch Ghat come traguardi finali.   
Era un'impresa quasi impossibile, nella quale non solo Miani dovette superare più volte le imboscate e gli attacchi dei 3000 guerrieri armati di Mohammed Ben Abdallah, deciso ad impedirgli a tutti i costi di occupare la regione, ma anche gli ostacoli naturali di quei luoghi assolutamente sconosciuti, tra cui le montagne aspre del Gebel As Soda, il grande Sarir Ben Afien, aridissimo ed assolutamente privo di sorgenti e pozzi, e la Montagna Nera, attraverso la quale fu costretto a costruire cinquanta chilometri di strada tra le rocce laviche per consentire agli autocarri di transitare.


Carovanieri armati nel Fezzan



Alla fine, a dicembre del 1914, pur avendo sconfitto in ben tre battaglie, a Esc Scebb, a Eschida Maharuga le tribù locali, addirittura riuscendo ad uccidere lo stesso Ben Abdallah nell'ultimo scontro, con ben 600 dei suoi, Miani sarebbe stato letteralmente costretto ad abbandonare il Fezzan ed a precipitarsi sulla costa, lasciando nella sua fuga "sanguinanti brandelli di dignità nazionale, fucili, cannoni, materiale vario, milioni di cartucce", dopo aver tempestato di richieste per mesi Tripoli e Roma inutilmente per avere rinforzi, rendendosi perfettamente conto, per quanto "formidabile" fosse stata considerata dal Ministero la sua spedizione, che essa era in realtà del tutto inadeguata a presidiare, con così pochi uomini e senza alcuna base operativa di rifornimento in loco, un territorio così vasto come quello, grande più o meno come l'Italia.
Luigi Cadorna, successivamente, avrebbe definito in un suo libro quella spedizione ai limiti dell'incoscienza come "l'impresa più temeraria ed intempestiva della storia coloniale di tutti i Paesi".
(Ho tratto queste informazioni dal libro "Ad un passo dalla forca" di Angelo Del Boca)
Miani, ritornato in Italia, sarebbe stato promosso colonnello, ma ben presto sarebbe stato richiamato ancora in Libia.
Purtroppo, come vedremo, avrebbe alla fine avuto ancora meno fortuna.

2. UNA CONQUISTA NON DEFINITIVA 

Nonostante la sopravvenuta pace ed i proclami di vittoria la conquista della Libia non era infatti in realtà definitiva.
Sin dalle fasi finali del conflitto con la Turchia e fino almeno agli inizi del 1915 i nostri Stati Maggiori avevano cominciato a programmare il futuro con una serie di operazioni tese a consolidare ed estendere i nostri possedimenti libici ben all'interno di quegli immensi territori, partendo dalle basi già acquisite nel corso della campagna vittoriosa, unite però ad una contestuale intensa opera di propaganda finalizzata al disarmo ed alla sottomissione delle tribù ribelli ed alla promozione di amichevoli relazioni con il notabilato locale.


Notabili locali del Fezzan fanno atto di sottomissione agli italiani
(Domenica del Corriere del 23 marzo 1913)
Tra il 1913 ed il 1914 gli italiani avevano così praticamente occupato il Fezzan, come abbiamo visto, e preso una ad una tutte le basi storiche dei ribelli sia in Tripolitania che in Cirenaica, quelle da cui partivano i loro fastidiosissimi raid verso le nostre posizioni.

L'offensiva del 1913 in Tripolitania 

L'offensiva generale scatenata da Ragni con la 1° divisione del generale Clemente Lequio (con le fanterie del 23° Como, dell' 82° Torino ed un battaglione del 52° Alpi, l'11° bersaglieri, due squadroni cavalleggeri Guide, il III° battaglione eritreo e l'8° reggimento alpino speciale al comando del colonnello Antonio Cantore, coi battaglioni alpini Tolmezzo, Feltre, Vestone e Susa,  oltre ad artiglieria e servizi) aveva consentito di occupare completamente le regioni occidentali della Gefara, una pianura litoranea al confine con la Tunisia, e del Gebel Nefusa, l'altopiano calcareo circostante (chiamato Monte Occidentale dagli arabi) che porta sul suo lato meridionale all'arido pianoro roccioso dell'Hamada el Hamra e quindi al Sahara libico: erano cadute con facilità Suani Ben AdemAziziaFondugh ben GascirZlitenAgelat Zavia, sede del più antico centro islamico della regione (come attesta il suo nome), ma già la presa di CussabatTarhunaSidi ben Nur e Sirte era stata assai più problematica poiché quella era proprio la terra di Suleiman al Barouni, e le cose non potevano filare lisce. 
Antonio Cantore

Ragni, però, fin troppo energico, fece  a quel punto l'errore (che avrebbe pagato con la sua destituzione da governatore della regione, come abbiamo visto), contro le direttive del ministero, che aveva in corso delle trattative con  il grande capo berbero, di occupare e fortificare nel febbraio del 1913 la cittadina di Bani Walid, nella regione di Misurata, a 125 chilometri  a sud-est da questa città ed a 150 a sud-ovest di Tripoli, in cui era dominante la tribù Warfalla, fino a quel momento neutrale.
Ciò indusse pertanto Bel Khayre, capo della tribù, a schierarsi con al Barouni, e questi interruppe i negoziati che in quel momento aveva in corso con gli emissari di Bertolini, scatenando l'intera regione contro le varie ridotte italiane tenute dagli alpini e costringendo la 1° divisione di Lequio ad un inedito scontro sotto la neve nel Gebel Nefusa il 23 marzo 1913, giorno di Pasqua, ad Assaba, in cui soprattutto il fianco coperto dall'8° reggimento alpino venne attaccato da 5000 ribelli sin dal primo mattino.



La battaglia si concluse con la totale vittoria italiana intorno a mezzogiorno, con 15 morti e 190 feriti da parte italiana e oltre 600 tra morti e feriti tra gli arabi (i battaglioni alpini Feltre e Tolmezzo si guadagnarono in quest'occasione la medaglia d'argento al valor militare, mentre il generale Lequio ebbe il titolo onorifico di Marchese di Assaba) e sembrava che ormai la vittoria fosse totale e definitiva, visto che tutte le città berbere della regione cominciarono a sottomettersi, KiclaSuadna, Jeffren, proprio la città d'origine di Sulaiman al Barouni, e poi Bir el Ghnem e le oasi di Ez-ZintanGiadoGioscGhadames.

L'attacco alle tribù senussite della Cirenaica




Analogo andamento avevano avuto le vicende in Cirenaica: qui il governatore Briccola, dopo le iniziali titubanze dovute alla volontà italiana di non esporre le proprie truppe in campo aperto contro le tribù arabe dell'interno, nonché alla volontà di riuscire a trovare un qualche accomodamento con ltariqa (confraternita) senussita, guidata dal Gran Senusso, al secolo l'Emiro Said Ahmed al Sharif bin Said Muhammad al Sharif al Sanusi, da almeno 100 anni il vero signore di quelle lande, ottenne finalmente l'autorizzazione da Roma ad avviare un'offensiva su larga scala per occupare tutta la costa tra Bengasi e Derna e l'altopiano del Gebel el Achdar, la cosiddetta Montagna Verde, sita tra i distretti di Beida, Barce e Derna, in risposta alla continua guerriglia dei clan tribali contro gli avamposti italiani, che trovavano le loro solite basi nei campi trincerati di BeninaArghubEttangi e Mdaur


Il Gran Senusso,
Ahmed al Sharif al Sanussi

Presa l'oasi di Suani Osman, ben quattro colonne italiane vennero lanciate all'attacco: 

- la 4° divisione speciale del muscolare Maggior Generale Giulio Cesare Tassoni, sbarcata  a Tolmetta (l'antica Tolemaide) in aprile e subito resasi protagonista dell'occupazione di El Merg (cioè Barce) ed El Abiar sulla costa, aveva il compito di occupare l'altopiano del Gebel centrale ed orientale; 

- la 2° divisione del Tenente Generale Felice D'Alessandro doveva puntare il Gebel occidentale; 

- le truppe del settore di Derna al comando del Tenente Generale Luigi Capello dovevano occupare Ain Mara

- infine la colonna del Tenente Generale Ettore Mambretti, con aggregati i battaglioni alpini Fenestrelle, Ivrea e Mondovì, aveva l'incarico di aprire una sicura linea di comunicazione tra la stessa Derna e Cirene e di operare un grande rastrellamento generale nel corso della sua marcia.

I 6000 uomini di D'Alessandro, conquistata Benina, da cui le artiglierie nemiche il 13 aprile 1913 avevano sparato su Bengasi, in tredici giorni raggiunsero e superarono prima Er Regima e poi El Abiar, prendendo contatto ai primi di maggio con le truppe di Tassoni e puntando unite contro il campo trincerato di Ettangi, vicino a Derna.


L'eroica morte del col. Maddalena a Sidi Garbàa
(Domenica del Corriere del 1° giugno 1913)
Ettore Mambretti

A questo punto però le truppe del generale Mambretti vennero clamorosamente e nettamente sconfitte il 15 maggio nella battaglia di Sidi Garbàa, alimentando ai danni del povero Mambretti una brutta fama di "jettatore"nata con l'essere  egli sopravvissuto alla disfatta di Adua (guadagnandosi peraltro una medaglia d'argento) e poi sedimentata con il fallimento nell'offensiva sull'Ortigara della seconda metà di giugno del 1917, che gli sarebbe costata la rimozione dal comando della VI° armata, ed altresì attestata anche in alcune lettere a noi pervenute dello stesso Cadorna e di un suo diretto collaboratore, il colonnello Angelo Gatti, capo dell'ufficio storico del Comando Supremo nella Grande Guerra.
Dopo una breve stasi nei combattimenti, il 18 giugno la 1° divisione di Tassoni e l'8° divisione di Tommaso Salsa attaccarono congiuntamente il nodo di Ettangi, difeso dalle truppe del Gran Senusso  e del turco Aziz Bey, conquistandolo con facilità, e continuando nell'avanzata presero la strategica oasi di Martuba, tra Derna e Bomba, Zauiet el Faidia e infine, anche Mdaur, occupata dalla divisione di Salsa il 18 luglio 1913.

Alfonso Torelli
A settembre caddero infine sia Tecniz, grazie alle truppe di Cirene al comando del Maggior Generale Alfonso Torelli, caduto in combattimento ed onorato della medaglia d'oro alla memoria, sia  Ain Bu Scimal, presa da Tassoni, ma si era ormai nella stagione delle piogge e non fu possibile continuare, consentendo così alla guerriglia di rinfrancarsi.
Ormai i venti di guerra in Europa soffiavano sempre più forte e le esigenze della Patria cominciavano ad essere prioritarie su quelle della nuova colonia, sia per motivi militari sia per motivi finanziari, visto che il corpo di spedizione ancora presente in Africa costava moltissimo denaro del contribuente.

Cambio di strategia






Il generale Briccola venne così richiamato in Patria per guidare l'VIII° corpo d'armata di Firenze ed il suo posto di governatore venne preso il 13 ottobre 1913 dal suo più diretto collaboratore, il Maggior Generale Giovanni Battista Ameglio, che si trovò subito a dover fronteggiare i primi drastici provvedimenti di richiamo di gran parte delle truppe. 

Questo comportò tre importanti cambiamenti, e cioè:

1) l'adozione di più piccole, leggere e celeri colonne mobili al posto dei più pesanti reparti tradizionali fino a quel momento usati contro le agili e spietate tribù locali, per poterle combattere sul loro medesimo terreno;

2) la costruzione di presìdi e residenze fisse in zone più controllabili e vicine al mare, con l'abbandono delle zone più esposte dell'interno, che nel caso sarebbero stati soccorsi se attaccati dalle sopra citate colonne mobili;

3) e l'utilizzo in grande scala sul terreno dei Regi Corpi Truppe Coloniali (R.C.T.C.), corpi d'armata pluriarma autonomi (con unità proprie di fanteria, artiglieria, cavalleria e genio) posti alle dipendenze dirette dei singoli governatori delle colonie: alla loro guida erano ufficiali solo nazionali, i sottufficiali erano sia nazionali che indigeni (in genere scelti questi ultimi tra chi sapeva leggere e scrivere e dimostrava di avere attitudine al comando)  mentre i militari di truppa solo indigeni, in origine solo somali ed eritrei (ma con elementi anche yemeniti e sudanesi), ma a partire proprio dal 1914 con un primo forte arruolamento di interi contingenti libici, tratti in genere dalle tribù alleate dell'Italia ed a loro volta rispettivamente inquadrati a seconda dell'area di impiego nei R.C.T.C. Tripolitania e Cirenaica (sui R.C.T.C. si veda QUI).

In tal modo si evitava di usare per le meno impellenti necessità africane i soldati italiani, decisamente più utili per la difesa in continente della Madre Patria, impegnata ormai in pieno nella Grande Guerra. 


Ascari libici di sanità: i coloniali libici si distinguevano da quelli eritrei perché come copricapo indossavano la tradizionale tachia, e non il tarbush



In un primo momento la nuova strategia sembrò funzionare, visto che in tal modo, falliti nuovi tentativi di accordo con l'emiro senusso, vennero facilmente conquistati anche i campi di Argut Slonta, nella zona di Cirene, quello di Esc Scleidima verso Sirte a febbraio ed infine, da parte della colonna mobile guidata da Antonio Cantore, già distintosi da colonnello ad Assaba alla guida dell'8° reggimento  alpini speciale e promosso maggiore generale per meriti di guerra, quelli di AgedabiaZuetina e, tra il 9 ed il 10 settembre 1914, anche quello di Kualan, sullo Gebel, dove ormai le stanche, sconfitte e sfiduciate bande beduine erano state costrette a rifugiarsi, spinte dall'incalzante offensiva italiana, e da cui per lungo tempo avrebbero solo potuto lanciare modeste scorrerie sulle carovane di passaggio e sui trasporti.
Tuttavia  lo scoppio della prima guerra mondiale, con la nostra successiva entrata nel conflitto quasi un anno dopo, ci colse dappertutto ancora a metà del guado e non consentì di normalizzare definitivamente la situazione in quella turbolenta colonia, tanto più che le indomabili tribù arabe erano apertamente sobillate dagli agenti turchi rimasti sul terreno, cui si sarebbero aggiunti ad un certo punto anche gli alleati tedeschi, pronti sempre a tener vivo il sentimento anti-italiano.


Cartina della Libia nel 1914





3. INIZIA LA RIVOLTA GENERALE DELLE TRIBU' LIBICHE (1914)

In contemporanea con l'inizio della prima guerra mondiale improvvisamente le tribù locali, che sembravano essere ormai sul punto di cedere dopo le ripetute offensive italiane dei due anni precedenti, insorsero tutte insieme, con l'aiuto degli agenti turchi e tedeschi presenti in incognito sul territorio.
Alberto Pollio
La strana morte del Tenente Generale Alberto Pollio

Tutto cominciò con una strana morte su cui da sempre aleggia un'aria di mistero, quella di Alberto Pollio, il brillantissimo nostro Capo di Stato Maggiore, scomparso improvvisamente per un infarto a Torino il 1° luglio 1914 (solo tre giorni dopo l'attentato di Sarajevo contro l'Arciduca Ferdinando), ove si era recato per assistere a delle esercitazioni di tiro dell'artiglieria.
Non mi dilungherò molto sul tema, andrei decisamente fuori spartito, ma per quanto l'uomo da tempo soffrisse per una miocardite le circostanze della sua morte sono tali da aver sempre fatto sospettare sulla sua effettiva fatalità e delle rivelazioni di pochi anni fa da parte di Giovanni D'Angelo, un nipote del generale Vincenzo Traniello, all'epoca tenente colonnello e diretto collaboratore di Pollio, l'unico presente al momento del malore del generale, su cui avrebbe steso poi un rapporto, hanno gettato nuova luce su quella lontana vicenda: vi basti sapere che il generale Pollio, ex addetto militare a Vienna, era un convinto triplicista, un sincero ammiratore degli Imperi Centrali, era l'unico generale italiano di cui Austria e Germania si fidassero ciecamente (solo pochi mesi prima aveva avuto in Slesia un incontro con i rispettivi capi di stato maggiore per concordare l'invio attraverso il Brennero di tre corpi d'armata a proteggere il fianco austriaco in occasione di una crisi improvvisa con la Francia), ed in più aveva anche sposato un'aristocratica austriaca di probabili origini ebraiche, che alcuni sussurri sospettavano essere una sorta di spia al servizio del suo paese





Da qui a parlare di un complotto di chissà chi per farlo fuori ce ne passa, ma di sicuro la sua scomparsa improvvisa tolse una grossa incognita, forse solo ipotetica, sul cambio di alleanze che si stava per realizzare da lì a dieci mesi, anche se sulla lealtà del generale all'Italia non c'è assolutamente discussione (aveva predisposto senza alcuna esitazione i piani contro l'Austria-Ungheria in occasione della crisi serbo-bosniaca del 1908)
Se chi mi legge volesse saperne di più lo rimando a  QUIQUI e QUI

Le nuove direttive di Luigi Cadorna


Luigi Cadorna
Ad Alberto Pollio fu chiamato a succedere iTenente Generale Luigi Cadorna, da sempre suo fiero oppositore per motivi caratteriali, di censo e anche di opposte concezioni strategiche, ma che soprattutto lo aveva in uggia perché Pollio era stato prescelto al suo posto al momento della nomina nel 1908 del nuovo Capo di Stato Maggiore destinato a subentrare al defunto Tancredi Saletta:  una decisione presa direttamente da Giolitti per aver Cadorna pubblicamente messo in discussione l'autorità del Re quale capo delle forze armate, in ossequio alle sue amatissime regole disciplinari, con relativa arrabbiatura di Vittorio Emanuele, notoriamente non proprio amabile, e dello stesso Giolitti, che quindi aveva chiamato a quel delicatissimo ruolo l'outsider Pollio, conosciutissimo per le sue opere di storia e cultura militare anche all'estero.
La nomina di Cadorna avrebbe cambiato tante cose non solo sul corso della nostra guerra in Europa ma anche sulla vicenda libica.
Questi infatti decise di richiamare in Patria gran parte dei soldati presenti in Libia, già un po' ridotti in precedenza, e con essi pure gran parte dei generali che si erano fatti le ossa in Africa: a suo dire, i soldati che venivano lasciati in Libia erano più che sufficienti ad assicurarne un agevole controllo, fatto sta però che tutto questo ebbe il risultato non solo di provocare il generale ripiegamento italiano sulla fascia costiera, ma di arrivare a tale risultato spesso nel caos e tra molteplici rovesci militari, anche gravi, visto che cominciò a mancare una decisa uniformità di comando e a generali offensivisti (alla Ragni, alla Garioni, alla Tassoni, alla Ameglio) si alternavano spesso altri generali dal carattere più conservativo (Druetti, Briccola), più propensi alle trattative suggerite da Roma che a mantenere un atteggiamento più risoluto sul territorio, reso peraltro sempre più difficile dal deciso riarmo in quantità e qualità delle milizie tribali, a loro volta beneficiate dagli aiuti inviati dagli alleati turchi e tedeschi attraverso la frontiera terrestre egiziana e coi sommergibili di Misurata, tornata ben presto saldamente in possesso delle forze di Al Barouni, e dalla pioggia di armi, munizioni, cannoni, carriaggi che poterono razziare dai nostri presìdi abbandonati uno ad uno, spesso dopo averne annientate o costrette alla fuga disordinata le povere guarnigioni, con gravissime perdite, ormai abbandonate a sé stesse.
Le prime regioni a insorgere furono la Sirtica in Tripolitania ed il solito Fezzan, pesantemente influenzato dall'ideologia senussita, che costrinsero ad un generale ripiegamento  in direzione di Brach, nella Libia centro-occidentale, ordinato dal neogovernatore, il Generale di divisione Luigi Druetti, succeduto il 1° novembre 1914 al Generale di divisione Giorgio Cigliana, a sua volta successore di Garioni dal 2 ottobre precedente ma destinato subito dopo al comando dell'XI° corpo d'armata in Italia (tre governatori in poco più di un mese!!!)

I primi rovesci

Così, mentre i governatori si succedevano ai governatori, o perché richiamati in Italia per le esigenze belliche, o perché chiamati a sostituire in altri incarichi africani chi ci ritornava (con le ovvie ripercussioni negative che ogni passaggio di consegne porta con sé, specie se attuato freneticamente e senza raziocinio), le nostre guarnigioni cominciarono, prima più lentamente, poi più velocemente, infine quasi a rotta di collo, a lasciare i loro vecchi presìdi, che pure erano costati tanto sangue e tanti sacrifici,  per recarsi più a nord, in zone più facilmente difendibili e comunque meglio collegate alle città.
In poco meno di due mesi l'Italia perse il controllo del Fezzan, del Gebel e della Sirtica, vide i suoi due presìdi di Sebha e Ubari sulla carovaniera per Marzuch totalmente annientati il 28 novembre dai ribelli senussiti con l'aiuto di ufficiali turchi ed infine fu costretta ad abbandonare anche a fine dicembre 1914  le oasi di GhadamesNalut e Sinaum.
Il ritorno a gennaio del 1915 in Africa al posto di Druetti del generale Tassoni, promosso tenente generale e reduce da un breve ma prestigioso comando alla I° armata di Milano, pur portando alla immediata ripresa di Gadames, non ebbe tuttavia benefici effetti.
Gli ordini del generale furono perentori: in una sua prima circolare emessa a febbraio scrisse che nessuna ritirata era ammessa senza ordine del comando (dicendo questo si poneva in diretto contrasto con Cadorna, secondo il quale l'occupazione del territorio doveva essere proporzionale alle forze disponibili, con una valutazione che doveva essere lasciata ai comandi in loco) e che il territorio andava tenuto ad ogni costo, invitando i singoli comandanti ad avere una maggiore audacia, essendo "pernicioso" attaccare solo quando si era in superiorità numerica.

Gli italiani cercano di riprendere l'offensiva

In coordinazione con Ameglio sul fronte cirenaico, che aveva lanciato su vasta scala le sue colonne mobili per riaffermare dappertutto la sovranità italianaquella del colonnello Latini nella zona di Cirene tra il 17 ed il 18 marzoquella del colonnello Martinelli nella zona di Barce tra il 10 ed il 19 marzo, pochi giorni prima quella del Generale Giuseppe Moccagatta tra il 7 ed il 15 marzo nella zona di Bengasi ed infine un'altra colonna ancora con lo scopo preciso di colpire Agedabia il 13 marzo, ma senza esiti apprezzabili, Tassoni sin da febbraio lanciò anche quelle al suo comando in Tripolitania all'attacco sulla regione nordorientale dell'Orfella, dominata dall'omonima tribù berbera e principale centro del nomadismo tripolino, oltre che sulla Sirtica e su Mizda.
La sua offensiva tuttavia non solo non ebbe esiti concreti, ma anzi vide addirittura l'annientamento di due forti colonne italiane: e se nella regione della Ghibla sullo Uadi Marsit la colonna del tenente colonnello Gianinazzi (I° battaglione libico, una sezione mitragliatrici, una batteria ed alcune bande, per un totale di 800 fucili) venne messa in rotta dopo un brevissimo combattimento a causa del cedimento delle poco affidabili bande irregolari, fu però nella Sirtica il 29 aprile, precisamente a Gasr Bu Hadi, che quella del colonnello Miani andò incontro addirittura ad un vero e proprio disastro, probabilmente secondo solo a quello di Adua nella storia coloniale italiana, anche se assai meno conosciuto, forse perché accaduto quando si era ormai a ridosso della Grande Guerra.
Un accadimento che merita apposita trattazione.

4. IL DISASTRO DI GASR BU HADI

Il 5 aprile 1915 la colonna di Miani, composta da cinque bande, per un totale di 300 uomini a piedi e 220 a cavallo, un battaglione del 2° bersaglieri, uno del 57° fanteria, il XV° battaglione eritreo, il II° battaglione libico e due compagnie del IV°, una batteria nazionale, una indigena, entrambe con pezzi da 70 mm, uno squadrone di savari ed un plotone di meharisti, era partita da Misurata con l'obiettivo di effettuare un rastrellamento generale in tutta quella regione.
Il 9 aprile si congiunse a Bir el Ezzar con la colonna del maggiore Rosso (due compagnie del 63° fanteria, tre compagnie libiche del XIII° battaglione, una batteria indigena, un plotone meharisti, tutti delle tribù Tahruna, Msellata e Orfella): insieme le due formazioni contavano un totale di 2700 regolari, 3000 irregolari, erano munite di 12 pezzi da montagna e 12 mitragliatrici pesanti Maxim-Vickers ed al seguito avevano per di più una carovana di quasi 3000 cammelli e 20 muli.

La cavalleria esplorante era in avanscoperta, seguita da quattro bande di irregolari libici, con le truppe regolari che marciavano mezzo chilometro più dietro seguite dalla imponente carovana cammellata, con un battaglione libico a chiudere l'intera formazione.
Dopo aver già respinto il giorno prima un attacco, la pesante colonna, assestatasi sin dall'alba su un rilievo sotto il quale campeggiava l'abitato di Gasr Bu Hadi,  venne attaccata in forze intorno alle 10,30 di mattina dai mujaheeddin dei capi ribelli Safi ed DinAhmed Tuati e Abdallah ben Idris, che le fonti d'intelligence italiane avevano riferito ammontare al massimo a 1500 uomini mentre in realtà probabilmente superavano i 6000.
I ribelli non solo erano almeno tre o quattro volte di più del previsto, ma erano anche molto bene armati, perché turchi e tedeschi, nell'imminenza dell'entrata in guerra dell'Italia nel grande conflitto che si stava svolgendo in Europa, li avevano adeguatamente riforniti di modernissime armi individuali e di reparto.

Gli irregolari  Tahruna, che già nei giorni precedenti, all'entrare in quella terra ostile, si erano resi protagonisti di varie insubordinazioni, represse anche con molta durezza, si ammutinarono, in parte fuggendo ed in parte passando dall'altra parte, mentre i cammellieri con le salmerie, il vero obiettivo delle bande ribelli, venivano attaccati per primi, sbandando paurosamente e fuggendo in tutte le direzioni.
Tutto questo portò subito ad una grandissima confusione sul campo italiano: dopo una prima fase di equilibrio, infatti, in cui i reparti regolari appiedati con l'aiuto della cavalleria su entrambi i fianchi avevano rispettato l'ordine di contrapporsi frontalmente al nemico con ordine e disciplina, puntando e facendo fuoco a colpo sicuro in rigoroso ordine di linea, alcuni ufficiali fraintesero degli ordini ed i battaglioni indigeni presi dal terrore si diedero alla macchia, lasciando i bersaglieri, gli artiglieri e i fanti nazionali a combattere da soli, in una maniera sempre più disordinata e dispersiva.
Sin dalle 13,30 i nostri soldati si ritrovarono così praticamente privi di munizioni, viveri ed acqua, nel frattempo saccheggiati dal nemico e dalle stesse bande Tahruna che si erano ammutinate all'inizio dell'attacco delle mehalle ribelli.
A quel punto il colonnello Miani. che era stato ferito due volte, ordinò il ripiegamento generale, ma probabilmente troppo tardi, perché la ritirata avvenne in ordine sparso, con l'unico risultato però di far sospingere man mano tutti i suoi uomini verso una piccola e stretta valle, dove furono facilmente fatti a pezzi.
Solo una piccola parte di quei soldati riuscì fortunosamente a ripiegare verso il campo trincerato di Sirte.
Verso sera tutto era finito, ed il bilancio fu terrificante:  su 84 ufficiali, 19 caddero e 23 furono feriti; due furono i comandanti di battaglione morti e due i feriti su cinque; su 900 soldati nazionali 237 risultarono caduti e 127 feriti; sui 2089 ascari regolari, eritrei e libici, 242 furono i caduti e 290 i feriti; oltre a questo tutti i cannoni andarono perduti, con tutti gli ufficiali dell'artiglieria tranne uno morti, almeno 6 mitragliatrici e 5000 fucili della riserva con 3 milioni di cartucce furono catturati, e furono catturati persino la cassa del comando ed il convoglio dei rifornimenti...

Era un disastro senza precedenti: oltre alla sconfitta in sé, passò di mano un intero arsenale e tanto denaro, oltre a viveri, quadrupedi e carriaggi, che avrebbero da quel momento consentito alla resistenza di affrontare gli italiani quasi da pari a pari.
A pagarne per primo le conseguenze, tra contestazioni, rapporti e carte bollate, sarebbe stato il povero Miani, già affranto per aver visto tutta la sua opera nel Fezzan andare in frantumi in pochi mesi, mandato un anno dopo in ausiliaria senza nemmeno poter difendere il suo paese nella grande guerra alle porte e che sarebbe infine morto nel 1933, col suo caso ancora in alto mare.
(Si veda QUI)

5, IL CROLLO DELLE FORZE COLONIALI ITALIANE

La situazione in Tripolitania si fece gravissima, tanto da spingere Tassoni il 21 giugno 1915 ad ordinare la ritirata generale sulla costa: il dispaccio recitava: "(...) un'ora di ritardo potrebbe essere fatale".

Cade Tahruna 

Il presidio di Tahruna, nonostante il tardivo intervento della forte colonna del tenente colonnello Rossotti, cui si era nel frattempo unita quella del tenente colonnello Billia (in totale c'erano il I° e ed il XV° battaglione eritreo, due compagnie del I° libico,   il V° battaglione bersaglieri, un plotone di meharisti, due compagnie del 48° fanteria, la 41° batteria da montagna), ormai senza possibilità di ricevere rifornimenti perché la relativa carovana era stata costretta a rientrare ad Azizia dopo uno scontro a Uadi Megenin, venne abbandonato il 18 giugno con al seguito donne e bambini ed incendiato dal nemico, con la dispersione in varie direzioni dei 2700 fuggitivi, ripetutamente attaccati nel corso della marcia.

Cade Bani Walid

Quello di Bani Walid (italianizzato in Beni Ulid), comandato dal maggiore Costantino Brighenti, la cui moglie era stata uccisa nella ritirata da Tahruna, resistette eroicamente dal 6 maggio al 5 luglio, per poi essere costretto alla resa per fame e per sete dopo due vani tentativi di rompere l'assedio da parte di due colonne mobili italiane inviate in soccorso:
Costantino Brighenti
il maggiore Brighenti, che piuttosto che arrendersi aveva proposto senza risultato al consiglio di difesa una sortita da lui già progettata e organizzata sul terreno, si suicidò
, un anno dopo, il 16 maggio 1916, in prigionia, venuto solo allora a conoscenza della brutale uccisione della consorte, tanto da essere insignito l'11 febbraio 1917 della medaglia d'oro al valor militare alla memoria. 

Un tragico effetto domino

A partire da qui ci fu un tragico effetto domino: Mizda Cabao si arresero dopo brevi assedi, il presidio di Jeffren, senza essere attaccato, fu costretto a lasciare praticamente tutte le sue dotazioni di armi, munizioni, cannoni, viveri, materiali vari per potersi sganciare su Zavia, con 36 nazionali dispersi, dove venne raggiunto dalle guarnigioni di Giosc e Fessato pressoché decimate (250 superstiti su 2335) soprattutto per lotte fratricide avvenute ai pozzi, con alcuni soldati che fuggirono abbandonando le armi ed altri che arrivarono al suicidio; a Zintan i 180 uomini resistettero dal 2 al 10 luglio, tentarono una sortita, furono sopraffatti e costretti alla resa, con solo una cinquantina di superstiti; Zliten venne abbandonata il 9 luglioNalut nello stesso periodo fu praticamente distrutta, con gli 835 uomini della colonna del tenente colonnello Galiani costretti ad una fuga impossibile su Zuara ed infine obbligati ad aprirsi combattendo una strada verso il confine tunisino, mentre quello di Garian fu l'unico presidio a sganciarsi per tempo e senza perdite di alcun tipo verso Tripoli.
Dalla  seconda metà di luglio andarono perdute anche Sirte, il 16 luglioAziziaSuani Ben Adem e Zuara, con le truppe presenti a Gadames che preferirono il 10 luglio rifugiarsi al di là del confine tunisino, mentre ultima a cadere fu la strategica Misurata, ormai sotto assedio, che venne sgomberata via mare ad agosto inoltrato.
Le perdite furono immense: 30 cannoni, 30.000 fucili, moltissime munizioni con in più il rifiuto dei battaglioni libici di riprendere le armi contro i connazionali.

Le cose non andavano meglio in Cirenaica,  in cui da giugno fino a ottobre del 1915 in un susseguirsi di agguati, imboscate, voltafaccia tribali, scontri a fuoco, le oasi di Esc ScleidimaEsc SchechanebZuetinaTecnizZavia, el Gaurel GubaAin Marael AbiarSidi Garbàa vennero completamente evacuate.
Il ripiegamento italiano, fino a pochi mesi prima più o meno pianificato e sviluppato con ordine, si tramutò in vera e propria rotta, spesso disordinata, azzerando di fatto tutti gli sforzi fatti in quattro anni di occupazione.
Il nostro effettivo controllo sulla Libia ormai non andava molto più in là in Tripolitania di Homs e Tripoli, circondate da filo spinato, sotto continuo scacco delle milizie di Zuara e delle altre oasi circonvicine, ed  in Cirenaica della fascia costiera che andava da Ghemines al confine egiziano, con i cinque centri fortificati di Bengasi, Barce (el Merg), Cirene, Derna Tobruk in cui erano concentrati circa 40.000 uomini.
Il comando effettivo delle nostre truppe venne affidato dall'inizio del 1915 al solo Ameglio, che pertanto aggiunse alla carica di governatore della Cirenaica anche quella di governatore della Tripolitania, mentre Tassoni fu destinato al comando in Italia della IV° armata sul settore della Carnia.

Si raccoglieva purtroppo ciò che si era seminato. 
Un autore scrisse: "La nostra condotta troppo violenta o troppo blanda, spesso capricciosa, larga con alcune tribù, dura con le altre, non ci aveva assicurato la fede delle popolazioni, che non avevano ancora capito che cosa volessimo" (G. Pantano23 anni di vita africana, Firenze, 1932).  

6. LA GRANDE GUERRA SI COMBATTE ANCHE IN LIBIA

Ma era intervenuto nel frattempo un ulteriore fatto nuovo.
L'Italia, sciolte tutte le sue riserve e abbandonata l'alleanza con gli Imperi Centrali, si era schierata con le Potenze dell'Intesa ed il 24 maggio 1915 era entrata anch'essa a piedi uniti nella Grande Guerra che si combatteva in Europa, dichiarando guerra all'Austria-Ungheria ed il successivo 25 agosto dello stesso anno anche alla Turchia, da poco aperta alleata della Triplice (praticamente al posto suo).


Ufficiali turchi nel deserto libico durante la prima guerra mondiale



La lotta dei ribelli libici contro gli occupanti italiani ebbe così un improvviso salto di qualità, con un rinnovato entusiasmo offensivo dovuto all'ormai aperto e visibile appoggio dei turchi e pure dei tedeschi, fino a quel momento sotto traccia e non ufficiale, mentre al contrario Cadorna continuava a ritenere assolutamente secondario il fronte libico, valutando probabilmente non a torto che i giochi veri si facessero sulle Alpi e sulle Dolomiti e non in Africa, dove peraltro ben più impegnati di noi erano proprio i britannici, che avevano a che fare con la rivolta senussita in Egitto e dovevano fronteggiare anche le armate turche in Medio Oriente e Palestina.
Proprio le vicende belliche in Europa, peraltro, avrebbero portato ad un certo punto, cioè al momento della tragica disfatta di Caporetto, a dei propositi di ritiro dell'Italia dalla guerra con la conseguente richiesta di una pace separata e quindi l'ovvia perdita della Libia.
Tutto questo come sappiamo non accadde.


La rivolta in Tripolitania

In Tripolitania Suleiman Al Barouni, da buon politico qual era sempre stato, ormai dirigeva un esteso movimento indipendentista che intendeva fondare un autonomo Stato, con l'aiuto interessato dei turchi ed il concreto apporto nella conduzione delle operazioni delle bande condotte dal patriota libico Mohmed Fekini, e mise subito a disposizione il porto di Misurata per le operazioni belliche contro gli italiani, tanto da farlo diventare la principale base logistica nel Mediterraneo per i sommergibili tedeschi, che la utilizzavano non solo per effettuare le loro consuete crociere di guerra contro il naviglio nemico ma pure per effettuare numerosi trasbordi di armi e munizioni, viveri e materiali vari, ma anche di consiglieri militari turchi e tedeschi, a favore degli stessi ribelli!!!




La rivolta in Cirenaica e nel Fezzan

In Cirenaica e nel Fezzan, invece, il Gran Senusso, che aveva i suoi centri principali nelle due oasi fortificate di Cufra e soprattutto di Giarabub situate in territorio egiziano ed il suo braccio armato in Libia nella banda dell'indomabile Omar Al Mukhtar, ormai il più affermato dei guerrieri anti-italiani, trovò grande aiuto dalla proclamazione della Jihaad, la Guerra Santa contro gli infedeli dell'Intesa, fatta dal Sultano Mehmet V il 5 novembre 1914, pochi giorni dopo l'entrata in guerra dell'Impero Ottomano, che a maggior ragione a quel punto venne allargata anche all'Italia.

Essa diede enorme forza morale e politica alle rivendicazioni senussite di indipendenza dallo straniero, non solo tra l'altro nei confronti dell'Italia ma anche dell'Inghilterra, che proprio in Egitto, Stato formalmente indipendente ma di fatto irrequieto suo vassallo, aveva alcune tra le sue più importanti basi d'oltremare.  


I Senussi si avviano a combattere gli inglesi in Egitto



La sconfitta dei Senussi e gli accordi di pace di el Acroma. Il Modus vivendi con l'Italia 

Per fortuna, mentre in Tripolitania gli italiani riuscivano a tenere ed anzi addirittura a riconquistare a poco a poco qualche oasi perduta (prima fra tutte proprio Zuara, ripresa nel maggio 1916, ma di seguito nel corso del 1917 anche Argelat, Sorman e Sidi Bilal, occupata nel settembre di quell'anno, con la distruzione il giorno 20 del campo nemico di Fundugh Ben Gascir), nella più problematica Cirenaica furono in qualche modo gli inglesi a darci una mano, sconfiggendo in Egitto, in quella liquida zona di confine con la Libia costituita dal deserto interno della Marmarica, tra Sollum e Marsa Matruk, le truppe turco-senussite spintesi all'attacco alla fine del 1915, con la conseguenza di spingere il Gran Senusso a chiedere loro di intavolare trattative nel marzo 1916, culminate poi negli Accordi di el Acroma del 17 aprile 1917, sottoscritti anche per la sua parte dal Regno d'Italia.
Idris al Senussi
Col cosiddetto Modus Vivendi l'Italia concesse in cambio della pace al Gran Senusso Sidi Muhammad Idris al Mahdi al Senussi, nipote del precedente che aveva abdicato, il titolo di Emiro, trasmissibile anche agli eredi, con la possibilità di avere proprie forze armate.

Lo Statuto Libico

Pacificata al momento la Cirenaica, tutti gli sforzi si dedicarono alla Tripolitania, dove il generale Garioni era subentrato nella carica ad Ameglio il 5 agosto 1918.
Tra l'agosto ed il novembre del 1918, sconfitti definitivamente gli Imperi Centrali e la Turchia, l'Italia riprese l'offensiva, utilizzando anche nei primi mesi del 1919 truppe fresche provenienti dall'Italia (che consentirono la formazione di due nuove divisioni, la 38° e l'81°, nonché l'invio in Africa della fortissima 1° divisione d'assalto, istituita dopo Caporetto e reduce dalle vittorie sul Piave e di Vittorio Veneto, costituita interamente da arditi e comandata dal famosissimo Maggiore Generale Ottavio Zoppi, già distintosi a Rodi e nella battaglia di Vittorio Veneto) e persino l'aviazione, ormai non più pionieristica come durante la guerra contro la Turchia ma ben più potente, armata e temprata dagli anni di guerra in Europa, rispetto ai quali le operazioni in terra africana apparivano delle autentiche passeggiate.

Ottavio Zoppi

Tutto questo portò in breve tempo ad un nuovo ribaltone, con le indomabili tribù tripoline, pur riarmatesi enormemente sfruttando tutti i magazzini e gli arsenali abbandonati  dagli sconfitti turchi e tedeschi, che vennero ripetutamente battute dagli italiani e costrette ad abbandonare tutte le regioni precedentemente in loro possesso, tranne la sola zona di Misurata, ormai da anni il centro propulsore della resistenza, alla quale era stato destinato l'attacco finale ad opera della 1° divisione d'assalto di Zoppi.



Finta battaglia organizzata a Tripoli per celebrare lo Statuto Libico
(Domenica del Coriere, 15/06/1919)
A questo punto, però, i capi tribali, che sin dal 16 novembre 1918 Cussabat si erano dati una sorta di governo autonomo, la cosiddetta "Giamahiria misuratina" con a capo lo sceicco Ramadan El Sceteui, trovarono un accordo con le autorità italiane di Tripoli, che venne autorizzato da Roma  e ratificato nel maggio 1919 a Challet Zeituni e portò allo Statuto Libico istituito dalla Legge fondamentale per la Tripolitania del 1° giugno 1919.
In cambio del disarmo generale progressivo della popolazione si concedeva una certa autonomia ai capi beduini, con la possibilità per questi di restare nelle loro oasi, mantenendovi dei nuclei armati, sia pure con la previsione di stabili missioni di collegamento con i nostri presìdi armati, presso i quali le popolazioni che lo volessero potevano andare a vivere per esserne protette (così avrebbero fatto i berberi del Gebel Nefusa, scacciati da lì  e venutisi ad installare a Zuara).
In cambio l'Italia otteneva comunque il diritto di mantenere propri presìdi armati nel Gebel, a Tarhuna, a Bani Walid, a Misurata ed a Sirte.






Il 31 ottobre 1919 le norme dello Statuto Libico vennero estese anche alla Cirenaica, tanto che gli accordi di el Acroma vennero sostituiti il 15 ottobre del 1920 da quelli di el Regima, a seguito dei quali vennero concesse all'Emiro nuove somme di denaro e la possibilità introdotta dal successivo  accordo di  Bu Mariam di un anno dopo (novembre 1921) di istituire campi misti in cui le truppe senussite regolarizzate convivessero con quelle italiane coloniali.
Poiché sembrava che finalmente la pace potesse tornare in quelle lande, l'imponente dispositivo militare italiano venne finalmente in gran parte rimpatriato e le divisioni smobilitate appena rientrate in Patria.
Si sperava infatti che ormai bastassero le truppe coloniali per mantenere l'ordine in Libia, e che gli accomodamenti intercorsi con i ribelli tripolini da una parte e quelli cirenaici dall'altra, sotto tanti punti di vista molto più favorevoli per le tribù rispetto alle originarie intenzioni italiane, avessero finalmente posto termine una volta per tutte alla enorme conflittualità precedente.
Ma invece non fu così.

7. LA LIBIA DI NUOVO IN FIAMME

Sia in Tripolitania che in Cirenaica molti accordi non venivano rispettati, ogni giorno si verificavano nuovi attacchi anche ai nostri presìdi più avanzati, occupati da truppe coloniali che non di rado subivano delle conseguenze molto spiacevoli, né era raro il caso di nostri ufficiali in missione presso le oasi presi in ostaggio dalle tribù in spregio al dovere dell'ospitalità (ed ovviamente agli accordi intercorsi) e costretti ad umilianti concessioni, mentre sia i capi senussiti che quelli tripolini alimentavano costantemente  il fuoco della rivolta, i primi in maniera più diretta e spiccia con azioni di forza  sempre più ardite e spericolate contro gli italiani e le tribù loro alleate, nelle quali emergevano sempre di più le bande di Omar Al Mukhtar, i secondi con l'uso anche della politica, mediante un apposito Comitato per le Riforme che mirava a coinvolgere persino dei parlamentari italiani, ma che se applicato avrebbe di fatto portato alla fine della sovranità italiana od al massimo ad una sua presenza solo formale e simbolica nella colonia e nulla più.
Sia le tribù tripoline che quelle senussite, insomma, avanzavano sia pure in maniera non sempre uguale sempre nuove rivendicazioni, diritti, titoli di preferenza, spesso alzando l'asticella delle pretese in concorrenza tra loro, e fino a quando da Roma glielo concessero le cose sembravano andare sempre meglio per loro.

Il caotico ritorno alla normalità nel primo dopoguerra

Nell'immediato primo dopoguerra l'Italia aveva in realtà molto trascurato la Libia, ed il modo probabilmente affrettato e remissivo con cui si era data autorizzazione agli accordi di pacificazione con i clan tribali libici lo dimostrava.
Vista la situazione oggi, col senno di poi, bisogna dire che in quel momento la situazione interna italiana era quasi esplosiva, immersa com'era nei problemi immensi, sociali, economici, politici ed anche culturali, se vogliamo, suscitati dalla "Vittoria mutilata" e da un caotico ritorno alla vita civile di milioni di italiani che avevano servito in armi la Patria e si vedevano ora improvvisamente messi da parte, pur con tutte le contraddizioni, le ingiustizie e le ineguaglianze che nel frattempo se possibile si erano persino aggravate, portando alle "Settimane rosse", all'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio (alla quale gli arditi del generale Zoppi avrebbero partecipato con entusiasmo) ed infine, per reazione a tutto questo, alla Marcia su Roma ed all'avvento del Fascismo di Benito Mussolini nel 1922.


L'occupazione di una fabbrica a Modena da parte delle guardie rosse nel 1920



Oltre a questo, tra il 1919 ed il 1920 l'influenza spagnola cominciò ad esondare in Italia come in tutte le contrade europee (avrebbe fatto 60 milioni di morti in totale) e lo Stato italiano, pur con le casse disperatamente vuote, doveva assolutamente far fronte ad un mare di spese per mantenere un minimo di funzionamento delle cose, comprese anche quelle derivanti da alcuni drammatici terremoti accaduti nell'Italia centro-meridionale, in particolare quello della Marsica (in Abruzzo), già prostrata economicamente e socialmente dalla fortissima emigrazione, avvertito dalla Pianura Padana alla Basilicata, che colpì quel territorio con una scossa di magnitudo 7 (11° grado della Scala Mercalli) il 13 gennaio 1915, causando 30.519 morti, di cui 10.700, più dell'80% dei residenti, nella sola Avezzano.
Tra queste spese in quel momento la Libia per i governi di Roma non poteva e non doveva essere una priorità. 
Anche da un punto di vista psicologico non si trattava più di un punto all'ordine del giorno ed infine non c'era la volontà di mantenere sul posto un onerosissimo esercito di occupazione come quello che sarebbe servito per far fronte alla ribellione sempre più dilagante: nonostante gli accordi intercorsi l'anarchia endemica delle tribù libiche aveva infatti portato ben presto a nuove frizioni.

L'avvento del fascismo cambia tutto


I Quadrunviri guidano la Marcia su Roma a fianco del futuro Duce: da sinistra a destra, in prima fila, Michele Bianchi, già sindacalista rivoluzionario, primo segretario del P.N.F., Emilio De Bono, vecchio generale dei bersaglieri, garante nei confronti dell'esercito, Benito Mussolini, Cesare Maria De Vecchi, esponente dell'ala monarchica e moderata, Italo Balbo, esponente dell'arditismo rivoluzionario e nazionalista

Ma dai primi anni '20 le cose improvvisamente cambiarono ed a un certo punto a Roma si  resero conto che la Libia, che fino a quel momento era sembrata quasi soltanto un costo, poteva invece essere una grandiosa opportunità.
Molti furono i fattori che indussero a questo cambio di scenario, ma soprattutto ne emerse uno: l'ascesa del movimento fascista di Benito Mussolini.
Mussolini, ormai abbandonati da tempo i vecchi trascorsi pacifisti, si era staccato dal partito socialista ed aveva aderito alle tesi interventiste alla vigilia della prima guerra mondiale, divenendo politicamente nemico del vecchio sodale Pietro Nenni, e per diffondere il suo pensiero aveva fondato un apposito quotidiano, Il Popolo d'Italia, lasciando la direzione de L'Avanti, organo del partito socialista.
Il neonato partito di Mussolini, il Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), non era altro che la definitiva evoluzione di un graduale percorso ideologico partito dal Mussolini socialista rivoluzionario massimalista del 1911 poi divenuto interventista al momento della Grande Guerra e fondatore di quel chiassoso movimento di protesta anarcoide che era il Fascio rivoluzionario d'azione interventista del 1914, evolutosi in seguito nell'immediato dopoguerra nei Fasci di combattimento del 1919, con l'accoglimento al suo interno delle idee nazionaliste dannunziane, fino alla trasformazione in partito, il 10 novembre del 1921, con un suo progressivo allineamento addirittura alle istanze filomonarchiche, una volta aborrite.


D'Annunzio arringa i legionari fiumani (1919-20)



Proprio per questo il nuovo movimento cominciò a spaventare i vecchi politici dell'epoca: il P.N.F., infatti, ancorché largamente minoritario in parlamento, si era dimostrato capace di saldare in successione alle originarie istanze di chiara ispirazione sociale e rivoluzionaria proprie anche del primo Mussolini socialista, repubblicano ed anti-sistema (ricordiamoci che proprio Lenin a suo tempo disse che solo Mussolini poteva fare la rivoluzione proletaria in Italia), proprie dei primordi della sua iniziativa, anche le rivendicazioni di tipo nazionalista di certo mondo militare patriottico, quello protagonista della impresa fiumana guidata da Gabriele D'Annunzio, uscito delusissimo dalla prova della Grande Guerra e voglioso di rivincite contro un sistema politico ritenuto incapace di far valere i diritti dell'Italia alle trattative di pace di Versailles (la già citata "Vittoria mutilata"), e da ultimo mostrava di riuscire anche a trovare accoglienza anche negli ambienti monarchici, una cosa assolutamente impensabile fino a poco tempo prima.
Mussolini e le sue squadre d'azione, in quel mondo impazzito che era l'Italia a cavallo tra il '19 ed il '21, avevano così gioco facile ad accusare chi era al potere di non riuscire ad opporsi a chi soffiava sul fuoco di una potenziale rivoluzione rossa come quelle che avevano portato al trionfo dei Soviet in Russia e squassato la Germania dell'immediato dopoguerra (portando alla nascita della debolissima Repubblica di Weimar, con gli esiti successivi che poi sappiamo), e questo stava portando ad una crescita nei consensi tra la classe media del paese, spaventata dal cosiddetto biennio rosso e dall'instabilità di un paese prostrato dalla guerra in cui i deboli governi liberali, avvertiti sempre più come lontanissimi dalla gente comune, si succedevano a cadenza brevissima l'uno dall'altro senza dare alcuna idea di capirci sul serio qualcosa.

8. GLI ITALIANI ALLA RISCOSSA 




























Le compensazioni territoriali alleate nelle colonie

Costretti dalla realtà a trovare delle soluzioni che potessero in qualche modo impedire una deriva sempre più forte verso l'anarchia e lo scontro armato tra le parti avverse, i rossi e i neri, che ormai si confrontavano sempre più apertamente con le armi spianate, in tutte le lande d'Italia, facendo balenare sempre di più lo spettro incombente di una vera e propria guerra civile, i notabili liberali dovevano inventarsi qualcosa.
Luigi Facta

Era il periodo in cui, per quanto in misura meno grande di quanto ci si aspettasse, l'Italia cominciava ad avere dagli alleati del 15-18 quelle compensazioni territoriali che le spettavano quale Potenza vincitrice, e tra esse ve n'erano anche a favore delle sue colonie: a favore della Libia ci furono così nel 1919 diverse regalie della Francia nel Fezzan (cedute dai suoi possedimenti coloniali di confine in Algeria e nell'attuale Niger), cui sarebbero seguite nel 1935 altre cessioni concernenti territori appartenenti all'attuale Ciad, ed un'estesa donazione, più o meno spontanea, da parte dell'Egitto (che faceva solo quello che voleva l'Inghilterra) in Cirenaica, tutta incentrata sull'oasi di Cufra, uno dei due santuari della Senussia, e sul suo vastissimo entroterra.
A questa ragguardevole crescita territoriale si sarebbe aggiunta, nel 1926, l'ulteriore acquisizione dell'oasi di Giarabub, anche qui ceduta dall'Egitto all'Italia, ed infine nel 1934 altri territori più a sud già appartenenti al Sudan anglo-egiziano.
Quale migliore occasione da sfruttare per mettere a tacere le sguaiate proteste dei nazionalisti ed al contempo dare al popolo una nuova speranza nel futuro?

Giovanni Amendola
Fu così che a partire soprattutto dal governo liberale di Luigi Facta, nominato il 26 febbraio 1922, con ministro delle colonie Giovanni Amendola, si cercò di dare una sterzata nella nostra politica coloniale in tal senso, nominando governatore in Tripolitania il banchiere Giuseppe Volpi, colui che più di tutti aveva spinto nel 1911 per l'acquisizione della colonia libica, con l'incarico di ristabilire una volta per tutte la sovranità italiana al fine di favorire un ripopolamento italiano di quella regione tuttora pressoché disabitata (vi vivevano solo 550.000 persone in tutto) con tanti coloni provenienti dall'Italia.

Giuseppe Volpi nel 1925

4  novembre 1922: Vittorio Emanuele saluta
il nuovo capo del governo















Ma ormai per la vecchia classe politica liberale, rimasta al secolo scorso come idee e valori, era troppo tardi per far fronte alla marea montante del fascismo e la Marcia su Roma del successivo 28 ottobre ne avrebbe inevitabilmente sancito la fine, portando alle dimissioni di Facta due giorni dopo ed alla conseguente ascesa al potere dell'ormai lanciatissimo Benito Mussolini, nominato dal Re nuovo capo del governo.







Da Roma le idee al riguardo del nuovo governo, ancora non apertamente dittatoriale, erano chiarissime: bisognava consentire una  intensa colonizzazione di quella che veniva definita in maniera magniloquente anche se chiaramente esagerata la "Quarta sponda" dell'Italia (oltre alle tre metropolitane, l'adriatica, la tirrenica e la ionica).
Lo richiedevano certamente questioni di prestigio internazionale dell'Italia, uscito gravemente compromesso dalle deludenti trattative di Versailles, ma soprattutto esigenze di politica interna tra cui fondamentale era quella di dare uno sfogo positivo alle tante energie inespresse di quelle classi lavoratrici e soprattutto contadine che erano ridotte ai limiti della povertà assoluta, alimentando anche per questo motivo le rivendicazioni giunte fino alla sovversione armata dei socialisti e dei neonati comunisti, di stretta osservanza internazionalista rivoluzionaria: i due partiti che dominavano i principali sindacati impegnati ormai a proclamare un giorno sì e l'altro pure scioperi generali e manifestazioni che spesso sfociavano in scontri armati con le forze dell'ordine e le stesse camicie nere fasciste.
I coloni italiani fino ad allora si erano concentrati ovviamente nella zona mediterranea della Libia, più urbanizzata e civile, con ottime prospettive di utilizzazione agricola ma soprattutto l'unica fino a quel momento sotto effettivo controllo delle sole Autorità italiane, ma ovviamente la situazione doveva essere normalizzata una volta per tutte sull'intero territorio della colonia.
Ecco perché, contemporaneamente a questa opera "civilizzatrice", Volpi doveva sin da subito avviare le prime operazioni organiche di repressione della guerriglia anticoloniale, ormai non più rinviabili, che da quel momento sarebbero sempre state eufemisticamente definite come semplici "Operazioni di polizia coloniale", ma che in realtà avrebbero assunto un carattere di vera e propria guerra.
E molto brutta, pure.

9. RODOLFO GRAZIANI RICONQUISTA LA  TRIPOLITANIA 





Volpi passa alla controffensiva

Sin dall'inizio Volpi prese molto sul serio il compito che gli era stato affidato.
Giunto in Libia nel luglio 1921, la prima cosa che notò fu che dei 21000 soldati presenti  in Tripolitania solo 2500 appartenevano ai gruppi mobili, mentre tutti gli altri erano chiusi nelle guarnigioni costiere dalle quali assistevano praticamente senza colpo ferire ai sempre più numerosi colpi di mano che venivano effettuati dai ribelli.
La situazione doveva finire al più presto.
Immediatamente furono date disposizioni affinché venissero adeguatamente rinforzate in uomini, armi e mezzi le colonne mobili, assegnando ad ognuna di esse una zona di competenza, e allo stesso tempo si chiamarono dalla Madre Patria numerosi ufficiali con esperienza di guerra che dessero nuovi ritmi e nuova vitalità alle operazioni in terra libica.

Per dare subito un segnale della nuova situazione, spalleggiato dal ministro Amendola, Volpi passò all'azione: all'alba del 26 gennaio 1922 con un colpo di mano magistrale carabinieri, zaptiè (cioè i carabinieri indigeni) ed ascari eritrei occuparono Misurata Marittima.
Fu solo l'inizio di una progressione inarrestabile di vittorie che avrebbero portato alla totale pacificazione della Tripolitania in cinque anni.
Le nostre forze coloniali, ormai temprate da anni di duri scontri ed organicamente forgiate in un corpo unico moderno qual era ormai diventato il Regio Corpo Truppe Coloniali, avevano acquisito un'efficienza ed una disciplina invidiabili.



Con l'appoggio in grande stile degli aerei (soprattutto bombardieri Caproni e caccia SVA della prima guerra mondiale, oltre a più recenti caccia-ricognitori IMAM ROMEO Ro.1), che senza ovviamente incontrare resistenza alcuna spezzonavano e bombardavano direttamente le mehalle ribelli in movimento, preavvertiti in anticipo delle loro mosse via radio da parte dei soldati a terra, i rinnovati gruppi mobili cominciarono letteralmente a scavare il terreno sotto i piedi dei ribelli, rimasti privi del fattore sorpresa, eguagliati se non superati nella mobilità e nella conoscenza dei luoghi e con una potenza di fuoco incomparabilmente inferiore rispetto a quella degli italiani, giunti a mettere in linea per la prima volta su quel teatro persino i (modesti) carri armati del tempo, una compagnia di FIAT 3000 Mod. 21, versione migliorata  del carro francese FT-17, armata di due mitragliatrici da 6,5 mm (SIA Mod. 1918 o FIAT Mod. 29, con 3840 colpi).
Gli italiani all'epoca li definivano incredibilmente "carri di rottura" , ma in effetti avevano le stesse dimensioni di una (più o meno) moderna Panda, solo di poco più alti, com'è agevole vedere guardando la foto sotto.

FIAT 3000 Mod. 21: si vedano le proporzioni con i carristi

Comincia a brillare l'astro di Rodolfo Graziani

Rodolfo Graziani in zona d'operazioni

Tra gli ufficiali veterani che dall'Italia erano ritornati in Libia si cominciò a distinguere un colonnello laziale nato l'11 agosto 1882 a Filettino, in provincia di Frosinone, da genitori borghesi (il padre era medico condotto): Rodolfo Graziani.
Questi era stato avviato agli studi religiosi dalla famiglia presso il seminario di Subiaco, ma aveva ben presto scoperto che la sua vera vocazione era quella militare, nonostante le palesi simpatie da ventenne irrequieto per il socialismo rivoluzionario, che sembra l'avessero spinto addirittura a manifestare adolescente davanti all'ambasciata russa dello Zar e di sicuro gli procurarono qualche guaio anche da allievo ufficiale di complemento: non avendo i suoi infatti la disponibilità economica per mandarlo all'Accademia di Modena, la sua carriera era cominciata dal basso,  nel 1904, come allievo ufficiale nel 94° fanteria di Roma; superato l'esame da ufficiale e promosso sottotenente era stato trasferito prima al 92° di Viterbo ed infine nel 1906 al 1° reggimento Granatieri di Roma. 
Trasferito in Eritrea, aveva imparato perfettamente arabo e tigrino e, dopo un periodo di un anno di convalescenza a causa del morso di un serpente si era ben distinto nella guerra di Libia e poi nella Grande Guerra, iniziata da capitano e finita da plurimedagliato (e pluriferito)  colonnello, nel 1918, a soli 36 anni, il più giovane colonnello della storia d'Italia.
Dopo la guerra, trasferitosi a Parma, era stato qui segretamente condannato a morte dal comitato rivoluzionario durante il biennio rosso e si era dato quindi al commercio con l'oriente, con modesti risultati, rifiutando tutti gli incarichi civili e militari, per poi accettare appunto il richiamo in servizio con destinazione la Libia.

Le azioni su Nalut e Jeffren

Fu così che proprio Graziani fosse tra i protagonisti il 1° giugno 1922 della ripresa di Nalut, una cittadina berbera nel Gebel Nefusa, al confine con la Tunisia, a metà strada tra Tripoli a nord-est e Ghadames a sud-ovest.
Era infatti al comando di una delle quattro colonne mobili italiane che con una manovra avvolgente avevano rapidamente costretto alla capitolazione quella antica località, posta a poco più di seicento metri di altezza, ed avviato quindi il rastrellamento generale e la susseguente riconquista della Gefara e poco dopo del Garian.
A fine ottobre del 1922, proprio in contemporanea con quella su Roma, ancora il colonnello Graziani occupava al termine di una lunga marcia con i suoi uomini l'abitato di Jeffren, situato ad est del Gebel Nefusa.
L'incrocio di tali avvenimenti, unito al casuale ritrovamento di una moneta romana, avrebbe forse indotto l'ambizioso ufficiale a ridondanti paragoni con illustri personaggi dell'epopea romana come quelli cui si richiamava platealmente il nascente regime, come testimonia questo suo scritto che descrive proprio quelle circostanze, citato nel libro "Italiani, brava gente?" di Angelo Del Boca (Neri Pozza Editore) : 

"E volle anche il destino che si combattesse intorno al secolare mausoleo di Suffit e che anche io trovassi, fra i ruderi di esso, una moneta antichissima, con la figura di Roma imperante sul retro e quella di un maschio imperatore sul verso, moneta che più tardi mi fu concesso di offrire al Duce. Volli che ivi le mie truppe vittoriose presentassero le armi all'avvento del Fascismo e glorificassero ai quattro venti ed in cospetto del deserto la nostra grande vittoria finalmente vendicata e redenta, traendo i migliori auspici per il prestigio d'Italia in terra d'Africa"


La didascalia recita: QUARTA SPONDA - Vi accompagno, Maresciallo,
io conosco la strada
Le colonne mobili italiane passano di successo in successo

Nel 1923 al termine di un attacco congiunto di tre colonne in direzione di Tarhuna la colonna del Gebel dell'ormai lanciatissimo Graziani (3700 fucili, 350 cavalieri e 4 pezzi) entrò in quel fortilizio alle 18,00 del 6 febbraio al termine di una serie di scontri che causarono la morte di 1500 ribelli, mentre in precedenza la colonna mobile della Msellata condotta dal colonnello Pizzari (3100 fucili, 300 cavalieri e 4 pezzi), al termine di una lunga corsa partita il 29 gennaio da Tagiura, aveva conquistato il 4 febbraio dopo una serie di scontri vittoriosi la località di El Gusbat, catturando armi e bestiame, e quella della Gefara del tenente colonnello Belly partita da Azizia (1400 fucili, 220 cavalieri, 4 pezzi) si era impadronita il 2 febbraio di Sidi el Uled, ad occidente della stessa Tarhuna
In queste operazioni si distinse per valore ed attaccamento al dovere lo squadrone zaptiè di manovra del R.C.T.C. della Tripolitania (150 sciabole al comando del capitano Contarini), creato sin dal 1916, che fu citato all'Ordine del Giorno per la travolgente carica di Sidi bu Argub (31 gennaio 1923), definita la "nuova Pastrengo" e caricò ancora vittoriosamente a Sidi el Girani (2 febbraio), e nei pressi della stessa Tarhuna il 4 febbraio.

La carica di Sidi Bu Argub dello squadrone zaptiè a cavallo del R.C.T.C. Tripolitania (Alberto Parducci)
A quel punto con un'altra azione congiunta delle colonne Pizzari (3900 fucili, 300 cavalieri e 4 pezzi) e Graziani (3500 fucili, 350 cavalieri e 4 pezzi), vanamente contrastata in più occasioni dalle tribù arabo-berbere, venivano prese prima Zilten,  il 23 febbraio,  e poi la stessa Misurata, riconquistata la sera del 26 febbraio, con la prima delle due colonne che utilizzando le strade della costa materialmente entrava nelle due città e la seconda che le proteggeva il fianco agendo per vie più interne e occupando tutte le località incontrate via via.
Era un colpo mortale per i ribelli della Tripolitania, perché significava la fine del sogno della Giamahiria: a maggio, pur nettamente superiori di numero, le sfiduciate mehalle arabo-berbere vennero letteralmente travolte a Bir Tagemut, con la conseguente occupazione italiana di Taorga, ed un ultimo tentativo di riscossa dopo un breve periodo di stasi venne frustrato dal pronto intervento dei gruppi mobili dei colonnelli MezzettiMarghinotti e Galliani, che nel corso di una estesa azione di rastrellamento condotta con largo dispiegamento di cavalieri e meharisti e punteggiata da numerosi scontri a fuoco riportarono l'ordine in tutta quella regione, causando 1300 perdite nelle file del nemico al prezzo di 204 caduti, 474 feriti e 3 dispersi. 
Il 19 settembre a Gars-Garabulli il solito squadrone tripolitano zaptiè a cavallo si sarebbe coperto una volta ancora di gloria, tanto che per il suo brillante comportamento in tutta la campagna tripolitana 1922-23 sarebbe stata concessa alla bandiera dell'Arma per la Divisione Tripolitania  la Croce di Guerra al Valor militare.

Rodolfo Graziani posto al comando delle truppe italiane in Tripolitania

Mentre il Comando della Milizia su richiesta del ministero della guerra e di quello delle colonie predisponeva nel settembre 1923 l'arruolamento straordinario di tremila camicie nere da inviare in Libia, con ferma minima di otto mesi e trattamento economico eguale a quello dei Cacciatori d'Africa (ma inferiore per gli ufficiali agli omologhi dell'esercito), con la costituzione quindi di tre legioni al comando del Console Generale Vittorio Vernè, la 132° Monte Velino di Avezzano, al comando del Console Enrico Pamphilii (52 ufficiali e 977 camicie nere), la 171° Vespri di Palermo (Console Giannini, 35 ufficiali e 689 cc.nn., quasi tutte veterane del Carso) e la 176° Cacciatori Guide di Sardegna, di Cagliari (Console Riccomanni, 51 ufficiali e 1067 cc.nn., la grande maggioranza veterani di guerra), Rodolfo Graziani, ormai consacratosi il principale stratega della guerra coloniale, venne promosso generale di brigata ed assunse il comando di tutte le truppe italiane presenti sul territorio, riorganizzandole in ben sei gruppi mobili

1) colonna del Gebel, al suo diretto comando (400 fucili, 530 cavalieri, 4 pezzi); 

2) colonna orientale Mezzetti (3500 fucili, 520 cavalieri, 4 pezzi); 

3) colonna Marghinotti (850 fucili, 130 cavalieri, 2 pezzi); 

4) colonna Malta (8oo fucili); 

5) colonna Volpini (500 fucili, 50 cavalieri); 

6) colonna Galliani (250 fucili, 90 cavalieri).

Di riserva generale, a disposizione diretta dello stesso Graziani, erano posti un battaglione eritreo e due squadroni di savari.

Cavalieri savari a Roma nel 1926. Fu uno squadrone di questi provetti cavalieri libici a catturare Omar Al Mukhtar

La sovranità italiana torna sull'intera Tripolitania

Completata definitivamente la riorganizzazione delle forze a sua disposizione, Graziani avviò a partire dal 4 febbraio del 1924 la parte finale dell'offensiva sull'intero territorio di Nalut, facendo occupare dai suoi battaglioni coloniali Sinauen (presa il giorno 7 dalla colonna del maggiore Volpini, forte di 1000 fucili, 240 meharisti e 70 cavalieri), Derg ed infine il 15 dello stesso mese Ghadames, al confine algerino, dopo un breve e sanguinoso scontro armato a Bir el Uotia, mentre il 10 aprile un gruppo sahariano occupava l'oasi di Mizda: dopo tutte queste vittorie venivano riallacciati i contatti tra gli italiani e le popolazioni del Ghat, del Fezzan e anche coi Tuareg, con la possibilità quindi di avviare nuove azioni ancor più in profondità in un contesto finalmente meno ostile e quindi più favorevole alla preparazione delle nuove offensive, con ormai unico obiettivo la Sirtica, regione settentrionale della Tripolitania in cui erano andati a rifugiarsi tutti i capi ribelli con le rispettive tribù finora sfuggiti all'inseguimento delle truppe coloniali italiane. 

Il gruppo Spahis della Tripolitania 1917-1932
L'azione finale veniva preparata molto accuratamente sul piano politico, favorendo in un primo momento il pacifico rientro nei loro villaggi delle genti del Misuratino e dell'Orfella, fino a quel momento fuggite sotto l'incalzare degli avvenimenti bellici, per poi scattare repentinamente a novembre: le truppe italiane al comando del colonnello Mezzetti, in totale 3 battaglioni libici, 3 squadroni a cavallo, una batteria ed altri elementi, partirono da Misurata percorrendo la costa occidentale della Gran Sirte e, battute le residue forze nemiche proprio a Gasr Bu Hadi, riscattando la tremenda sconfitta di nove anni prima del colonnello Miani, entravano vittoriose a Sirte il 23 novembre 1924.
Il cerchio si chiudeva definitivamente con la definitiva riconquista della regione degli Orfella, nella seconda metà di dicembre: le colonne Mezzetti e Marghinotti presero Sedada il 22 dicembre, catturando moltissime armi e munizioni al nemico; queste stesse due colonne poi giunsero in appoggio di quelle dello stesso Graziani e di Malta, impegnate il 27 dicembre nella presa di Beni Ulid, che venne espugnata proprio dal II° battaglione libico, quello che era stato costretto alla resa nove anni  prima ed al cui comando era il povero maggiore Brighenti poi suicidatosi in prigionia. 
Il giorno dopo la colonna Malta completò l'opera occupando Bu Schemech.
Nei successivi tre anni le azioni italiane si sarebbero limitate ad una serie di efficaci rastrellamenti da parte delle colonne mobili, ormai saldamente padrone del territorio, sotto la costante vigilanza di un reticolo di presìdi piccoli, medi e grandi ad attestare inconfutabilmente la presenza visibile della sovranità italiana, affidati per lo più a speciali reparti sahariani, con l'istituzione in particolare di Commissariati civili nel Gebel e la creazione del Comando dei territori del sud tripolitano, con competenza sullo stesso Gebel, sull'Orfella, Ghigla, Giofra e Fezzan.

10. IL NUOVO GOVERNATORE DELLA TRIPOLITANIA, EMILIO DE BONO

Giuseppe Volpi, chiamato nel 1925 da Mussolini a dirigere il Ministero delle finanze ed onorato del titolo di Conte di Misurata dal Re per i suoi servigi, non era comunque più il governatore della Tripolitania: al suo posto ora c'era dal 3 luglio di quell'anno il vecchio generale dei bersaglieri nonché senatore  del Regno Emilio De Bonoquadrunviro del Fascismo, già capo della polizia e primo comandante della Milizia (incarichi lasciati a seguito della tragica vicenda dell'assassinio Matteotti in cui era sembrato in qualche modo coinvolto, pur uscendone assolto): un anziano e plurimedagliato generale in pensione, distintosi nella presa di Gorizia nel 1916, poi da comandante del IX° corpo d'armata nella difesa del monte Grappa nel marzo 1918 oltre che nella vittoriosa battaglia del Solstizio del giugno successivo, senza la quale non ci sarebbe stata Vittorio Veneto, famoso anche per avere composto la famosa Canzone del Monte Grappa, vero titolo "Monte Grappa, tu sei la mia Patria", musicata dal suo collaboratore diretto capitano Antonio Meneghetti, valente compositore.

Emilio De Bono


Nel 1927 la Tripolitania era pressoché definitivamente pacificata, con la rioccupazione di 350.000 chilometri quadrati di territorio da parte di un totale di non più di 14000 uomini, di cui 10000 utilizzati nelle zone costiere e 4000 nell'interno, al costo di 620 caduti, 1924 feriti e 38 dispersi, a fronte di 6000 morti tra i ribelli.
Tutto sommato, forse, Cadorna non aveva tutti i torti quando lesinava i rinforzi in Libia, alla luce di tutti questi numeri, dicendo che le truppe presenti potevano bastare.

11. E' L'ORA DELLA SENUSSIA

In Tripolitania, tutto sommato, lo scontro con le tribù locali era stato asperrimo tra la prima guerra mondiale e il 1922ma assai più agevole successivamente, quando ormai l'apporto degli alleati era venuto meno e l'avvento di Volpi come governatore aveva portato ad un significativo balzo in avanti della reazione italiana, con la presa immediata proprio di Misurata Marittima sin dal '22 e le conseguenti vittorie dei diversi gruppi mobili coloniali di Graziani.
La vittoria italiana era stata però favorita anche dall'intelligente scelta politica di dividere le file avverse, anche con la corruzione se del caso, favorendo palesemente chi si sottomettesse ai colonizzatori e colpendo invece con durezza chi si ostinasse a resistere: per quanto coraggiosi, i capi arabi e berberi della Tripolitania spesso si odiavano tra loro, divisi da rivalità e gelosie in tanti casi risalenti a decenni se non secoli prima, e non riuscirono mai in effetti a trovare un'efficace linea unanimemente condivisa per contrastare gli italiani, finendo con l'agire in ordine sparso.
Il contrario sarebbe accaduto invece nelle zone ricadenti nell'influenza della Senussia, sia in Cirenaica che nel Fezzan, un contesto socio-culturale del tutto diverso in cui i pur esistenti contrasti tra i vari clan tribali trovavano però una ricomposizione unitaria nell'Autorità indiscussa dell'Emiro Idris, a maggior ragione dopo aver ottenuto anche sul piano formale, a seguito degli accordi di Acroma, di Regima e di Bu Mariam (grazie anche al fondamentale contributo britannico), una fortissima legittimazione che gli conferiva ulteriore prestigio agli occhi delle varie popolazioni di quell'immenso territorio. 
La realizzazione da parte dell'emiro senusso di una rete capillare di zawiye (centri religiosi islamici), scuole, basi militari, commerciali, portava naturalmente a pensare ad una visibile idea  di autonomia talmente larga da sfociare ben presto in vera e propria indipendenza di fatto, almeno nella percezione comune di quelle genti, tanto che i capi cirenaici riuniti ad Agedabia nel gennaio del 1919 si sarebbero permessi di dire: "Le popolazioni, con o senza statuto, avrebbero tollerato gli italiani solo alla costa e con un mandato commerciale", come se fossero loro a concedere ai pur formali dominatori una sorta di benevola e limitata autorizzazione e stop.
D'altronde sarebbe stato lo stesso Pietro Badoglio, nel luglio 1940, presiedendo una riunione dello Stato Maggiore Generale, a commentare così gli accordi col Senusso: "Durante la guerra ci siamo ridotti alla costa in Tripolitania e non è avvenuto altrettanto in Cirenaica perché ci siamo venduti alla Senussia".
Su queste basi la convivenza, evidentemente insincera da entrambe le parti (ma poteva non essere così?), non poteva durare.
E non durò, dando origine all'ennesima guerra.

Le prime operazioni del nuovo governatore Bongiovanni

Dal 7 gennaio 1923 era governatore della Cirenaica il Tenente Generale Luigi Bongiovanni, di Reggio Emilia, un ottimo ufficiale di artiglieria sin dal marzo 1918 preposto però come maggior generale al comando della nascente aeronautica, di cui era strenuo sostenitore (fu tra gli ispiratori del famoso Volo su Vienna di D'Annunzio, si veda QUI, cui lo legava un sentimento di amicizia) e che contribuì a rafforzare sensibilmente sul piano addestrativo, delle tattiche d'impiego e della ricognizione strategica.
Al termine di tale incarico era stato promosso di grado e nominato comandante superiore delle forze italiane nel Mediterraneo Orientale, con sede a Rodi, per poi essere messo tuttavia clamorosamente a riposo nel 1920 a seguito dell'inchiesta subita dalla commissione dell'esercito sulla disfatta di Caporetto (era il comandante del VII° corpo d'armata, il primo ad essere stato travolto dagli austro-tedeschi).
Ma l'uomo era di riconosciute capacità organizzative e di comando, per cui dopo soli pochi mesi, nel dicembre 1922, era stato richiamato in servizio col compito specifico di riconquistare l'intera regione.
Poiché è personaggio poco conosciuto, per una sua biografia vi invito a leggere QUI
Bongiovanni, come suo primo atto di governo, su impulso diretto del nuovo ministro delle colonie Luigi Federzoni (sì, proprio il giornalista che dieci anni prima raccontava le prime imprese aviatorie italiane), intervenne a piedi pari sulle ormai annose dispute che dividevano il parlamento bengasino dalle autorità italiane.

Luigi Federzoni parla con Mussolini

Come a voler dare subito il segnale che la misura della pazienza contro le continue pretese tribali era ormai colma prese a pretesto il rifiuto del presidente senusso di quel consesso, Safi ad Dindi attenersi strettamente al rispetto dei patti di Bu Mariam e ne approfittò per proclamare lo stato d'assedio, avviando immediatamente le azioni militari che avrebbero portato il 21 aprile successivo all'occupazione di tutto l'entroterra meridionale bengasino e soprattutto di Agedabia, dove aveva sede formale l'Emirato, dopo di che denunciò tutti gli accordi stipulati con la Senussia.


Bombardiere Caproni Ca. 450, reduce dalla prima guerra mondiale, molto usato in Libia
Dal 21 dicembre 1922 Idris al Senussi era andato in volontario esilio in Egitto, ma aveva nominato come governatore della Senussia suo fratello Mohammed Er-Reda e come comandante militare unico il sempiterno Omar Al Mukhtar, ormai per tutti i libici "Il Leone del Deserto", che abbiamo più volte incontrato, ormai a capo di una banda di molte migliaia di uomini e appoggiato da gran parte della popolazione, l'uomo che sin dal 1911 in aiuto dei Turchi si era dimostrato il più acerrimo nemico degli invasori italiani. 
Nonostante  le apparenze potessero far pensare il contrario, tuttavia, le cose non andavano affatto lisce come gli italiani credevano: alcune colonne di rifornimenti scortate da autoblindo dirette ad Agedabia furono distrutte il 10 giugno nei pressi dei pozzi di Bir Balai e lo stesso avvenne per due compagnie del VII° eritreo accorse l'indomani in soccorso dopo essere state richiamate da Marsa Brega. 
Ciò portò ad un cambio dei vertici militari, con l'avvento al comando dell'ora generale Pizzari, il quale riuscì però solo a spostare l'avanzata italiana al massimo sino al 32° parallelo, assestandosi a Cirene con l'apprestamento di presidi tenuti da ascari eritrei a GerdesCerrari Gaulan.

Omar Al Mukhtar al comando delle sue mehalle nella raffigurazione filmica de "Il Leone del deserto" (lo interpreta Anthony Quinn)

Ma la guerra era solo agli inizi: sarebbe stato un conflitto lungo, durissimo, pieno di efferatezze da entrambe le parti, nel quale la figura di Omar al Mukhtar avrebbe definitivamente trovato la sua imperitura consacrazione entrando nel Mito.
Il Leone del deserto aveva occhi e orecchie dappertutto, sfruttava con enorme sapienza  le peculiari caratteristiche  geo-ambientali del territorio ed era apertamente appoggiato dalla popolazione della Cirenaica: utilizzando così volta per volta bande cammellate e/o a cavallo, spesso composte di poche decine di uomini, riusciva regolarmente a cogliere di sorpresa gli italiani con azioni velocissime e letali ai danni di singoli distaccamenti, colonne, presìdi, carovane, per poi sparire coi suoi all'istante, al riparo dei loro nascondigli, prima ancora che i suoi nemici potessero abbozzare una reazione, il tutto senza accettare scontri diretti in campo aperto che l'avrebbero visto inevitabilmente soccombere.

Omar Al Mukhtar coi suoi Mujahideen (patrioti): si noti come il film coprodotto da Gheddafi si rifacesse molto alle foto esistenti del Leone del deserto
12. L'OCCUPAZIONE DI GIARABUB 

L'occupazione di Giarabub (Domenica del Corriere del 21 febbraio 1926)
Una prima forte svolta a favore degli italiani avvenne però sotto il nuovo governatore della Cirenaica, il Generale Ernesto Mombelli, succeduto a Bongiovanni, rimasto seriamente ferito in un incidente aereo nei primi mesi del 1924.

Ernesto Mombelli
Il 7 febbraio 1926 una forte colonna motorizzata italiana, partita il primo giorno del mese da Amseat e guidata dal colonnello Ronchetti, forte di 822 nazionali e 1645 eritrei (il IX° e il X° battaglione eritreo condotti su 350 autocarri, uno squadrone di meharisti, una squadriglia di 12 autoblindomitragliatrici FIAT Terni, una batteria autoportata da montagna con pezzi da 65, una sezione di carri d'assalto FIAT 3000 mod.21, peraltro responsabili di notevoli ritardi nella marcia per la loro lentezza, i continui insabbiamenti ed i frequenti guasti, fonti di gigantesche arrabbiature di Graziani verso i poveri carristi) si presentò all'improvviso davanti agli sgomenti capi arabi locali ed occupò senza incontrare praticamente resistenza l'oasi di Giarabub, che in seguito agli accordi italo-egiziani dell'anno prima era stata ceduta all'Italia insieme con il suo vastissimo entroterra.

Un carro armato italiano FIAT 3000 Mod. 21 raffigurato nel deserto libico

Lo sceicco senussita Sciaref el Gariani, prontamente sottomessosi, venne designato nuovo custode dei luoghi santi dell'oasi: la moschea, la tomba del fondatore della confraternita e la locale zawiya.

Il colonnello Ronchetti viene omaggiato  dal capo senussita di Giarabub 
(L'Illustrazione del popolo, 21.02.1926) 
Si trattò di una vittoria dal valore simbolico altissimo, perché insieme con Cufra (ceduta sin dal 1919 dall'Egitto ma tuttora inviolabile per gli italiani) il marabutto di Giarabub, concesso dal Sultano nel 1861 all'Emiro senusso di allora, era uno dei due più importanti luoghi sacri della Senussia, praticamente il suo quartier generale, quello da cui partivano da sempre i raid contro gli italiani sul versante libico e gli inglesi su quello egiziano, e la sua perdita senza colpo ferire apparve probabilmente quasi come un segno di abbandono divino.
Per favorire quest'audace spedizione tre colonne italiane, Garelli, Lo Cascio e Spernazzati, avevano impegnato in diversi combattimenti le tribù del Gebel cirenaico, al fine di non far affluire rinforzi al marabutto sotto attacco, e dopo la consueta pausa invernale altre quattro, Nicastro, Moramarco, Ferrari e Piatti, erano state impegnate in altre operazioni tese ad impedire infiltrazioni del nemico nei luoghi ora in mano agli italiani: in uno degli scontri, accaduto a fine giugno durante una ricognizione sullo Uadi el Ge Reichvenne colpito a morte il maggiore Ferrari, comandante di una delle colonne.


Un'autoblinda Terni, usata per l'occupazione di Giarabub e Cufra

13. LA SCONFITTA DI ER RAHEIBA ED IL TRIONFO DI HALUG EL GIR  

I guerriglieri senussi di Al Mukhtar continuavano però imperterriti a compiere continue incursioni ai danni delle guarnigioni e delle carovane degli italiani e delle tribù loro alleate, attaccate persino nelle loro oasi, e questo non poteva essere tollerato dalle nostre Autorità, che vedevano in tal modo messa in grave pericolo la loro politica di pacificazione con i clan che accettavano di sottomettersi.
Attilio Teruzzi
Si giunse così all'ennesimo cambio al vertice, con la decisione di sostituire Mombelli con Attilio Teruzzi, stretto collaboratore del Duce, già ufficiale pluridecorato tra Libia e prima guerra mondiale e poi, una volta congedatosi da capitano, nominato nel '21 vicesegretario del P.N.F., a capo delle squadre dell'Emilia Romagna alla Marcia su Roma ed infine e fino a quel momento sottosegretario agli interni del nuovo governo fascista.
L'esordio di Teruzzi, deciso a non dare tregua ai ribelli, non fu però brillantissimo: nel corso di una più vasta operazione di rastrellamento tesa a liberare l'intero sud bengasino per assicurare le comunicazioni via terra tra Bengasi ed Agedabia e aprire la strada ad un ricongiungimento della Cirenaica con la Tripolitania il 28 marzo 1927 il VII° battaglione libico venne annientato dai mujahideen di Al Mukhtar a Er Raheiba: nel disastro di quella giornata morirono 310 soldati sui 756 che componevano il battaglione!
Tra i caduti di quella triste giornata non si può non ricordare, oltre al maggiore Bassi, il tenente Ettore Cantagalli Del Rosso, di San Miniato (allora in provincia di Firenze, ora di Pisa), primo e unico giornalista caduto in quella guerra, redattore de Il Corriere di Livorno, eroe dei bersaglieri nella Grande Guerra (premiato con la medaglia di bronzo al valor militare e con la Croce inglese per aver salvato un ufficiale pilota britannico abbattuto sul Piave, attraversando a nuoto per ben quattro volte le gelide acque del fiume): la sua è una storia molto particolare, basti pensare che solo poco tempo fa si è scoperto che era tra i caduti di Er Raheiba, perché fino a solo pochi anni addietro si pensava che fosse morto proprio nel corso della prima guerra mondiale (per chi volesse saperne di più consiglio di leggere qui).  

Il Generale Ottorino Mezzetti, subentrato alla guida delle truppe coloniali italiane, si rese subito conto che il morale dei quadri era basso, che le cose andavano troppo per le lunghe al contrario di quanto accaduto in Tripolitania e le difficoltà ambientali, logistiche e burocratiche (i contrasti tra le autorità civili e quelle militari erano ormai all'ordine del giorno) non facevano che acuire i problemi. 

Ottorino Mezzetti
Decise di dare subito una vigorosa sterzata alle operazioni: in capo a tre settimane, riorganizzate nuovamente le sfiduciate truppe ai suoi ordini, lanciò il 27 aprile due forti colonne al suo diretto comando contro il campo trincerato nemico di Halug El Gir, occupandolo e sistemandosi a difesa: qui attese il ritorno in massa delle mehalle ribelli alleate di Mukhtar, appartenenti alle tribù Door Hasa, Abid e Braasa, galvanizzate dal recente successo di Er Racheiba e quindi del tutto dimentiche di ogni più elementare norma di prudenza e buon senso. 
Una vera e propria sfida, che le tribù libiche ebbero il torto di accettare.

Savari della colonna Mezzetti caricano i ribelli a Halug El Gir (olio su faseite di Alberto Parducci), immagine pubblicata in b/n a pag. 10 dell'album "Ascari e Dubat" (Truppe Coloniali Italiane)- Ciarrapico Editore 1977
Il selvaggio combattimento che ne seguì si svolse così in campo aperto (classico errore delle truppe irregolari), traducendosi logicamente in una sonora lezione per le milizie ribelli, in poco tempo volte in fuga verso il loro tradizionale santuario difensivo, il poderoso massiccio montuoso del Gebel Achdar, la montagna verde, un altopiano dal profilo accidentato con un'altezza massima di poco meno di 900 metri. 


Il Gebel Achdar, la Montagna verde

Ricco di boscaglie, anfratti e burroni nascosti, il Gebel Achdar, piovoso in inverno ed aridissimo d'estate, scendeva a picco sul mare degradando via via attraverso una serie di terrazzamenti: qui facile era la possibilità per i ribelli di condurre azioni di guerriglia ed al contempo di trovare un agevole riparo dalle ricognizioni offensive italiane.

14. PRIME DIVISIONI TRA LE FILA DI OMAR AL MUKHTAR

Ma stavolta Mezzetti era deciso ad andare fino in fondo e ordinò una serie di vaste operazioni di rastrellamento in tutta quell'area.
In piena estate, sfidando un caldo atroce che avrebbe portato addirittura alla morte per insolazione di due ascari eritrei, ordinò di mettersi in moto ad un imponente schieramento composto di dieci battaglioni libici ed eritrei, quattro squadroni di regolari e tre bande di irregolari a cavallo, cinque sezioni di artiglieria, oltre a reparti autoportati (alcuni di camicie nere, al loro battesimo del fuoco africano), autoblindo e alcuni squadroni meharisti.
Suddivisi in sei colonne (Mezzetti, Spernazzati, Montanari, Poli, Lorenzini e Piatti), ognuna munita di una sezione radiotelegrafica, con 5 giornate di acqua (3 litri per uomo e 20 per quadrupede) e 7 di viveri, tutti questi uomini si lanciarono su vari obiettivi in una sorta di manovra avvolgente tesa a pacificare una volta per tutte quel turbolento territorio e finalizzata ad estirpare definitivamente la guerriglia dall'altopiano cirenaico, attaccare in massa le tribù Mogarba nella Sirtica ed infine conseguire la definitiva sutura tra le due colonie, preordinata all'occupazione totale di tutte le oasi presenti all'altezza del 29° parallelo.
Col forte supporto dell'aviazione coloniale, ormai strutturata su velivoli previsti espressamente per quel teatro e basati a terra su un reticolo di aeroporti ben organizzati, i gruppi mobili sconfissero ripetutamente le milizie ribelli, la cui presenza veniva volta per volta segnalata in anticipo dagli aerei ricognitori, a Bir Zeitun, a Ras Giulaz e nelle oasi di Scebirca e del Cuf: sfidando condizioni ambientali e climatiche impossibili (vi furono altri morti per insolazione negli stessi reparti libici) le colonne italiane martellarono implacabilmente il nemico in fuga sino a settembre inoltrato, procedendo con velocità folle all'inseguimento dei ribelli (la colonna Canevari fece in due giorni ben 120 chilometri di marcia), catturandone anche parecchi (spesso fucilati sul posto). 
Al termine delle operazioni estive, dopo ottanta giorni di operazioni, 1300 erano i caduti tra le tribù libiche, con la cattura di ingentissime quantità di bestiame, armi, munizioni, derrate e materiali vari, e la scoperta di molti depositi nascosti tra le caverne del Gebel: da parte italiana, i caduti sarebbero stati 68 (2 ufficiali) e 170 i feriti (5 gli ufficiali).
Vi fu una breve pausa solo tra ottobre a gennaio, quando si procedette all'occupazione della Sirtica, zona di confine con la Tripolitania, ma sin dai primissimi giorni del 1928 un'altra colonna, quella guidata dal maggiore Maletti, sarebbe ripartita all'attacco fino al limite estremo d'autonomia delle proprie autoblindo, penetrando in profondità nel Fezzan e tagliando la strada ai ribelli.

Cominciarono allora ad emergere le divisioni nel fronte libico.
Si arrese la tribù dei Braasa, fino a quel momento a fianco di Al Mukhtar: per tutta risposta, però, il 29 novembre  1927 quest'ultimo attaccò con 250 cavalieri il campo di Slonta, dove i Braasa erano acquartierati, e lo rase praticamente al suolo, infierendo crudelmente anche sulle donne e i bambini.
Soprattutto però un brutto colpo per le tribù libiche fu la resa del fratello di Idris, Saied Mohammed er-Reda, vicario dell'Emiro, che il 3 gennaio 1928 si presentava innanzi alle Autorità italiane ad Agedabia e veniva subito fatto partire per l'Italia, come comunicato dall'Agenzia Stefani (la mamma dell'attuale ANSA): si veda http://www.regioesercito.it/campagne/libia/camplibia2.htm.

Anche Graziani è della partita

L'ormai famoso Rodolfo Graziani, schieratosi apertamente col regime, era dal gennaio del 1928 al comando del gruppo A, operativo sul 29° parallelo col compito di creare una saldatura tra i settori di Tripolitania e Cirenaica.
Con il consueto slancio passò anche lui all'offensiva, in maniera terribilmente efficace, usando anche metodi "sporchi": il suo attacco infatti fu preparato da ben quattro bombardamenti aerei al fosgene che causarono morte e panico nella tribù ribelle dei Mogàrba Er Raedat (il fosgene è un aggressivo chimico estremamente tossico usato per la prima volta nel 1915 dai francesi e di cui pure gli italiani avevano fatto le spese ad opera dei tedeschi il mattino del 24 ottobre 1917 nella conca di Plezzo, durante la disfatta di Caporetto) e portò all'occupazione di Hon il 14 febbraio ed a quella di Zella il 22 febbraio.
La colonna italo-eritrea di Graziani, composta da 1500 uomini, riprese tre giorni dopo la marcia verso la conca di Tagrift, ove erano situati dei pozzi, ma qui fu affrontata con estrema decisione dai guerriglieri di varie cabile, tra cui preminente era quella degli Aulad Soliman al comando dei fratelli Sef en Nasser, il cui numero era perlomeno pari a quello dei soldati di Graziani.
Trovatosi ad un certo punto a rischio di accerchiamento, e con gli avversari che sparavano in via prioritaria sugli ufficiali, il generale italiano riuscì però alla fine a sventare la minaccia ed a vincere la battaglia, sia pure al caro prezzo di 59 morti (5 ufficiali) e 162 feriti (6 ufficiali): la mehalla nemica ebbe invece 247 morti sul campo di battaglia ed almeno un'altra cinquantina nel corso del successivo inseguimento da parte degli spahis.

15. PIETRO BADOGLIO NUOVO GOVERNATORE UNICO DELLA LIBIA

Era giunta l'ora di dare la spallata finale. 
Fu così che Mussolini si giocò la sua carta migliore, chiamando il 18 dicembre 1928 all'incarico di governatore unico della Cirenaica e della Tripolitania il più prestigioso Generale italiano del momento (con Graziani), cioè il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate, con Emilio De Bono nominato nuovo ministro delle colonie e Attilio Teruzzi designato nuovo capo di Stato Maggiore della Milizia. 
In seguito al nuovo assetto Cirenaica e Tripolitania restavano formalmente separate sul piano amministrativo, ma rette comunque da un unico governatore, quello della Tripolitania, con la Cirenaica assoggettata ad un Vicegovernatore sottoposto al primo.

Pietro Badoglio nel 1934,
foto con dedica autografa


Nato il 28 settembre 1871 a Grazzano Monferrato (AT), ora Grazzano Badoglio, figlio di un modesto proprietario terriero e di una donna dell'agiata borghesia piemontese, Pietro Badoglio era un militare con un curriculum lungo così apparentemente pieno di successi.
Dopo aver frequentato l'Accademia Reale di Torino uscendone come sottotenente, una volta promosso al grado superiore era stato inviato in Abissinia nel febbraio 1896 al seguito del Generale Antonio Baldissera, destinato nei piani degli Alti Comandi a sostituire il pari grado Oreste Baratieri, partecipando alla vittoriosa spedizione per liberare il maggiore Marcello Prestinari ed i suoi 2000 uomini assediati da due mesi ad Adigrat in Eritrea dalle truppe del Ras Mangascià.
Nella guerra di Libia era stato decorato e promosso maggiore per il suo comportamento nelle battaglie di Ain Zara e di Zanzur, per le quali aveva partecipato alla stesura dei relativi piani di battaglia, ma la sua fama si doveva soprattutto alla Grande Guerra, iniziata da tenente colonnello presso lo Stato Maggiore dell'esercito e terminata come sottocapo di Stato Maggiore (vicecomandante unico).


In tale veste era secondo solo ad
Armando Diaz
Armando Diaz, divenuto Capo Supremo dell'esercito dopo il disastro di Caporetto (in cui il suo XXIII° corpo d'armata non era stato direttamente implicato), al posto del giubilato Luigi Cadorna, la cui testa era stata espressamente chiesta in cambio dei rinforzi loro richiesti dai generali alleati Ferdinand Foch (francese) e William Robertson (inglese)
, ormai stufi delle sue vetuste idee strategiche e della sua ostinata non volontà di collaborare appieno con loro in nome di un'orgogliosa e stizzita difesa delle proprie prerogative di comando.
Ma anche Badoglio aveva un buco nero che l'avrebbe sempre perseguitato nella sua carriera.

Il fantasma di Caporetto sulla carriera di Badoglio




Da anni su Badoglio gravava un pesante fardello: era infatti uscito piuttosto inspiegabilmente indenne dalla indagine svolta dalla commissione d'inchiesta di prima istanza istituita il 12 gennaio 1918 col Regio Decreto n. 35 sulla tragica disfatta di Caporetto. 
Il crollo del suo XXVII° corpo d'armata, che insieme al IV° componeva il fianco sinistro della II° armata dell'Isonzo al comando di Luigi Capello (che presidiava il lato settentrionale dell'intero schieramento italiano al confine, tra il Monte Rombon ed il fiume Frigido) ed era schierato sulla riva destra del fiume tra Tolmino e Gabrije, aveva infatti determinato quello appunto del confinante IV° corpo di Alberto Cavaciocchi che presidiava la riva sinistra, e successivamente quello del VII° di Luigi Bongiovanni, posto immediatamente alle spalle dei primi due, a cavallo di entrambi i settori: proprio da lì si era aperta la breccia verso l'allora sconosciuto paese di Caporetto, porta d'ingresso verso la pianura friulano-veneta.
Ne era derivato il collasso dell'intera II° armata e di conseguenza quello dell'intero fronte italiano, con tutto quello che ne era conseguito, cioè lo straripamento delle truppe austro-tedesche nel Friuli e nel Veneto, col terribile rischio per l'Italia di vedersi occupata l'intera pianura padana e quindi di perdere in brevissimo tempo tutto il nord industriale: un pericolo che sarebbe stato fortunatamente scongiurato grazie all'eroismo dei nostri fanti sul Piave (per i particolari della battaglia v. QUI).
La relazione finale della commissione, consegnata a guerra finita (e vinta) il 13 agosto del 1919, avrebbe portato alla condanna dei Generali Cavaciocchi, Bongiovanni, Capello e anche dell'ex Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna, ma senza nemmeno un accenno nemmeno assolutorio ed incidentale contro il comandante del XXVII° corpo d'armata, cioè appunto Badoglio, e tutto questo nonostante costui fosse rimasto persino del tutto ignaro del tracollo delle sue truppe fino almeno alle 12,00 del giorno dell'attacco austro-tedesco, cioè ben dieci ore dal suo inizio, alle 2,00 di mattina del 24 ottobre 1917, con quel famoso bombardamento al fosgene sulla conca di Plezzo di cui si è parlato poc'anzi.

Badoglio quindi il 2 dicembre del 1919 era potuto serenamente subentrare ad Armando Diaz come Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, dopo essere stato addirittura nominato senatore il 24 febbraio 1919 (a commissione d'inchiesta appena insediatasi!!!) e commissario militare straordinario per la Venezia Giulia (proprio durante la vicenda fiumana di D'Annunzio) il 23 settembre dello stesso anno (esattamente un mese dopo la chiusura dell'indagine). 
Al momento della marcia su Roma aveva chiesto senza risultato poteri straordinari al Re per disperdere le colonne fasciste (che a suo dire si sarebbero volatilizzate al primo sparo), tanto che con l'avvento del Duce al governo aveva lasciato il comando dell'esercito al generale Giuseppe F. Ferrari, chiedendo ed ottenendo di essere inviato come ambasciatore in Brasile, salvo poi ritornare in Italia dopo la nomina a nuovo Capo di Stato Maggiore Generale (con la riconferma temporanea a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, incarico poi lasciato al solito Ferrari nel 1927), col grado nuovo di pacca di Maresciallo d'Italia conferitogli il 25 giugno 1926.

Un ultimo appunto. 
Badoglio non fu l'unico ad essere insignito di tale esclusivo grado, destinato a premiare quegli alti ufficiali distintisi nel corso della Grande Guerra: tra i meritevoli vi fu anche il Generale Enrico Caviglia, il quale però così si esprimeva, alla data del 26 maggio 1925, nel suo Diario (aprile 1925-marzo 1945), edito da Gherardini Casini Editore, Roma, 1952 (pagg. 4-5):

"Oggi tutti restano silenziosi davanti alla nomina di Badoglio a capo di Stato Maggiore dell’Esercito, con l’incarico di organizzare la difesa della nazione. Nulla di più burlesco che preporre alla difesa della Nazione l’eroe di Caporetto, il quale, essendo stato sfondato il suo corpo di armata, fuggì abbandonando prima tre divisioni, poi ancora una quarta, e portò il panico nelle retrovie. La sua fuga, indipendentemente dalla sconfitta, causò la perdita di quarantamila soldati italiani fra morti, feriti e prigionieri, da lui abbandonati il 24 ottobre 1917 al di là dell’Isonzo. Tutti lo sanno e fanno finta di non saperlo. Che cosa debbono pensare gli ufficiali italiani che lo hanno visto fuggire o quelli che ne hanno sentito parlare? Essi non possono che diventare scettici sull’onor militare, sulla giustizia militare, sulle leggi militari, sulla serietà del governo e della Dinastia"


Enrico Caviglia

Evidentemente tutti i riconoscimenti militari e politici ricevuti non preservarono Badoglio dai sospetti di aver avuto una carriera un po', diciamo così, "aiutata" (rimando per quanto attiene questo specifico punto a questo link).


L'attuale Kobarid (Caporetto), ora in territorio sloveno, vicinissima al confine italiano. Sullo sfondo il fiume Isonzo


16. LA RICONQUISTA DEL FEZZAN

Appena sbarcato a Tripoli insieme col fedelissimo vice Domenico Siciliani, posto a capo della Cirenaica, già suo collaboratore allo Stato Maggiore e poi suo addetto militare a Rio De Janeiro, il neo nominato governatore unico emise subito un durissimo proclama rivolto verso tutta la popolazione locale:

"Se mi obbligate alla guerra la farò con criteri e mezzi potenti di cui rimarrà il ricordo. Nessun ribelle avrà pace: non lui, né la sua famiglia, né i suoi arredi, né i suoi armenti. Distruggerò tutto, uomini e cose. Questa è la mia prima parola, ma è anche l'ultima".

Dopo la solita stasi della stagione delle piogge nella primavera del 1929 Badoglio passò decisamente all'offensiva nel Fezzan, nel quale le truppe italiane dopo i successi dell'anno precedente avevano ormai stabilito solidi punti d'appoggio ben collegati tra loro dai quali fare partire un'azione combinata, rapida e letale.

La parte occidentale di quello sterminato deserto era dominata dalle bande di Salem el Ateusc, di  Abd en Nebi Belcher Mohammed ben Hassel, quella orientale dalle tribù dei due fratelli Ahmed e Suleiman Sef en Nasser, quelli già battuti con bravura e tanta fortuna da Graziani a Tagrift poco più di un anno prima.

Lo scopo dell'azione per Badoglio era l'occupazione dell'intero Fezzan, sulla base di una ben precisa strategia: 

"Affrontare e liquidare successivamente, uno alla volta, sempre quando possibile, i vari nuclei in cui appariva frazionato l'avversario, e sempre in condizioni di avere il sopravvento anche nel caso sfavorevole che il nemico riuscisse ad opporci una massa unica".

Per far questo vennero mobilitate in totale segretezza sin dalla fine di novembre del 1928 tre poderose colonne al comando del solito Rodolfo Graziani, che dovevano agire con la copertura aerea dei caccia Ro.1 e dei bombardieri Caproni Ca. 73 basati ad Hon, Sirte e Tripoli.

Cacciabombardieri Caproni Ca.73 basati a terra




La colonna mobile dello Sciuref,  posta agli ordini di S.A.R. il Duca delle Puglie Amedeo di Savoia-Aosta, era composta di due raggruppamenti sahariani (entrambi su due gruppi più una sezione di artiglieria, al comando rispettivamente del tenente colonnello Ferrari Orsi e del tenente colonnello Amato), con al seguito una carovana di 700 dromedari con aliquote dei servizi, due mesi di viveri e 17 giornate di acqua, utili a superare la marcia lungo 260 chilometri di deserto.


S.A.R. Amedeo di Savoia-Aosta


Quella orientale del colonnello Cubeddu era costituita da un battaglione eritreo autoportato, una squadriglia di autoblindomitragliatrici ed un autogruppo di manovra su 286 carri, per costituire la futura base di Brach.

Quella di Derg, comandata dal tenente colonnello Moramarco, infine, si componeva di un gruppo sahariano, uno squadrone di meharisti ed una sezione di artiglieria sahariana con idonei nuclei logistici (sul suo stendardo campeggiava il motto: "Usque ad finem").


Una scena del film "Il Leone del deserto"

Sin dal 5 dicembre successivo la colonna del Duca d'Aosta giunse, praticamente senza incontrare alcuna resistenza, nella città di Brach, dove venne anche ritrovata e rimessa in ordine la tomba della MOVM capitano De Dominicis, caduto durante la spedizione Miani di quindici anni prima, la cui salma sarebbe poi stata traslata nel Mausoleo delle Medaglie d'oro di Tripoli: dopo l'immediato atto di sottomissione dei notabili locali venne allestito un nuovo presidio al comando del tenente colonnello Natale.

Dopo la successiva occupazione del 13 dicembre successivo, incruenta anch'essa, pure della capitale storica del Fezzan, Sebha, da parte stavolta della colonna orientale di Cabeddu insieme col gruppo irregolare Ghibla al comando di Chalifa Zaui, Graziani raggiunse il Duca d'Aosta in aereo da Tripoli con l'ordine per le tre colonne concordato con Badoglio di incalzare risolutamente i ribelli in fuga: ecco perché, anziché proseguire direttamente verso Murzuch, l'attuale capitale della regione,  Graziani comandò una improvvisa svolta a sinistra per sconfiggere una volta per tutte i due fratelli Seif en Nasser.

Comandò quindi l'avanzata prima sull'oasi di Umm el Araneb, occupata l'8 gennaio, e poi su Uao el Kebir, distante da Sebha ben 360 chilometri, in cui il 1° raggruppamento sahariano di Ferrari Orsi con l'aiuto di un gruppo di zaptiè e l'appoggio aereo di tre RO.1 della 89° squadriglia al comando del capitano Mazzini sconfisse il 13 gennaio le orde dei due fratelli ribelli, costretti a rifugiarsi nella lontana oasi di Cufra.
Solo allora Graziani fece finalmente convergere le sue truppe su Murzuch, tornata italiana il 21 gennaio 1929, sedici anni dopo l'abbandono delle forze di Miani, grazie alle colonne avanzanti del Duca delle Puglie.


La bandiera italiana garrisce a Murzuch


La campagna nel Fezzan orientale si concluse così dopo otto settimane con solo 15 feriti nelle file italiane, tutti a seguito del combattimento di Uao el Kebir, mentre si ebbero 110 morti nel campo nemico, oltre alla cattura di 400 prigionieri (la maggior parte donne), 148 fucili, 20.000 cartucce, 302 animali, 1400 tende e 1000 quintali di derrate.


Badoglio ed il Duca d'Aosta  a colloquio a Murzuch

Restava ormai solo il Fezzan occidentale da pacificare, con le residue forze di  Abd en Nebi Belcher, Mohammed ben Hassel e soprattutto dei due fratelli Sef en Nasser impegnate in una disperata fuga verso il confine algerino, con gli italiani alle calcagna.

Quattro giorni dopo la conquista di Murzuch le truppe di Amedeo d'Aosta partirono alla volta dell'oasi di Ubari, che occuparono il 28 gennaio apprestandovi subito un campo per l'aviazione in vista delle imminenti operazioni nella parte occidentale della regione.

Graziani ordinò al gruppo irregolare indigeno Ghibla, forte di 370 uomini, di lanciarsi il 2 febbraio da Murzuch verso Ghat, in un'infernale corsa di circa 400 chilometri all'inseguimento dei 200 Orfella di Abd en Nebi Belcher, cui si erano aggiunti nel frattempo circa 800 altri armati di varie tribù, i Misciascia di Mohamed ben Haag Hassen, gli Aulad Bu Sef di Mohamed ben Hassel ed altre poche centinaia di vari gruppi probabilmente riconducibili ai due fratelli Sef en Nasser fuggiti a Cufra. 
Solo dopo altri due giorni, una volta ricevuti rifornimenti da Hon, inviò i raggruppamenti sahariani, in direzione di El Auenat.

Il clima torrido e le frequentissime tempeste di sabbia impedirono però a questi ultimi di prendere contatto una volta per tutte con il nemico, peraltro assai appesantito dalla presenza delle famiglie e degli armenti e ormai tallonato da presso dagli irregolari della colonna Ghibla.

Tra il 13 ed il 14 febbraio vi fu un ultimo tentativo delle colonne mobili di agganciare i ribelli in fuga, incalzati peraltro costantemente dai Caproni Ca. 73 della Regia Aeronautica decollati da Ubari, i primi velivoli italiani interamente di struttura metallica, che più volte li attaccarono con le loro bombe, l'ultima delle quali all'altezza dei pozzi di Tachiomet, ma quando venne da parte francese comunicato agli italiani che Abd en Nebi Belcher coi suoi Orfella aveva ormai passato il confine algerino e si era spontaneamente consegnato ai militari francesi di Fort Charlet, che avevano proceduto al suo immediato disarmo, Graziani ordinò di cessare l'inseguimento e ritornare ad El Auenat.


L'intero Fezzan era ormai sotto controllo italiano.

Giunti a quel punto parte dei Mogarba e degli Auaghir, pure ostili fino ad allora, decisero di sottomettersi anch'essi, tutti tranne l'indomabile capo Mogarba, Salem El Ateusc, fuggito con i suoi 100 fedelissimi a Cufra, ritornando pacificamente nelle loro terre e lasciando spontaneamente agli italiani tutte le loro armi e munizioni.

Pure Suleiman Sef en Nasser, uno dei due fratelli,  avrebbe continuato la lotta ad oltranza contro gli italiani, trovando la morte insieme col figlio in un piccolo conflitto a fuoco nei pressi di Zella il 26 marzo 1930.

Proseguendo verso sud intorno al 20 febbraio le colonne mobili italiane sarebbero tuttavia giunte quasi fino ai confini col Ciad francese, ed i28 aprile 1930 una pattuglia di sahariani al comando del tenente Predieri si sarebbe addirittura spinta fino a Bir el Uaar (il passo difficile), fra i monti di Tummi al confine con l'Africa occidentale francese, cioè a ben 1500 chilometri dalla costa mediterranea di partenza!!!






La Revue Militaire Francaise nel 1931 avrebbe scritto  su quest'impresa:



"(...) è stata eseguita con modesti effettivi, 2500 uomini, e con un minimo di perdite. L'importanza dell'organizzazione messa in opera, la rapidità della concezione ed esecuzione hanno impedito che il nemico opponesse una resistenza seria".

17. IL FALLIMENTO DELLE TRATTATIVE CON IL GRAN SENUSSO



Pacificato finalmente il Fezzan non restava che una cosa da fare a questo punto: conquistare una volta per tutte la Cirenaica. 

A dir la verità, qui si era preferito per lungo tempo adottare una strategia ben più prudente e Badoglio aveva incaricato il fido Siciliani di avviare con gli emissari senussiti delle trattative per arrivare ad una soluzione pacifica dell'ormai lunga guerra.
Ad esse venne ovviamente chiamato a partecipare anche Omar Al Mukhtar, che in tal modo ottenne di fatto una sorta di legittimazione non più solo morale, ma proprio politica della sua figura.



Omar Al Mukhtar invitato a partecipare con altri notabili senussiti ai colloqui di pace nel giugno 1929




I colloqui sembravano procedere abbastanza speditamente verso la sospirata pacificazione, tanto che nel giugno di quello stesso anno si giunse alla stipulazione di una tregua di due mesi, ma improvvisamente il successivo 20 ottobre lo stesso indomabile imam senussita, che accusava gli italiani di doppiogioco per l'intento di mettergli contro Mohammed er Reda, dichiarò unilateralmente il fallimento delle trattative e passò risolutamente di nuovo all'offensiva, ordinando ai suoi l'8 novembre 1929 di attaccare una pattuglia di sei carabinieri italiani usciti nel deserto a riparare una linea telegrafica a Gasr Benigdem,  e causando la morte di quattro di essi, ed il giorno successivo di razziare il bestiame di una tribù sottomessasi agli italiani.

A quel punto da parte di Badoglio si decise di "rompere qualunque forma di trattativa o di tolleranza verso i ribelli" e si diede immediatamente il via ad una serie di imponenti rastrellamenti in forze, mentre lo stesso Omar Al Mukhtar veniva ufficialmente definito il 10 gennaio 1930 da Siciliani come "traditore", con la promessa di una "lotta senza quartiere".

Rodolfo Graziani promosso Vicegovernatore di Cirenaica

Ma non sarebbe stato Domenico  Siciliani a condurre questa lotta.
Due mesi dopo, a marzo, il vicegovernatore venne infatti avvicendato dall'ormai celeberrimo Rodolfo Graziani, imposto a Badoglio da De Bono in persona, nel frattempo promosso Ministro delle Colonie,  in quanto ritenuto "più energico".
Una scelta accolta con grande scorno dal generale piemontese, che non amava assolutamente il nuovo sottoposto e riteneva il più giovane Graziani una sorta di "parvenu", non alla sua altezza, ma soprattutto era gelosissimo della sua popolarità presso Mussolini e gli italiani tutti.
Tra i due generali ci sarebbe stata sempre una convivenza difficile, che le vicende degli anni successivi non avrebbero fatto altro che aggravare trasformando quella che all'inizio era una reciproca insofferenza in vero e proprio odio, in un crescendo rossiniano giunto fino al punto in cui i due si sarebbero trovati di fatto nemici dopo l'8 settembre, con Badoglio capo del governo monarchico italiano legittimo filo alleato e Graziani al comando delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana rimasta fedele (e di fatto in ostaggio) alla Germania.


Graziani durante la rivolta senussita



Ma ci siamo spostati troppo in là.
In quel momento Badoglio e Graziani erano costretti a collaborare insieme contro il nemico comune.
Ed ancora una volta Rodolfo Graziani, il piccolo borghese divenuto celebrato generale, ed Omar Al Mukhtar, l'imam senussita trasformatosi nel nemico pubblico numero uno, si sarebbero affrontati con le armi, in quello che sarebbe stato l'ultimo loro scontro.
Quello decisivo.

Un intenso primo piano di Omar Al Mukhtar


Cambio di strategia

Occorreva a quel punto un radicale cambio di strategia.
Badoglio, il 20 giugno 1930, l'avrebbe teorizzato così:

"Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguire anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica".

Era ormai la guerra totale, spietata, ingiusta.
E Graziani era stato chiamato proprio per questo.

Mussolini (Rod Steiger) e Graziani (Oliver Reed) a Palazzo Venezia, in una scena tratta dal film Il Leone del Deserto

18. L'ARRESTO DEI CAPI SENUSSITI ED IL SEQUESTRO DEI LORO BENI

L'arrivo di Graziani sulla scena libica fu sin da subito impetuoso.
Già il 29 maggio 1930 il generale italiano decise di fare arrestare i capi delle zawaya senussite della Cirenaica e di far incamerare i beni delle strutture religiose dal demanio.
Trenta furono i capi senussiti arrestati, e tutti vennero trasferiti in Italia.
Era una decisione assolutamente dirompente, da almeno un paio d'anni minacciata ma mai attuata dagli italiani per paura delle ripercussioni sulla popolazione libica, ma aveva una serie di validi scopi, tutti va detto effettivamente conseguiti:

1) abbattere il potere carismatico dei capi senussiti;

2) prosciugare le loro principali fonti di finanziamento;

3) restituire le zawaya, quasi tutte appartenenti in origine al demanio ottomano o sottratte dai Senussi ai legittimi proprietari autoctoni durante il ripiegamento degli italiani sulla costa, agli originari titolari, destinando formalmente le somme incamerate alla costruzione di nuove moschee a favore della popolazione;

4) favorire pertanto la creazione di un cuneo sempre più grosso tra i ribelli e le tribù che al contrario accettavano la dominazione italiana.

L'oasi di Giarabub vista da un ricognitore italiano
Il provvedimento di sequestro, all'inizio limitato ai soli beni religiosi proprio per evidenziare l'intento di voler colpire l'Istituzione Senussita e non le persone, venne nel giro di poco tempo esteso per espressa volontà di Badoglio anche alla Tripolitania  ed ai beni personali dei capi rivoltosi, che si videro così di punto in bianco franare sotto i piedi del tutto quel retroterra di rapporti, ma anche ricatti, omertà, amicizie, patti di sangue, flussi di denaro, complicità diffuse, possibilità di nascondigli, di appoggi, di forniture clandestine continue di armi, bestiame e materiali che ne aveva fino a quel momento indiscutibilmente favorito la lotta armata su tutto il territorio.

Graziani (Anthony Quinn) e Amedeo D'Aosta (Sky Dumont) , in un fotogramma tratto dal film Il Leone del Deserto.
Il Leone del deserto ne fu profondamente danneggiato, in maniera probabilmente irreparabile.
Ma era solo l'inizio.

19. LE DEPORTAZIONI  DELLE POPOLAZIONI DEL GEBEL ACHBAR

Nell'intento di chiudere una volta per tutte i conti con i ribelli e le tribù che li fiancheggiavano, Badoglio in persona, come abbiamo visto fautore della linea dura come e più di Graziani, in stretta connessione con Mussolini, e strenuo sostenitore della teoria tradizionale romana del divide et impera, decise di procedere alla deportazione coatta di tutta la popolazione (vecchi, donne e bambini compresi) residente nel Gebel al Akhdar, la "famigerata" Montagna Verde, presso cui Omar al Mukhtar aveva sempre trovato ricovero, assistenza e protezione nelle sue razzie contro gli italiani e i clan ad essi vicini.


Costretta a trasferirsi a tappe forzate con una marcia di ben mille chilometri sulla costa desertica della Sirte, tutta questa povera massa di disgraziati morti di fame e con le pezze al culo, circa 100000 persone, venne internata per intero in 13 appositi ed invivibili campi di concentramento, nei dintorni di Bengasi, a Marsa Brega, Soluch, Agedabia, El Agheila, Sidi Ahmed, Ain Gazala, Al Magrun, El Abiar, mentre solo pochi tra essi riuscivano in qualche modo a scappare verso il confine egiziano.

Il campo di Al Abiar
Nonostante la propaganda del regime descrivesse quelle strutture come ottimo esempio di moderna civilizzazione gestita con criteri ineccepibili di efficienza e igiene, la promiscuità e le condizioni di vita miserevoli di quei tristissimi campi, dove regnavano sovraffollamento, sottoalimentazione e totale mancanza di igiene ed in cui era assente una vera assistenza medica (in campi con migliaia di deportati spesso il medico era uno solo!), ovviamente favorivano l'insorgere di malattie infettive che portavano ad una estrema mortalità, sia degli uomini che degli animali che questi si erano portati con loro nel corso di quella tristissima anabasi, e mentre la fame e la sete regnavano sovrane ogni minima violazione delle regole portava ad una immediata e spietata punizione (spesso la fucilazione sul posto, tante volte persino l'abbandono nel deserto senza viveri e senza acqua, anche a danni di donne e bambini).

La distribuzione del rancio al El Magrun

Decine di migliaia di persone sarebbero morte in quell'inferno dantesco, e assieme ad esse la gran parte dei loro armenti (oltre il 90% degli ovini e circa l'80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica andò perso), che costituivano peraltro la loro unica forma di sostentamento.
Solo nel settembre 1933 quei campi sarebbero stati chiusi.

Il "campo sportivo" di El Magrun

Non facemmo decisamente una bella figura, noi italiani, con quei campi. 
Anni fa, lo dico come annotazione strettamente personale, non credevo alle denunce di Gheddafi sulla nostra spietatezza di colonizzatori: ebbene approfondendo certi argomenti mi sono dovuto ricredere, anche se resto convinto che, probabilmente, nell'ottica dell'epoca un certo modo di agire fosse in qualche modo "normale" e comunque, al di fuori degli aspetti puramente legati alle vicende belliche, il nostro colonialismo sia stato assai più compassionevole e "costruttivo" degli altri, azzarderei a dire persino senza quei connotati decisamente razzisti che hanno contraddistinto altre esperienze similari.
Al di là di queste considerazioni, tuttavia, è innegabile come questa decisione inumana, che sconvolse l'intero mondo arabo e non solo, per bocca dello stesso Omar Al Mukhtar ebbe un ruolo assolutamente decisivo nella sconfitta dell'indomabile guerriero senussita.

20. LA BARRIERA DI FILO SPINATO AL CONFINE CON L'EGITTO



Infine, il terzo colpo di maglio, quello che costituì il vero e proprio colpo di grazia alle speranze di Omar, fu inferto ancora una volta da Rodolfo Graziani quando prese la decisione di far costruire un imponente reticolato di filo spinato lungo ben 270 chilometri ai confini con l'Egitto tra la piazzaforte portuale di Bardia e l'oasi di Giarabub, capitale della confraternita senussita. 
Allestita tra aprile e settembre del 1931, grazie al lavoro di 2500 indigeni guardati a vista da 1200 carabinieri, l'enorme barriera spinata, su cui vigilavano sette compagnie di ascari, un gruppo sahariano e persino una intera squadriglia aerea dedicata, con altri forti reparti armati posti tutti a presidio dei vitali pozzi d'acqua che punteggiavano quell'aridissima regione, portò al vero e proprio blocco terrestre delle comunicazioni tra l'entroterra libico e le vicine basi senussite egiziane, causando l'immediato collasso della guerriglia, non più alimentabile con continuità in denaro, uomini, mezzi e materiali dal formidabile retroterra egiziano fino a quel momento libero di agire pressoché indisturbato, nella porosa fluidità di confini tracciati di fatto solo sulla carta e che certo non trovavano facile identificazione su quel terreno desertico, che solo dieci anni dopo sarebbe stato scosso dalle terribili battaglie della seconda guerra mondiale.

In un censimento fatto nell'aprile 1931 risultarono mancare all'appello in Cirenaica circa 60000 indigeni: il frutto crudele di un anno di deportazioni, condanne a morte, decessi per fame, sete e malattie, scontri a fuoco sempre più impari soprattutto nel tentativo vano dei ribelli di violare la barriera di filo spinato tra Cirenaica ed Egitto (si veda L'Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa, di Antonella Randazzo, Edizioni Arterigere, pag. 125).
A questo punto Omar Al Mukhtar era ormai solo nella sua lotta disperata, con poche centinaia di guerriglieri al suo fianco (Badoglio li valutava in non più di sei/settecento).
E destinato inevitabilmente alla sconfitta.
Probabilmente se ne rendeva perfettamente conto ma questo non gli impedì comunque di continuare a combattere.

21. LA GUERRA SPORCA DEGLI ITALIANI IN CIRENAICA

Ormai gli italiani avevano il controllo totale della situazione e subito ne approfittarono, lanciando imponenti operazioni di rastrellamento verso le oasi, fino a quel momento santuari pressoché imprendibili, usando anche l'aeronautica e purtroppo la pur vietata arma chimica, proibita dalle convenzioni internazionali e pur tuttavia usata con larghezza di mezzi, su input diretto di Roma.

Graziani (Oliver Reed) nel deserto libico, in una scena tratta dal film Il Leone del Deserto

Il bombardamento aereo di Taizerbo 

Il 31 luglio 1930 quattro biplani Romeo Ro. 1 decollati da Gialo al comando del tenente colonnello Roberto Lordi sganciarono sull'oasi di Taizerbo, a nord-ovest di Cufra, 24 bombe da 21 chili, 12 da 12 e ben 320 da 2, tutte caricate ad iprite, nell'intento di colpire la banda di Omar Al Mukhtar, che era stata erroneamente segnalata in zona, una delle preferite da cui era usa lanciare le sue feroci incursioni.

Un cacciabombardiere ricognitore IMAM  Romeo Ro.1 in volo
Graziani avrebbe così riferito in un rapporto inviato al Ministero:

"Il bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull'oasi di Giululat e di El Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace".

Ma quel giorno i ribelli non c'erano, c'erano solo pastori e contadini. 
Forse gli italiani non lo sapevano, forse non se ne resero conto, molto probabilmente non si posero nemmeno il problema. Uno degli scopi dell'incursione era infatti anche quello di verificare concretamente l'effetto dell'iprite sugli esseri umani.
Esiste infatti al riguardo un rapporto del comandante della tenenza dei carabinieri, sopraggiunto sul posto da Cufra molto tempo dopo i fatti su incarico presumibilmente dello stesso colonnello Lordi, che sottoposto ad interrogatorio il ribelle Mohammed Bu Alì Zueia riferì quanto segue:

"(...) Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze immediate  vi sono quattro morti. 
Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo coperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoriuscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. 
Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano". 

L'impatto dei bombardamenti dall'alto sulle oasi ribelli fu devastante.
Da novembre del 1929 al maggio del 1930 furono sganciate dall'aria 43.500 bombe in 1605 ore di volo, non si sa quante effettivamente caricate a gas.
In un telegramma, Badoglio così confermava la tenuta rigorosa della linea della spietatezza a De Bono e Siciliani:

"Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite".

Graziani dal canto suo affermava, in un altro telegramma: 

"Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo (...) Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico".

(Ancora L'Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa, di Antonella Randazzo, cit., pagg. 126 ss.)

22. ULTIMO OBIETTIVO: CUFRA

A quel punto tutto era pronto da parte italiana per l'affondo finale, diretto nell'estate 1930 sull'oasi di Cufra, la città santa per eccellenza della Senussia, ormai ultimo bastione rimasto in mano ai ribelli (Graziani la definiva "centro di raccolta di tutto il fuoruscitismo libico"), fino a quel momento assolutamente inviolata dagli italiani, pur essendo stata loro formalmente ceduta sin dal 1919 dall'Egitto come premio per la partecipazione vittoriosa alla Grande Guerra (ovviamente su ordine britannico, di cui l'Egitto era di fatto una sorta di protettorato).

Manifesto di propaganda italiana durante la riconquista della Libia: come si vede, l'uso del gas era abbastanza scopertamente esibito
Sulla direttrice Gialo-Bir Zighem, ad opera principalmente di un'autocolonna di 132 macchine e 120 uomini al comando del maggiore Orlando Lorenzini, gli aerei che procedevano in avanscoperta innanzi alla colonna rilevarono  la presenza di numerosi pozzi proprio a Bir Zighem, località situata a 400 chilometri da Gialo ed a 200 da Cufra.

Orlando Lorenzini



Il 26 agosto 1930 i velivoli ebbero così l'ordine di dirigersi su Cufra e di andare a colpire gli obiettivi di El Giof ed El Tag, dov'erano asserragliati gli uomini di Omar Al Mukhtar.
Questa la viva testimonianza di uno dei piloti coinvolti nell'azione, V. Biano

"Partiti all'alba (...) gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono finché giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perché il bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono (...) Il gioco continua per tutta la giornata (...) Le carovaniere della speranza diventano un cimitero di morti". 

L'autocolonna Lorenzini si lanciò all'inseguimento dei ribelli fino ai confini con l'Egitto, uccidendo al termine di una serie di scontri a fuoco, a detta dello stesso Graziani, 100 ribelli, catturandone 250, tra cui donne e bambini, e passandone per le armi altri 14.
Ma questa prima azione non bastò, perché nuove insurrezioni resero necessaria un'operazione di più vasto respiro contro l'indomabile Cufra.
Stavolta di proporzioni veramente imponenti.
Possiamo immaginarlo vedendo queste due tavole, disegnate da Alberto Parducci, che mostrano plasticamente quale fosse la consistenza di un gruppo sahariano e più in generale delle forze messe a disposizione del Regio Corpo Truppe Coloniali Italiane.




Al comando del Generale Riccardo Ronchetti, che aveva come suo vice S.A.R. il Duca delle Puglie Amedeo Dì Savoia-Aosta, si mosse l'intero Regio Corpo delle Truppe Coloniali di Cirenaica, col concorso anche di elementi del RCTC della Tripolitania:


le forze cammellate della Cirenaica al comando del tenente colonnello Pietro Maletti, per un totale di 3000 cammelli, composte da un raggruppamento sahariano su due gruppi, con una sezione di artiglieria cammellata con 20 ufficiali e 20 pezzi, più il supporto di un gruppo sahariano della Tripolitania su 3 plotoni di 100 uomini e di un gruppo di 100 irregolari Mogarba, tutti quanti  con 40 giornate di viveri e 8 di acqua; 

Pietro Maletti
- l'autocolonna Lorenzini, con un reparto speciale "FIAT" di 220 autocarri con materiali vari, integrata da una squadriglia di autoblindomitragliatrici del RCTC Tripolitania, un totale di circa 300 tra automezzi, blindati e sembra persino qualche carro armato FIAT 3000.


Attendamento delle autoblindo sul Seir
Dall'aria vigilavano i venti apparecchi Romeo del comando Tripolitania agli ordini del tenente colonnello Lordi, con un rifornimento completo per otto giornate di volo a 100 ore giornaliere ed una dotazione di 1400 bombe da lancio, oltre ovviamente al normale armamento di bordo (una mitragliatrice Vickers da 7,7 mm fissa in caccia ed una Lewis sempre da 7,7 mm brandeggiabile per l'osservatore posto dietro al pilota).


Graziani ed Amedeo d'Aosta entrano a Cufra

Partiti il 20 dicembre 1930 dalla lontana base di Agedabia, affidata al comando del colonnello Marinoni, le due colonne mobili, per un totale di circa 3000 uomini, marciando col caratteristico sistema a losanga tipico del deserto, preceduti dalle autoblinde e sotto la costante protezione aerea assicurata dai biplani di Lordi, dopo aver superato non senza difficoltà due giorni di furiosa tempesta di pioggia e di  sabbia giunsero a Gialo la sera del 1° gennaio 1931, per poi ricongiungersi tutte il 9 gennaio a Bir Zighen: le truppe cammellate addirittura dopo un percorso di ben 850 chilometri nel deserto.
Qui giunte le due colonne si fermarono per riposare e vennero raggiunte tre giorni dopo da Rodolfo Graziani, arrivato in aereo da Bengasi insieme con molti degli aerei messi a disposizione per l'operazione e deciso a dirigere  le operazioni in prima persona.
Il giorno 18 le prime ricognizioni aeree su Cufra rilevarono la presenza di gruppi nomadi, accampamenti e cammelli nella zona di El Giof, senza però particolari attività ostili: i circa 500 ribelli ancora presenti nell'oasi in effetti non erano particolarmente in allarme, in quanto non sapevano dell'imponente spedizione italiana e ritenevano di poter respingere agevolmente il gruppo sahariano tripolitano, l'unico che avevano avvistato.

Il Generale Domenico Siciliani sul castello di El Tag insieme col Governatore della Somalia Maurizio Rava
Alle 10 di mattina del 19 gennaio circa 400 ribelli vennero avvistati dall'aria mentre si accingevano  ad attaccare, superato il margine nord dell'oasi di El-Hauuari, la sopravveniente colonna Canapini, che venne avvertita e si dispose quindi prontamente al combattimento.
Mentre i ribelli si scagliavano risolutamente all'attacco contro gli italiani vennero però presi d'infilata tra due fuochi, in quanto sopraggiunse alle loro spalle a sua volta di sorpresa il raggruppamento cammellato di Maletti che li caricò, costringendoli a tentare una impossibile manovra divergente su entrambe le ali per sfuggire al totale annientamento, senza successo.
La ritirata della mehalla  ribelle si trasformò in rovinosa rotta verso i rifugi di El Giof e di El Tag, che vennero però raggiunti verso le 12,30 da otto aerei italiani che li martellarono per una buona mezz'ora, soprattutto il primo, bombardando e spezzonando senza pietà le posizioni nemiche.
Alla fine della battaglia, durata tre ore, restarono sul terreno un centinaio di mujahedeen, tra cui diversi capi, 13 furono fatti prigionieri, e si catturarono un centinaio di fucili e molte casse di munizioni. Tutto questo al prezzo di quattro morti da parte italiana (due ascari e due ufficiali italiani, i tenenti Helzel e Pipitene) e 16 feriti.
La battaglia per Cufra era vinta. 

Il giorno dopo, il 20 gennaio 1931, le truppe italiane occupavano ufficialmente l'oasi, mentre circa 500 beduini, riferì il britannico The Timessi dirigevano disperatamente, senza viveri ed acqua e sotto il martellamento continuo ad ondate dell'aviazione, verso l'Egitto e verso il Tibesti, inseguiti senza tregua da tre plotoni del 3° gruppo sahariano della Tripolitania: almeno 200, secondo le fonti ufficiali italiane, furono i morti rinvenuti tra i fuggitivi dai plotoni inseguitori.
Nei tre giorni successivi all'occupazione furono rinvenuti a El Tag  ed El Giof circa 150 fucili, depositi di armi e munizioni, 3 mitragliatrici e 3 cannoni.

Tre giorni di violenze e atrocità a Cufra

Purtroppo diverse fonti riferiscono anche di violenze e atrocità impressionanti causate in quei tre giorni dalle truppe coloniali italiane ai danni dei residenti dell'oasi: si parla di circa 180/200 morti, tra cui 17 capi senussi impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate e sodomizzate, 50 fucilazioni, 40 esecuzioni con accette, baionette e sciabole, teste e genitali mozzati esposti in pubblico a mo' di trofeo, violenze inenarrabili ai danni di donne gravide e dei loro feti, torture bestiali su bambini e vecchi che faccio fatica francamente a scrivere qui...
E' assai probabile che la stragrande maggioranza se non tutte queste orrende infamità, che avvennero di sicuro anche se la loro reale dimensione probabilmente resterà sempre sconosciuta e forse è stata anche un po' esagerata, si dovesse alle truppe indigene ed agli irregolari presenti in gran massa tra le fila italiane, ma di sicuro le autorità italiane poco o nulla fecero probabilmente per impedirle: è vero, purtroppo entravano in gioco questioni di etnia, religiose, sgarbi o veri e propri odii magari anche personali o familiari, lunghi pure di anni, tra clan rivali su fronti opposti, e certo gli italiani non avevano voglia né interesse ad entrarvi in mezzo, tuttavia è anche vero che poteva essere utile per loro alimentare tali contrasti per motivi politici, e comunque gente come Badoglio, De Bono o Graziani certo non si facevano particolari scrupoli a strumentalizzare certe rivalità intertribali.

La repressione italiana della rivolta libica secondo la visione del film Il Leone del Deserto

Il mondo islamico fu sconvolto da queste notizie e non poche furono le voci nei principali giornali arabi che condannarono fermamente e con sdegno queste condotte vergognose.
Il giornale di Gerusalemme Al Jamia Al Arabia pubblicò il 28 aprile 1931  un manifesto in cui si ricordavano:

"(...)alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo (...) senza  avere pietà dei bambini, né dei vecchi (...)"

La Nation Arabe scrisse: 

"Noi chiediamo ai signori italiani (...) i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante:"Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"

Una domanda che resta ancora adesso attuale in tutta la sua drammaticissima verità.
Noi in Italia, qualche anno dopo, Cufra l'avremmo ricordata così, in un fumetto.



23. LA CIRENAICA RITORNA TUTTA  ITALIANA

Ormai la sorte di Omar Al Mukhtar era segnata. 
Se la perdita di Cufra era stata messa nel preventivo e debitamente metabolizzata, micidiali per lui si erano rivelati sia l'impossibilità di contatti con l'Egitto dopo la costruzione del muro di filo spinato, con la conseguente pratica impossibilità di alimentare la guerriglia con denaro, uomini e mezzi, che ancor di più il vulnus psicologico inferto al suo prestigio di leader praticamente invitto fino a quel momento, che aveva portato ad un drastico crollo dei favori della popolazione locale nei suoi confronti, stremata dalla spietatissima cura del duo Badoglio-Graziani suggerita direttamente da Roma e vogliosa ormai solo di pace e tranquillità.

La cattura ed il processo di Omar Al Mukhtar

Inseguito ormai da presso per tutta la regione dalle trionfanti truppe coloniali italiane, che alternavano a bella posta sia le taglie sulla sua testa che vaghi propositi di amnistia in caso di resa, il settantatreenne Leone del deserto con qualche centinaio dei suoi venne alla fine localizzato dall'aviazione italiana nella piana di Got-Ilfù l'11 settembre 1931.
Dopo aver ordinato ai suoi di disperdersi per sfuggire alla cattura venne alla fine preso di mira da uno squadrone di savari libici durante gli scontri di Uadi Bu Taga: dopo la breve scaramuccia, ferito ad un braccio e perso il cavallo, fu alla fine individuato ed arrestato, trasferito in catene a Bardia e da lì trasportato a bordo del cacciatorpediniere Orsini a Bengasi, dove sarebbe stato sottoposto a processo.

La stessa scena dell'arresto di Omar Al Mukhtar nel film "Il Leone del deserto" (sopra) e nella realtà (sotto)

Un processo segnato, come dimostra la lettura del telegramma inviato il 14 settembre da Badoglio per ordinare a Graziani di "fare regolare processo e conseguente sentenza, che sarà senza dubbio pena di morte, farla eseguire in uno dei grandi concentramenti popolazione indigena".
Il processo sommario, secondo lo storico italiano Giorgio Candeloro comunque irregolare perché   il vecchio combattente avrebbe avuto diritto allo status di prigioniero di guerra, avvenne nel Palazzo Littorio di Bengasi e fu condotto molto per le spicce dal p.m., il colonnello Giuseppe Bedendo.

Una fase del processo contro Omar Al Mukhtar a Bengasi

L'accusa di alto tradimento a danno di Omar Al Mukhtar si fondava sulla rottura degli accordi di pace del 1929 e il successivo eccidio di Gasr Benigdem ai danni di quattro militari italiani, oltre che sulle sevizie inflitte nel corso della sua ribellione contro altri prigionieri, ma il vecchio imam contestò sempre in modo orgoglioso e a suo modo sereno di essersi sottomesso agli italiani e negò quindi di essere un traditore, affidandosi per il resto ad Allah.

L'arringa del capitano Lontano (Luciano Bartolo)
 (scena tratta dal film Il Leone del Deserto)

Il difensore d'ufficio di Al Mukhtar, il capitano Roberto Lontano, cercò coraggiosamente di cavalcare questa linea di difesa  e chiese le attenuanti generiche per lui, fondate sulla sua età avanzata e sul suo fanatismo religioso, sostenendo il diritto del suo assistito ad essere tutelato dalle norme sul diritto di guerra, non essendosi egli mai sottomesso agli italiani né avendone mai accettato le promesse prebende, ma semmai avendo egli combattuto per la libertà della sua Patria, ma fu tutto inutile.

L'impiccagione del Leone del Deserto

Dopo un solo giorno di dibattimento, il 15 settembre, Omar Al Mukhtar venne riconosciuto colpevole di alto tradimento e condannato a morte mediante impiccagione.
Qui sotto possiamo vedere due distinte fotografie da diversa angolazione dell'impiccagione del Leone del Deserto.



L'esecuzione avvenne alle 9 di mattina del 16 settembre 1931 nel campo di Soluch, a 56 chilometri a sud di Bengasi, affinché fosse visibile a tutti i 20000 internati di quel campo, il più grande di tutti quelli in cui erano stati deportati i beduini del Gebel Al Akhdar, e fosse da monito per il futuro.
Le ultime parole del grande vecchio furono quelle di un tradizionale versetto coranico: "Innā li-llāhi wa innā ilayHi rāgiʿūna" ("A Dio apparteniamo ed a Lui ritorniamo").

Mentre tutto questo dramma si svolgeva innanzi agli occhi attoniti di mezza Libia, il capitano Roberto Lontano giaceva in una cella di rigore e con la carriera irrimediabilmente compromessa, dopo essere stato arrestato e condannato a dieci giorni dalla stessa corte che aveva condannato Omar Al Mukhtar per aver pronunciato la sua arringa "con tono apologetico in contrasto con la figura del reo e colle particolari condizioni di luogo e di ambiente in cui si svolgeva il dibattito"

L'ultimo discendente di Omar Al Mukhtar
Nella sua ultima visita di Stato in Italia, prima della sua caduta, Muhammar Gheddafi, indossando una sgargiantissima (e pacchianissima) divisa, con appuntata provocatoriamente sul petto la foto dell'arresto di Omar Al Mukhtar, portò in aereo con sé quello che disse essere l'ultimo anzianissimo discendente vivente del grande patriota libico, ormai costretto alla sedia a rotelle.




Il film su Al Mukhtar finanziato da Gheddafi 

La rivolta di Al Mukhtar sarebbe stata narrata nel film "Il Leone del deserto" del 1981, voluto da Muhammar Gheddafi a fini palesemente  propagandistici (ed anche ovviamente volutamente esagerati, oltre che in diverse circostanze storicamente inattendibili, sia su certi comportamenti degli italiani e dello stesso Al Mukhtar che nei confronti della dinastia senussita, detronizzata col colpo di Stato del 1969).


Questo film molto impegnativo e a tratti epico, prodotto con gran dispendio di mezzi, con Anthony Quinn nella parte di Al Mukhtar, Oliver Reed in quella di Graziani e Rod Steiger nel ruolo di Mussolini, non fu mai visto in Italia fino al 2009, cioè proprio al momento dell'ultima visita ufficiale del dittatore libico in Italia, quando venne trasmesso da SKY, perché ritenuto "lesivo dell'onore dell'esercito italiano", come disse l'allora sottosegretario alla Difesa Raffaele Costa (si veda QUI).

Qui di seguito la scena dell'impiccagione come descritta nel film.





Un articolo di Gente del 27.7.1979 sul film Il Leone del Deserto che si stava girando in quel periodo











24. IL GOVERNO DI ITALO BALBO


Coloni sbarcano in Libia nel 1937


Con la morte di Omar Al Mukhtar e la fine della guerra di riconquista finalmente il regime poté avviare quella gigantesca opera di colonizzazione e sviluppo che aveva in animo di fare sin dall'inizio, cui fu chiamato nel 1934 il nuovo Governatore della Libia, il prestigiosissimo Italo Balbo.




Nato il 6 giugno 1896 a Quartesana di Ferrara, figlio di due maestri elementari, piemontese il padre, Camillo Balbo, romagnola la madre, Malvina Zuffi, di Lugo, entrambi monarchici e pieni di sacro rispetto per la divisa, in età giovanile Balbo era divenuto contro i loro insegnamenti un fervente repubblicano mazziniano, impregnato di Valori risorgimentali.
Interventista al momento della Grande Guerra (già aveva tentato invano di partecipare alla velleitaria impresa di Ricciotti Garibaldi in Albania contro i Turchi, nel 1911, ancora quindicenne), si era arruolato nell'esercito diventando ufficiale degli alpini e ardito, distinguendosi durante l'offensiva del Monte Grappa su Feltre, al comando da tenente del reparto d'assalto del battaglione alpino "Pieve di Cadore", 7° Reggimento Alpini, e successivamente prendendo due medaglie d'argento ed una di bronzo al valor militare, che gli fruttarono anche la promozione a capitano.
Il tenente degli alpini Italo Balbo a Dosso Casina nel 1917

Dopo la guerra, iscrittosi alla loggia massonica "Giovanni Bovio" facente parte della comunione della Gran Loggia di Piazza del Gesù e divenuto Oratore della loggia "Gerolamo Savonarola" di Ferrara, Balbo si laureò  il 30 novembre 1920 all'Istituto Scienze Sociali "Cesare Alfieri " di Firenze con una tesi su "Il pensiero economico e sociale di Giuseppe Mazzini", avvicinandosi progressivamente sin dalla fine della guerra ai movimenti dell'arditismo e futuristi ed esercitando l'attività di giornalista, iniziata con la direzione del settimanale militare L'Alpino.
Il 13 febbraio 1921, disgustato dalla "Vittoria mutilata" e dalla piega che avevano preso le cose in Italia contro i reduci dal fronte, l'impetuoso ex alpino aveva aderito venticinquenne al Fascio di Ferrara, che gli offriva un posto stipendiato di segretario cittadinonon senza aver prima chiesto ai suoi vecchi compagni di partito repubblicani se poteva mantenere anche la loro tessera, ricevendo  ovviamente un secco no.
Nel corso di quel drammatico biennio 1921-22 il futuro governatore della Libia, trasformatosi in breve tempo nel leader dello squadrismo agrario e comandante della squadraccia "Celibano" di Ferrara, che si riuniva puntualmente nel Caffè Mozzi, nome dovuto alla storpiatura dialettale del nome del suo drink preferito, il cherry-brandy, si segnalò per il particolare zelo persecutorio riversato a forza di manganello ed olio di ricino, ma non di rado a schioppettate (peraltro ricambiate) contro gli oppositori politici e soprattutto le leghe socialiste di Modena, Ravenna, Bologna, Rovigo e del Polesine.


Italo Balbo con la sua squadraccia "Celibano" nel 1921 a Venezia: indossa il tipico cappello nero dei repubblicani



In parte finanziato dai proprietari terrieri locali, terrorizzati e stanchi delle continue manifestazioni e scioperi organizzati dai movimenti sindacali operai e contadini, che sembravano presagire una rivoluzione proletaria di stampo sovietico anche in Italia, con le annesse inevitabili violenze, Balbo con le sue bande armate in camicia nera compiva a bordo di camion organizzati in vere e proprie autocolonne dei rapidi e letali raid contro gli avversari, prendendo a pretesto le loro provocazioni nei confronti dei fascisti, spesso sfociate in reciproci scambi a fuoco, con morti e feriti.
Assurto a notorietà nazionale nella torrida estate del '22 (non solo in senso climatico), ormai comandante di tutte le squadre d'azione dell'Emilia-Romagna, a seguito della conquista del castello Estense di Ferrara, dell'occupazione armata di Ravenna e dei fatti di Parma, in cui tra scontri coi "rossi", proclamazioni dello Stato d'Assedio, disperati appelli delle autorità civili, militari e religiose si sfiorò più volte anche lo scontro aperto con l'esercito, Balbo venne notato da Mussolini, che ne apprezzò il talento organizzativo, la capacità di leadership, la leale schiettezza e le indubbie doti oratorie e fisiche, che ne facevano una formidabile guida di uomini.


I quadrumviri attorno al Duce nella Marcia su Roma: il giovane Balbo è alla sua sinistra



Proprio per questo il futuro Duce l'avrebbe chiamato con sé per prendere parte come Quadrumviro alla Marcia su Roma, chiedendogli addirittura di individuare i due altri soggetti da porre al comando delle camicie nere, oltre a Michele Bianchi già designato dallo stesso Mussolini:  lui indicò Cesare Maria De Vecchi, che accettò subito, e Attilio Teruzzi, poi scartato perché già vice segretario del PNF in favore di Emilio De Bono, designato dopo il rifiuto dell'altro generale Asclepia Gandolfo, dovuto alle precarie condizioni di salute sue e della moglie.


I giorni della Marcia di Roma: Balbo è il primo seduto a sinistra, accanto a Emilio De Bono


Ormai entrato nella cerchia ristretta di chi comandava, Balbo, costretto a mettersi "in sonno" il 18 febbraio 1923 da massone dopo la decisione del Gran Consiglio del Fascismo di tre giorni prima di vietare  ai fascisti di iscriversi alle logge (vi furono quattro voti contrari, tra cui il suo), si sposò con la contessina Emanuela Florio (alla morte del padre di lei, contrarissimo a tale unione), 
Balbo con la moglie e i tre figli,
Giuliana, Valeria e Paolo
per poi essere nominato comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.), il corpo armato nel quale erano confluite le ormai regolarizzate camicie nere, anche se fu costretto a dimettersi in seguito alle polemiche susseguenti alla s
ua sconfitta in tribunale nella causa di diffamazione da lui stesso intentata contro il quotidiano La Voce Repubblicana, che aveva pubblicato molte rivelazioni sulle violenze delle sue squadracce nel corso del biennio rosso, sulle sue indebite pressioni fatte sulla magistratura, accusandolo anche di essere il mandante dell'omicidio del Parroco di Argenta (FE), Don Giovanni Minzoni
Don Minzoni


Dopo essere stato relegato per un po' alla carica di sottosegretario di Stato all'economia nazionale e nel 1926 a sottosegretario all'aviazione, nel 1929, a soli 33 anni, fu nominato ministro dell'Aeronautica, trovando la sua vera dimensione politica.



Italo Balbo in divisa da ministro dell'aeronautica

Balbo, che sin dalla prima guerra mondiale aveva cercato invano di ottenere il brevetto di pilota militare, costretto a rinunciarvi a seguito delle vicende belliche che reclamavano il suo impegno come alpino, nel 1927 aveva finalmente conseguito tale obiettivo e nella sua nuova veste di ministro poté finalmente esprimere al massimo livello possibile le sue capacità tecniche ed organizzative, portando a livelli prima impensabili di risorse, finanziarie ed umane, efficienza e disciplina la Regia Aeronautica.


Ospite del Presidente brasiliano Getulio Vargas a Rio De Janeiro, il 15 gennaio 1931



Soprattutto, però,  divenne famosissimo all'estero per le vittorie nella Coppa Schneider ed i tanti record aeronautici di velocità ed altezza infilati in serie dall'Arma Azzurra ("Arma fascistissima" per eccellenza, amava dire il Duce) e per le sue famosissime imprese aviatorie, dalle prime crociere nel Mediterraneo fino alle celebri Trasvolate Atlantiche, quella Italia-Brasile (17.12.1930-15.01.1931), da Orbetello a Rio De Janeiro, compiuta con 12 grossi idrovolanti S. 55 A, e quella per il decennale della Regia Aeronautica (01.07.1933-12.08.1933) Italia-Islanda-Canada-Stati Uniti, in occasione della Century of Progress, l'Esposizione Universale di Chicago, in cui furono impiegati ben 25 idrovolanti S. 55 X, con partenza sempre da Orbetello.


La trasvolata atlantica del decennale



Non solo Italo Balbo, promosso Maresciallo dell'Aria da Mussolini all'indomani del ritorno dalla seconda crociera, organizzò e diresse personalmente tali memorabili imprese, ma 
Italo Balbo ai comandi di un aereo
vi partecipò anche in prima persona, alla guida di uno degli apparecchi impegnati, tanto da apparire il 26 giugno 1933  nella copertina della rivista americana TIME, da essere nominato capo indiano dai Sioux presenti a Chicago con il nome di "Capo Aquila Volante", da sfilare in parata di ritorno a New York, secondo italiano dopo Armando Diaz, e da vedersi intitolate ben due vie, tuttora a lui dedicate, sia a Chicago che a New York, ove venne anche ricevuto in pompa magna dal Presidente Franklin Delano Roosevelt (dopo già essere stato ospite nella precedente trasvolata di quello brasiliano Getulio Vargas).


Balbo sfila tra due ali di folla entusiasta a New York
Era ormai l'indiscusso numero due del regime, l'unico che avesse la statura per contrapporsi frontalmente al Duce, l'unico che gli desse del tu e gli parlasse con estrema schiettezza fregandosene dei protocolli e della diplomazia, l'unico che poteva essere un suo credibile successore, tra l'altro contrarissimo a stringere legami di troppa amicizia coi Tedeschi (che vedeva probabilmente come suoi nemici naturali, visto il suo ardore patriottico di stampo risorgimentale), di cui non apprezzava anche il fervore razziale antiebraico, lui che non era assolutamente antisemita, tanto da aver chiamato a collaborare direttamente con lui diversi esponenti ebrei e da circondarsi a Ferrara di personalità giornalistiche e intellettuali non certo di provatissima fede fascista.





Fu così che la sua chiamata al posto di Badoglio alla guida della tempestosa colonia libica da parte di Mussolini, per quanto prestigiosa e di sicuro confacente alle sue attitudini organizzative e di comando, apparve a molti, più che quel grande incarico di onore, responsabilità e dovere che apparentemente poteva sembrare, un modo a suo modo elegante per distogliere dal panorama politico romano un soggetto che poteva davvero insidiare da vicino il potere del Duce, a maggior ragione dopo la sua proposta di riforma dei ministeri delle forze armate.
Balbo e Graziani sul fronte libico

Forse la sua promozione/esilio fu dovuta a semplice invidia della sua popolarità ormai mondiale, forse per vero e proprio timore di eventuali colpi di testa contro di lui.
Ma forse sono anche solo e solamente stupide maldicenze.

25. LA GRANDE COLONIZZAZIONE

Tuttavia Italo Balbo, superata l'inevitabile delusione, non parve curarsi di queste voci (al momento dell'incarico, il 5 novembre 1933, rispose al Duce dicendo: "Mio grande capo, sempre agli ordini!"e si buttò a corpo morto nell'immane impresa, certo sotto molteplici aspetti ben superiore a quelle aviatorie, per quanto queste avessero avuto una notorietà mondiale al di fuori di ogni paragone.

Il 16 gennaio 1934, arrivato in Africa, emise il seguente proclama:

"Assumo da oggi, in nome di Sua Maestà, il governo. I miei tre predecessori, Volpi, De Bono, Badoglio, hanno compiuto grandi opere. Mi propongo di seguire le loro orme".



Italo Balbo con Mussolini ed un alto gerarca ad una serata di gala in Libia

Lo sviluppo sociale ed urbanistico della Libia

L'accelerazione imposta da Balbo sin dal suo ingresso in Libia  fu veramente impetuosa.
Con l'arrivo nel tempo di circa 100.000 coloni, provenienti soprattutto da Veneto, Emilia-Romagna, Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata, si diede un fortissimo impulso all'urbanizzazione, creando dal nulla, o sul solco di quelle assai modeste preesistenti, delle città moderne, belle e funzionali (ne furono interessate soprattutto HomsTripoli, e via via andando verso est MisurataSirte, in Tripolitania, e poi, in Cirenaica, DernaBengasi, Bardia, Tobruk, ormai senza discussioni il principale porto del paese).
Oltre a questo si diede il via alla costruzione di ponti, stazioni, acquedotti, porti, edifici pubblici, ospedali, scuole, ma soprattutto si intese dare il via ad un arditissimo progetto di trasformazione delle aridissime e inospitali zone dell'interno, in cui il deserto la faceva da padrone, in floride distese agricole.
Tutto questo avveniva in un'ottica di assoluta integrazione e pacificazione con le popolazioni indigene, sul presupposto che a differenza delle tribù dell'Africa Orientale quelle libiche fossero eredi di una bimillenaria civiltà che col tempo le avrebbe ben presto elevate rispetto al puro e semplice livello coloniale: anche per queste motivazioni Balbo chiese e ottenne la chiusura dei cinque campi di concentramento tuttora operativi nella Sirte (contro l'originario volere del Duce) e la predisposizione a favore delle popolazioni locali di idonei servizi scolastici, sanitari, idrici e di consulenza agricola, con la concessione di vasti appezzamenti di terra (ne furono nazionalizzati  circa 1.250.000 acri), pur permanendo un assoluto rigore nei confronti dell'ideologia senussita e dei suoi capi, ridotti a pura e semplice forza lavoro a basso costo, senza beni di proprietà.


Palazzo del Governatore a Tripoli











La stazione di Bengasi, costruita nel 1930






Viale della Vittoria sempre a Bengasi


La palazzina del Segretario Generale al Belvedere a Tripoli (1938)
I villaggi rurali

Ma la scommessa più grande era riuscire a trasformare l'arido deserto dell'interno in una fiorente landa agricola.
Nelle zone individuate come le più promettenti per lo sviluppo rurale dagli agronomi inviati da Roma vennero così  bonificati interi territori, con la fondazione di villaggi agrari per i coloni italiani e per gli indigeni che vi lavoravano, cui presiedettero soprattutto tre enti statali, e cioè l'E.C.L. (Ente per la Colonizzazione della Libia)l'E.C.C. (Ente per la Colonizzazione della Cirenaica) e l'I.N.F.P.S. (Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale)
Nel maggio del 1938 Italo Balbo in persona annunciò il grande progetto di colonizzazione demografica ed in soli sei mesi diecimila operai italiani e ventitremila libici alle dipendenze dei due enti sopra citati fecero costruire decine di villaggi rurali e centinaia di case coloniche, serviti da strade e acquedotti, con la delimitazione di ben 1800 poderi.
Ogni fattoria veniva dotata di casa colonica, stalla e magazzino, e disponeva di un appezzamento di terra che andava da un minimo di 15 ad un massimo di 50 ettari.
Il 29 ottobre 1938 ben ventimila persone, tutte di famiglie contadine selezionate in tutta Italia tra quelle richiedenti tra le più numerose, si trasferirono dall'Italia alla Libia: il più grande trasferimento di massa interno della storia italiana in un solo giorno!!!


29 ottobre 1938: partenza dei coloni da Genova



Partirono quel giorno ben 9 piroscafi da Genova con le famiglie provenienti dal nord Italia, in particolare originarie del delta padano, tra Veneto ed Emilia-Romagna (228 da Rovigo, 223 da Padova, 211 da Venezia, 119 da Vicenza, 101 da Verona, 100 da Treviso, 135 da Ferrara) e 6 da Napoli con quelle del sud, di Puglia, Calabria e Sicilia (57 da Bari, 30 da Foggia, 13 da Lecce, 28 da Catanzaro, 16 da Cosenza, 15 da Reggio Calabria, 23 da Ragusa, 20 da Siracusa, 19 da Catania, 17 da Caltanissetta, 16 da Enna, 8 da Messina).


Il Governatore della Libia Balbo, seguito da personalità ed inviati della stampa, visita l'autocolonna in partenza per il villaggio rurale Crispi


Arrivate il 2 novembre a Tripoli, tutte queste famiglie vennero trasbordate al tramonto del giorno dopo e trasferite immediatamente ai singoli villaggi di destinazione con l'ausilio di centinaia di autocarri.


Dei coloni appena arrivati dall'Italia prendono possesso della loro nuova casa con annesso podere



Qui le famiglie arrivate dall'Italia avevano a disposizione a costo zero dallo Stato un terreno per coltivarlo, secondo il modello che venne usato anche nel territorio nazionale negli stessi anni per bonificare le paludi pontine, il Fucino ed altre zone disagiate italiane: terre pressoché invivibili, in cui fino a quel momento si moriva in età ancora giovane di malaria, fame e povertà, ma che, una volta bonificate, vennero ripopolate invitando tante genti di altre regioni (soprattutto Veneto e Friuli) a trasferirvisi per fondare i nuovi centri urbani (ci dilungheremmo troppo e saremmo fuori tema, per cui se siete incuriositi su queste storie vi invito a leggere quel grandissimo romanzo che è Canale Mussolini, di Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega 2010).


Il villaggio agricolo Oberdan
Tali villaggi rurali erano progettati secondo le famose linee razionali e moderniste del tempo, e prevedevano invariabilmente una chiesa, il municipio, la casa del fascio, l'ambulatorio medico, la posta, una cooperativa di consumo, una stazione di polizia ed il mercato.
Nel solo 1938 vennero fondati 26 villaggi, tutti con nomi derivanti da famosi personaggi del Risorgimento, eroi della prima guerra mondiale, patrioti dell'irridentismo o nomi famosi del fascismo od a cui il fascismo in qualche modo si ispirava.
Nella famosa trasmigrazione del 29 ottobre di quell'anno vennero popolati tutti insieme  i villaggi Oliveti, Bianchi, Giordani, Breviglieri nella provincia di Tripoli; Crispi e Gioda  nella provincia di Misurata; Baracca, Oberdan, Battisti e D'Annunzio (scomparso a Gardone Riviera, in provincia di Brescia, proprio quell'anno, il 1° marzo) in quella di Bengasi.
Gli altri villaggi furono Micca, Littoriano, Tazzoli, Marconi, Garabulli, Garibaldi, Castel BenitoCorradini, Filzi, Maddalena, Sauro, Mameli, Razza, Berta, Luigi Di Savoia, Aro.


Piazza, con chiesa e obelisco, di un  moderno villaggio rurale in Libia, con varie
 figure umane in giro (02.11.1938). In secondo piano una Topolino




Furono anche costruiti 10 villaggi per le popolazioni arabe e berbere, con nomi in genere derivanti da caratteristiche naturali del luogo, provvisti anch'essi di moschea, mudiriyya (direzione), scuola, centro sociale (con ginnasio e cinema), caffè, suk, un piccolo ospedale...E l'immancabile casa del fascio (quella non poteva mai mancare...). 


La moschea dell'oasi di Tagiura, villaggio di costruzione italiana per le tribù beduine


Vennero così edificati, ed era un'assoluta novità per il mondo arabo,  El Fager (Al Fajr, Alba), Nahima (Deliziosa) ed Azizia (Aziziyya, Profumata), i maggiori, ma anche Nahiba (Risorta)Mansura (Vittoriosa), Chadra (Khadra, Verde), Zahara (Zahra, Fiorita), Gedida (Jadida, Nuova), Mamhura (Fiorente), Beida (al-Bayda, La bianca).
Per una rapida panoramica sull'argomento e sui singoli villaggi colonici leggete QUI.


La chiesa nel villaggio agricolo Bianchi, costruito per gli italiani nel 1937
Il patto colonico stipulato con le famiglie contadine provenienti dall'Italia si articolava in quattro distinte fasi nel corso del tempo: 

1) la valorizzazione del fondo, un periodo di attesa di tre anni al massimo in cui la famiglia assegnataria riceveva a titolo di assistenza delle anticipazioni a mezzo di appositi assegni famigliari, accollate al debito con lo Stato da cui sarebbero state successivamente scomputate, attraverso le quali il colono doveva provvedere alle necessità sue e della sua famiglia e attendere all'avviamento del fondo;

2) la mezzadria, per la durata massima di cinque anni, attraverso la quale l'agricoltore, ormai avviato il suo fondo, poteva finalmente provvedere autonomamente alle necessità sue e della famiglia ed allo sviluppo del suo podere, cominciando altresì ad effettuare i versamenti a favore dell'ente bonificatore di competenza per togliersi progressivamente il debito iniziale contratto con quest'ultimo;

3) l'usufrutto, previsto al massimo per dieci anni, nel corso del quale il terreno assegnato sarebbe finalmente dovuto entrare in piena produzione, dando così l'assoluta certezza stimabile di un reddito stabile nel tempo, con la libera disponibilità dei frutti del proprio lavoro e la possibilità per i coloni di vivere serenamente con la vendita dei loro prodotti,  fatte salve le quote di rimborso del costo poderale;

4) la piena proprietà dell'appezzamento si conseguiva al termine di tutto questo lungo percorso e comportava l'estinzione dell'ipoteca per il residuo ancora eventualmente dovuto.


Coloni al lavoro nei campi



Pascolo di bovini  al villaggio agricolo Giovanni Berta
Si sviluppò in tal modo un reticolo di villaggi e di piccole cittadine, collegati tra loro e con i singoli presìdi militari con strade rurali di buona percorribilità: l'introduzione delle più moderne tecniche agricole messe a disposizione direttamente dallo Stato con dovizia di mezzi, unite all'esperienza contadina ed alla volontà di lavorare dei tanti che provenivano dall'Italia con la promessa di un pezzo di terra proprio da coltivare affidatogli a prezzi irrisori fece fare un enorme balzo in avanti all'agricoltura locale.


Il centro rurale D'Annunzio, costruito nel 1938 su progetto dell'architetto Florestano Di Fausto (oggi Al Bayyada)






Lo sviluppo del turismo e del commercio



Ma oltre a questa conseguenza più diretta ce ne furono altre indirette, perché trovarono un notevole impulso i commerci (con la nascita dell'importante Fiera di Tripoli, ad esempio)
La Fiera di Tripoli nel 1927
e pure il turismo (si valorizzarono in modo particolare le quasi dimenticate Leptis Magna e Sabratha). 

Italo Balbo premia un vincitore del Gran Premio automobilistico di Tripoli



A ciò provvide direttamente un altro ente, l'ETAL (Ente Turistico Alberghiero della Libia), appositamente costituito per gestire alberghi, linee di autobus gran turismo, spettacoli teatrali e musicali nel teatro romano di Sabratha, nonché il famoso Gran Premio Automobilistico della Mellaha, disputatosi dal 1925 al 1940 e conosciuto internazionalmente come Tripoli Grand Prix.


Le rovine del teatro romano di Sabratha, vicino a Tripoli, ristrutturato dal fascismo: vi si svolgevano delle rappresentazioni organizzate dall'ETAL



Rovine romane in Cirenaica






Il grandioso teatro di Leptis Magna in un'altra immagine


Il mercato di Leptis Magna




26. LA VIA BALBIA


















Si riuscì anche a costruire finalmente nel 1937 una grande e modernissima arteria stradale litoranea lunga 1822 chilometri, formalmente denominata Strada Litoranea Libica ma passata giustamente alla storia  come Via Balbia.


La costruzione della Via Balbia



Larga sette metri, intervallata da alcuni ponti per superare diversi dislivelli, quest'imponente opera viaria, la più importante costruita fino ad allora nel Continente Nero, era assistita in tutto il suo lungo percorso da ben 65 case cantiniere suddivise tutte in due appartamenti di 5 stanze, in cui abitavano stabilmente due famiglie.
Fu realizzata da un insieme di piccole aziende, tutte titolari di lotti singoli per evitare egemonie da parte di grossi gruppi e tutte partite nei lavori al medesimo momento, col duplice intento di un'equa distribuzione del lavoro nell'ottica di un impiego razionale della mano d'opera, senza ristrettezze ma anche senza sprechi, con grande vantaggio soprattutto per i lavoratori indigeni: le giornate lavoro degli italiani furono infatti alla fine 330.000, quelle dei libici ben 4.510.000!
Al termine dei lavori Mondadori pubblicò un curatissimo libro ovviamente ora introvabile, La strada litoranea della Libia, le cui molteplici illustrazioni mettevano in evidenza le geniali intuizioni ingegneristiche adottate, l'imponenza dei numeri sui macchinari impiegati e gli automezzi utilizzati per il trasporto dei materiali, le tante case coloniche lungo il percorso, i panorami mozzafiato attraversati, da un lato il Gebel cirenaico e dall'altra il mare, in zone in precedenza incontaminate ed in cui fino a quel momento, come diceva Balbo, "L'uomo era solo con Dio"...
Nel 1926 ormai si contavano quasi 500 chilometri di ferrovia quando nel '21 erano 225, e ne sarebbero negli anni a venire stati ulteriormente realizzati molti di più, ma il regime preferì sempre sviluppare  più il sistema su strada piuttosto che quello ferroviario, di assai più difficile e costosa realizzazione e tenuta, soprattutto per favorire quelle "strade di colonizzazione" utili a tenere i collegamenti tra gli insediamenti dei coloni provenienti dall'Italia.

La Via Balbia oggi

La Via Balbia era un'opera veramente imponente, che venne costruita praticamente in un anno e che tuttora costituisce la principale via libica di comunicazione (col nome di Strada Costiera Nazionale).


La Via Balbia nel novembre 2010




Partendo a ovest dalla località di Ras Ajdir, al confine con la Tunisia francese, arrivava al suo ultimo chilometro in direzione est fino a Musaid, vicino al villaggio di Sollum, entro il confine egiziano (nome che sarebbe stato citatissimo nelle cronache di guerra dell'Istituto Luce che tutti gli Italiani che andavano al cinema avrebbero visto solo pochi anni dopo) e così facendo per la prima volta metteva in diretta comunicazione Tunisia, Libia ed Egitto consentendo un sicuro ed agevole interscambio commerciale tra queste tre nazioni, partendo direttamente dai porti sulla costa, prima affidato solo alle inaffidabili, pericolose, scomodissime e precarie vie carovaniere, con un evidente immediato beneficio per tutte le località interessate dal percorso e le popolazioni ivi residenti.





Nel momento in cui quella grande strada intersecava il confine tra Tripolitania e Cirenaica venne costruito un enorme arco, l'Arco dei fratelli Fileni.

27. L'ARCO DEI FILENI



























L'Arco dei Fileniconosciuto anche col nome di El Gaus, fu eretto per volontà espressa di Balbo su progetto dell'architetto Florestano Di Fausto, progettista anche di diversi villaggi rurali in Libia tra cui quello intitolato a D'Annunzio (oggi Al Bayyada), quello dedicato al pilota Umberto Maddalena (oggi El Uweilia) e quello che aveva il nome di Cesare Battisti, tutti in Cirenaica. 
Il Villaggio Maddalena oggi (El Uweila)
Il nome dell'opera, ufficialmente inaugurata il 16 marzo 1937, traeva spunto da una storia leggendaria narrata da Sallustio nel Bellum Iugurtinum.

Due fratelli, i Fileni appunto, in una sorta di sfida tra la loro patria Cartagine e la città greca di Cirene si offrirono di correre in direzione est verso due altri uomini partiti dalla parte opposta,  nel medesimo giorno ed alla medesima ora, in rappresentanza della città rivale (situata approssimativamente tra le attuali Barce e Derna), per definire nel punto in cui i quattro si sarebbero finalmente incontrati i rispettivi confini delle due civiltà.
Avendo vinto la sfida, e quindi guadagnato una maggior parte di quel territorio conteso rispetto agli avversari, i due Fileni, secondo la leggenda, erano stati accusati dai rappresentanti rivali di aver barato perché partiti in anticipo rispetto al previsto, e per dimostrare la loro buona fede si erano fatti seppellire vivi proprio in quel punto: qui sarebbero state edificate due are sacrificali in loro ricordo, le Arae Philenorum, di cui però già all'epoca dello storico greco Strabone non c'era più alcuna traccia.



I bersaglieri attraversano la Via Balbia sotto l'Arco dei Fileni





















Ecco perché sopra l'arco edificato da Balbo, in una nicchia orizzontale, erano collocati due colossi in bronzo raffiguranti i Fileni, in posa da sepolti vivi, con un frontone che li sovrastava fatto a tre strati sovrapposti distinti da tre cornici diverse a simboleggiare i tre strati di terra sopra i quali i due sventurati eroi erano stati sepolti, mentre sulla sommità del monumento era evidente un'ara, a ricordare quelle due leggendarie che sarebbero state erette in memoria dei due fratelli dai loro concittadini. 



Re Idris I di Libia, ritratto il 15 agosto 1965
Sul frontone dell'arco campeggiava una scritta in latino tratta dal Carmen Saeculare di Orazio, che Re Idris I dei Senussi, primo sovrano della Libia post coloniale, avrebbe fatto successivamente tradurre in lingua araba: 


"ALME SOL,  POSSIS NIHIL  VRBE ROMA VISERE MAIVS " 

(O Almo Sole, tu non potrai vedere nessuna cosa più grande di Roma").
   



Purtroppo l'arco sarebbe stato smantellato per volontà di Gheddafi nel 1973, in odio all'ideologia colonialista che lo aveva voluto come simbolo: di esso restano solo le due statue dei Fileni, presso il piccolo museo di Sirte (sperando che nel frattempo l'ISIS non distrugga pure quelle), e alcuni bassorilievi lasciati deperire a terra  in stato di abbandono presso lo stesso museo.


Resti dei bassorilievi miseramente abbandonati a terra, sul luogo dove prima sorgeva l'Arco dei Fileni



Nella zona dove i due fratelli Fileni secondo la leggenda si sarebbero incontrati con i loro avversari di Cirene ora sorgono i pozzi petroliferi di Ras Lanuf, all'epoca dell'edificazione dell'arco al di là di ogni più lontana immaginazione.
Triste parabola di un sì insigne monumento, di cui probabilmente in pochissimi in Italia sono a conoscenza, ed ancora meno in Libia...

Le statue dei Fileni ora, nel museo di Sirte





28. IL GOVERNATORATO UNICO DELLA LIBIA ITALIANA (1934)



Mussolini con Balbo a Leptis Magna, poco prima dell'inizio della guerra


























La successiva unificazione amministrativa nel 1934 nel solo Governatorato della Libia italiana delle tre regioni storiche più volte citate, la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan (quest'ultima però solo in parte, ed  esclusivamente per quei territori in qualche modo ascritti alle prime due), con l'istituzione delle quattro province di Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna, unita alla decisione di conferire la specifica cittadinanza italo-libica alle popolazioni autoctone musulmane (valida però solo all'interno della colonia), come premio per la fedeltà dimostrata nella guerra d'Etiopia dalle truppe coloniali libiche, fatte salve le modificazioni di diritto privato dettate dalla diversa religione (R.D. 70 del 9 gennaio 1939), diedero il la come abbiamo visto alla forte colonizzazione diretta anche nelle zone più interne.




Lo stemma araldico del Governatorato della Libia italiana

Ma anche così gli Italiani residenti nel deserto non avrebbero superato verosimilmente mai le 20000 unità, tanto che il censimento effettuato dall'ISTAT il 30 giugno 1939 (v. QUI) attestò che nell'intera colonia gli italiani residenti costituivano solo poco più del 12% (esattamente il 12,37%) del totale della popolazione (108.419 su 876.563), con punte del 37% a Tripoli (41.304 su 111.124 abitanti) e del 31% a Bengasi (20.628 su 66.200 abitanti). A Derna erano il 20% (3.250 su 16.609), a Tobruk il 16% (1.756 su 11.284), il 3% a Homs (1.156 su 35.316) e Misurata (1.472 su 46.321), il 9% a Barce (2.586 su 28.422), e così via.




A parte i villaggi interamente di coloni, quindi, la presenza italiana nonostante gli sforzi fatti dal  regime non raggiunse mai quei numeri che avrebbe probabilmente desiderato raggiungere e restò sempre minoritaria, anche nelle realtà cittadine più importanti.




Il Fezzan restò poi un mondo letteralmente a parte, visto che lo stesso fu denominato ufficialmente Territorio del Sahara libico o addirittura senza ritegno Territorio Militare del Sud, con capoluogo Hon, ad attestare in poche parole il mero carattere di occupazione militare della dominazione italiana in quella regione: una regione che di fatto non entrò mai formalmente del Regno d'Italia, salve quelle sue parti inglobate un po' forzatamente nelle due regioni storiche.


Il deserto del Fezzan


29. LA LIBIA NELL'IMMEDIATA VIGILIA DELLA GUERRA


Nell'originario progetto fascista, predisposto al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, in caso di vittoria la Libia sarebbe stata amministrativamente divisa in due parti, soggette a due distinti status giuridici: tutta la sua parte costiera, quella più urbanizzata e sviluppata, in cui risiedeva la maggior parte degli italiani, per intenderci quella che va più o meno da Tripoli a Bengasi, avrebbe fatto parte integrante di una Grande Italia, assimilata in tutto e per tutto alla Madre Patria (la zona delimitata in arancione nella cartina seguente), mentre l'interno sahariano, comprensivo altresì delle ex colonie britanniche (Egitto, Sudan, parte del Kenya e Somalia britannica), oltre che ovviamente dell'Africa Orientale Italiana, sarebbe entrato a buon diritto nell'Impero Italiano (delimitato in verde nella cartina). 
Tra il dire e il fare c'è però il mare, come si dice, e le cose non sarebbero andate come il Fascismo pensava dovessero andare.
Ci avevamo messo vent'anni, tanti soldi, tanto sangue e tante energie intellettuali, organizzative, morali per riuscire a domare definitivamente quelle popolazioni fiere, e solo da poco meno di sette era cominciata una vera e propria opera di colonizzazione dell'intero territorio nel segno di un modello italiano che pareva poter rivelarsi vincente, ma la guerra ci avrebbe colto comunque, ancora una volta, a ben prima di metà del guado.

A partire dal 1940 ci saremmo trovati a combattere in uno scacchiere libico certo più o meno pacificatoma pur sempre infido sia per il tipico carattere levantino delle popolazioni soprattutto dell'interno, che sentivano tuttora ovviamente più l'appartenenza alla propria tribù che ad un'entità statuale tra l'altro estranea alla loro cultura (figurarsi, vale ancora adesso!), e pronte quindi a voltare giacca a seconda delle convenienze, sia per l'ostilità del clima in cui le nostre forze armate si trovarono generalmente ad operare.
Al clima mediterraneo, piacevolmente caldo e temperato nelle purtroppo limitate zone costiere si contrapponeva infatti quello tipico dell'enorme entroterra desertico, molto arido, con frequenti tempeste di sabbia dovute all'infuriare del ghibli e con una fortissima escursione termica tra il giorno, in cui si toccano facilmente in certi momenti dell'anno i + 45° all'ombra, e la notte, in cui la temperatura tende a scendere a 5/10° e spesso anche sotto tali livelli, giungendo a sfiorare lo 0° termico.
Un clima che avrebbe messo a dura prova certo gli uomini, ma anche e forse soprattutto i mezzi, gli equipaggiamenti ed i materiali di tutte le parti in causain particolare però quelli degli italiani, di assai minor qualità e numericamente insufficienti, quindi sottoposti ad uno stress ancora superiore rispetto a quello patito dagli altri, avversari o alleati che fossero, anche a causa delle nostre croniche lacune logistiche, accentuate dalle enormi distanze che si dovevano coprire sotto la minaccia degli elementi atmosferici e del nemico. 

La tragica fine di Italo Balbo, avvenuta all'alba del secondo conflitto mondiale il 28 giugno 1940 a seguito della caduta del suo aereo S.M. 79 (probabilmente pilotato da lui stesso) decollato da Derna in direzione del campo T.2 di Tobruk e abbattuto all'arrivo sulla città da parte della stessa contraerea italiana (una cosa che nel tempo ha alimentato molti sospetti ai danni di Mussolini, molto probabilmente infondati), ancora inesperta e reduce da una intera giornata stressantissima di bombardamenti effettuati dall'aviazione inglese, avrebbe poi purtroppo maledettamente complicato le cose.
Ma di questa tragedia parleremo nelle prossime puntate.


I resti bruciacchiati dell'aereo di Balbo caduto a Tobruk il 28 giugno 1940



P.S. 
ALCUNE NOTE
In merito a questo post mi piace ricordare, al di là dei singoli riferimenti fatti nel testo, per quanto concerne l'intero sviluppo delle operazioni tra il 1911 ed il 1932, oltre al solito apporto in generale di Wikipedia (si vedano le biografie dei singoli personaggi storici citati, cito però qui in particolare quella su Italo Balbo, https://it.wikipedia.org/wiki/Italo_Balbo, nonché le voci sulle varie riconquiste, della Cirenaica, della Tripolitania, del Fezzan e della Libia in generale, e voci correlate soprattutto sui crimini di guerra italiani), l'articolo 
La riconquista della Libia di Emilio Bonaiti, che trovate al seguente link http://www.icsm.it/articoli/ri/riconquistalibia.html e l'articolo La sporca guerra di Libia (1911-1931) al link http://win.storiain.net/arret/num153/artic3.asp.
Segnalo anche l'articolo sul disastro misconosciuto della spedizione del colonnello Miani a Gasr Bu Hadi  (http://www.ladigetto.it/permalink/43319.html).
Per un'altra interessante pagina biografica su Balbo rimando poi a questo link: http://www.windoweb.it/guida/cultura/biografia_italo_balbo.htm, di cui però non ho le stesse certezze sulla volontà del Duce di ucciderlo concretizzatasi a dire dell'autore con l'abbattimento del 28 giugno 1940.
Sull'intervento della M.V.S.N. in Libia rimando a questo link: http://www.regioesercito.it/reparti/mvsn/mvsnlib23.htm.
Sulla Via Balbia e l'Arco dei Fileni segnalo: http://www.qattara.it/60-167%20balbia.htm.
Sull'impresa fiumana rimando al link di Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Impresa_di_Fiume) ed a quest'altro: http://www.ilpost.it/2014/03/16/impresa-fiume-gabriele-dannunzio/.
Non posso poi non citare anche le belle e significative tavole del grandissimo Alberto Parducci, che ho pubblicato in questo come in altri articoli.
Infine, un interessante articolo di Limes su Cosa rimane della Tripoli italiana (v. QUI).

- SEGUE -

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La storia delle colonie italiane: la conquista della Libia - 1