Pagine

Diavolo che scrive al pc

Diavolo che scrive al pc
Tic tic tic tic tic tic

domenica 6 dicembre 2015

La storia delle colonie italiane: la conquista della Libia -1

Visti gli ultimi avvenimenti geostrategici mondiali ho ritenuto opportuno buttare giù qualche noterella sulla storia delle nostre vecchie colonie, giusto per dare un minimo di inquadramento storico in relazione a ciò che l'attualità ci sta drammaticamente proponendo ora sotto i nostri occhi.
In Somalia ci siamo già ritornati ormai 23 anni fa, con la traumatica esperienza di RESTORE HOPE secondo la dizione ONU (Operazione Ibis, per noi).
In Libia mi sa che di riffa o di raffa saremo costretti a ritornarci a breve.
Ecco perché ne parlo per prima. 


1. IL TRATTATO DI LOSANNA-OUCHY 



I plenipotenziari italiani e turchi al tavolo della pace di Losanna: da destra a sinistra Giuseppe Volpi, Roumbeyoglou Fahreddin, Guido Fusinato, Mehmeth Naby Bey, Pietro Bertolini



La Libia divenne italiana dopo la guerra contro l'ormai declinante Impero Ottomano turco iniziata il 29 settembre 1911 e chiusa col trattato di pace di Losanna firmato alle 15,15 del 18 ottobre 1912 in una sala del Palace Hotel di Ouchy (v. QUI), giunto al termine di un'estenuante trattativa durata poco più di due mesi tra le parti in causa e mediata dalle principali Potenze europee del tempo (in primis Germania, Francia, Russia ed Inghilterra).

Quest'immagine fa capire in pieno l'idea che l'Italia aveva della Libia, quella di una bella ragazza araba riconoscente che noi avevamo liberato dalle catene dell'oppressore: la realtà non si sarebbe rivelata propriamente questa




Alla conclusione del laboriosissimo accordo tra le parti contrapposte diedero un fondamentale impulso per la parte italiana soprattutto due personaggi: 

- il primo a trovare i referenti e le parole giuste per avviare le prime trattative tra i due governi, ai primi di luglio del 1912, fu l'industriale veneziano Giuseppe Volpiche sarebbe diventato nel 1921 Governatore della Tripolitania e nel 1925 Ministro delle Finanze nel Governo Mussolini: conosceva bene la Turchia per averci vissuto a cavallo tra i suoi 20-30 anni ed essersi imposto come fortunato importatore di tabacco verso l'Italia, poi aveva fondato nel 1905, agli albori dell'industria elettrica, la S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità) e nel 1917, insieme con altri, il Polo industriale di Marghera, fino a reinventarsi dal 1919 imprenditore nel turismo alberghiero di lusso e poi Presidente di Confindustria dal 1934 al 1943 ed in tale veste Presidente della Biennale di Venezia e fondatore della celeberrima Mostra Internazionale dell'Arte cinematografica;

- l'altro protagonista italiano delle trattative fu un professore universitario trevigiano di Montebelluna, Pietro Bertolini, insigne docente di diritto amministrativo, già Ministro dei Lavori pubblici nel Governo Giolitti III tra il 1907 ed il 1909 ma soprattutto destinato a diventare il primo politico della Storia d'Italia nominato Ministro delle Colonie, il 6 luglio 1912 dal Governo Giolitti IV.

Nonostante il loro grande impegno, tuttavia, forse il trattato non sarebbe stato comunque firmato dai testardissimi turchi, almeno non proprio in quel momento, se alla sconfitta ormai certa nel conflitto con l'Italia in terra di Libia non si fosse aggiunta, solo dieci giorni prima, l'8 ottobre 1912, la guerra che alcune Potenze balcaniche di recente indipendenza (i neo Regni di Bulgaria, Serbia, Grecia e Montenegro), alleatesi nella Lega Balcanica, avevano mosso proprio contro ancora la Turchia, approfittando dell'ormai suo evidente stato di decozione.


Un'allegoria del tempo sul Gulliver turco in balia dei piccoli nemici europei
(Italia, Montenegro, Grecia, Serbia e Bulgaria)



Ne sarebbero sortite ben due guerre in rapida successione, le cosiddette guerre balcaniche, che avrebbero ridisegnato la mappa di quella regione anche se solo per poco tempo: alla prima, conclusasi con la sconfitta anche qui della Turchia sancita dal Trattato di Londra del 30 maggio 1913, sarebbe il 29 giugno 1913 seguita la seconda, nata per volontà della Bulgaria che, insoddisfatta di non aver ottenuto il possesso della Macedonia andata invece alla Serbia, avrebbe immediatamente attaccato tutti i precedenti alleati, in un durissimo confronto durato un mese e mezzo nel quale sarebbero anche entrati in un secondo tempo ancora la Turchia, per riprendersi Adrianopoli (l'attuale turca Edirne), e pure la Romania, interessata alla Dobrugia, regione di confine che era passata alla Bulgaria di fronte al Mar Nero.
Il Trattato di Bucarest del 10 agosto 1913 avrebbe sancito la sconfitta della Bulgaria dando una nuova conformazione geografica ai Balcani, con la nascita anche del Principato d'Albania, affidato al tedesco Principe Guglielmo di Wied, fratello della Regina Elisabetta di Romania, ma alla fine sarebbe risultato anch'esso solo interlocutorio: solo la prima guerra mondiale avrebbe risistemato più o meno stabilmente le cose.



2. LA SCONFITTA DI ADUA

Il giovane, entusiasta e rampante Regno d'Italia, che soprattutto con l'avvento della sinistra storica, al governo da sola a partire dall'esecutivo di Agostino Depretis del 25 marzo 1876non aveva mai nascosto le proprie grandi ambizioni di espansionismo coloniale, probabilmente anche troppo spregiudicate per le nostre modeste risorse militari e tecnologiche, con la vittoria in questo conflitto era ritornato prepotentemente protagonista in Africa, quindici anni dopo l'onta della terribile sconfitta patita il 1° marzo 1896 nei pressi di Adua, fino a quel momento sconosciuta cittadina del montuoso Tigrè (o Tigrai), nel nord dell'Etiopia, un po' più a sud de l'Asmara, capitale dell'Eritrea.


Adua, monumento commemorativo della battaglia oggi
La disfatta di Adua

Nel corso della guerra per il possesso dell'Abissinia, oltre 100.000 miliziani al diretto comando di Menelik II (e della moglie Taitù che era al suo fianco), 80.000 dei quali muniti di armi da fuoco, con 42 pezzi di artiglieria e mitragliatrici, avevano annientato una ad una le quattro brigate al comando del Tenente Generale Oreste Baratieririspettivamente condotte dai generali Giuseppe Edoardo ArimondiVittorio Emanuele Dabormida, entrambi caduti sul campo, Matteo Francesco Albertone, scampato e preso prigioniero, Giuseppe Ellena, probabilmente caduto anche lui, in un tremendo scontro campale ad alta quota (v. QUI, QUI, e QUI), in cui il numero di caduti italiani era stato superiore a quello di tutte e tre le guerre d'indipendenza risorgimentali messe insieme  (quasi 7.000, di cui 262 ufficiali, 3.772 soldati nazionali e 2.900 ascari eritrei, con anche 1.500 feriti e 3000 prigionieri), anche se spaventose pure erano state le perdite sofferte dal nemico (oltre 30.000 uomini tra caduti e feriti).
Si trattava di poco meno di 18.000 soldati in completo assetto di combattimento, con 56 pezzi di artiglieria, oltre ad un consistente contingente di ascari eritrei al comando del maggiore Giuseppe  Galliano, perito pure lui nello scontro, che erano stati mandati allo sbaraglio contro un nemico infido e praticamente senza mappe in una sconosciuta terra ostile.
Baratieri e il suo stato maggiore poco prima della battaglia

Il processo al Generale Baratieri


Oreste Baratieri
Baratieri al momento di quella disfatta era già stato formalmente sostituito 
il 21 febbraio precedente (in incognito per non minare il suo morale) dal pari grado padovano Antonio Baldissera, nato e formatosi come ufficiale nell'esercito austriaco prima dello scioglimento del suo giuramento dopo il passaggio del Veneto al Regno d'Italia.
I5 giugno 1896 sarebbe stato processato dal tribunale militare "per abbandono di posto, codardia ed inettitudine di comando": nonostante la richiesta dell'avvocato militare di condannarlo al massimo della pena, la corte l'avrebbe assolto per "inesistenza di reato", ma segnandolo per sempre con una durissima condanna morale, tacciandolo come "elemento al di sotto delle esigenze della situazione"
Antonio Baldissera
 


In un'immagine britannica la distruzione della colonna Dabormida nella battaglia di Adua















Il trattato di pace di Addis Abeba 

Tutto questo era accaduto nonostante fosse stata proprio l'Italia a favorire l'ascesa al trono del sovrano etiopico, in cambio di un protettorato sulla sua terra: il neonato e ambiziosissimo Regno d'Italia, infatti, aveva aiutato Menelik nelle sue mire regali, riconoscendolo come unico Negus (Re) d'Etiopia al posto del predecessore Yohannes IV, ucciso dai Mahdisti del Sudan.
Yohannes IV
Quel disastro aveva determinato la fine politica di Francesco Crispi principale fautore del nostro impegno coloniale, il cinico e spregiudicato primo ministro trasformatosi in pochi anni dall'acceso garibaldino repubblicano che era in un fiero monarchico pro Savoia e succeduto nel 1887 al deceduto Agostino Depretis: infatti con quella vittoria l'Etiopia aveva ottenuto col trattato di pace di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 la cancellazione proprio di quel trattato di Uccialli firmato il 2 maggio 1889 che sanciva il protettorato italiano invocato da Crispi su quella nazione (sul modello adottato contemporaneamente per l'Eritrea e la Somalia) e che il Negus in persona aveva prima negato a parole e poi nel 1893 denunciato ufficialmente con tutti i crismi, anche grazie al determinante appoggio francese. 








L'Italia aveva così dovuto dire addio ai propri progetti espansionistici in Etiopia, accontentandosi semplicemente di consolidare territorialmente la piccola Eritrea sul Mar Rosso e la Somalia sul versante orientale, confinante a nord col Golfo di Aden e a est con l'Oceano Indiano, divise tra loro dalla Somalia francese e da quella britannica.



Gli ascari eritrei catturati ad Adua subirono la pena prevista per i traditori della Patria:
la mutilazione della mano destra e del piede sinstro




3. LA RIVALITA' CON LA FRANCIA





Francesco Crispi



La Francia era da sempre la nostra rivale più agguerrita e temuta nella corsa alle colonie africane, insieme appunto con l'aggressivo espansionismo britannico: proprio nel momento in cui, con l'apertura il 17 novembre 1869 del Canale di Suez, il Mediterraneo ritornava ad essere elemento centrale nelle relazioni economico-politiche di tutto il mondo, dopo due secoli di lenta decadenza, l'emergente Regno d'Italia rischiava infatti, stretto in questa morsa mortale anglo-francese, di essere relegato a potenza di secondo livello nel suo mare di casa e non poteva sopportarlo




L'inaugurazione del Canale di Suez





Benedetto Cairoli
















Lo schiaffo di Tunisi

Pesava ancora il ricordo del 12 maggio 1881, quando con un colpo di mano la Francia della Terza Repubblica si era impadronita in appena undici giorni della Tunisiariducendola con la stipula del Trattato del Bardo del 12 maggio 1881 ad un mero suo protettorato, in vista dell'inevitabile annessione, realizzatasi poco più di due anni dopo, l'8 giugno del 1883, con le Convenzioni de La Marsa (che solo il 20 marzo 1956 sarebbero state revocate, con l'ottenimento da parte della Tunisia della sua indipendenza).





La prima pagina delle Convenzioni 
della Marsa
Era passato alle cronache come lo "schiaffo di Tunisi"perché solo poco tempo prima  
Jules Ferry
lo stesso primo ministro transalpino Jules Ferry aveva rassicurato il collega italiano, Benedetto Cairoli, sul fatto che non vi fosse da parte francese alcuna volontà di occupare la Tunisia, dichiarato obiettivo invece di Roma per la presenza in loco di una numerosa comunità italianainevitabili a quel punto le dimissioni di Cairoli, il cui posto sarebbe stato preso dal solito Agostino Depretis. 

La guerra doganale con la Francia

Agostino Depretis
La rivalità con la Francia era giunta in quegli anni a toccare picchi di gravità altissimi al momento della guerra doganale del 1888, che aveva diviso le due nazioni cugine, quando il solito Crispi aveva unilateralmente fatto cadere il trattato commerciale firmato dalle due Potenze nel 1886 e aggravato i dazi sulle importazioni, peraltro con esiti dannosissimi soprattutto per la fragile economia italiana, ancora troppo arretrata e legata al mondo agrario più che a quello industriale, che solo in quegli anni cominciava ad avere un certo sviluppo nel nord.
In tal modo l'Italia venne letteralmente messa a terra dal crollo delle importazioni con la Francia, con gravi ripercussioni anche sull'occupazione e sulle condizioni di vita della gente comune, già in precedenzduramente provata da misure assai impopolari decise da degli Esecutivi centralisti che, nello sforzo di unificare al più presto  i mille diversi campanili d'Italia con il ferreo controllo dei prefetti e sotto un'unica legislazione uniforme di stampo piemontese, finivano per apparire sordi e ciechi di fronte alle esigenze del popolo minuto e di una realtà assai più complessa di quella precedente.
Essi apparivano ormai agli occhi di tanti dei nuovi italiani come dei meri strumenti in mano alla vecchia classe dirigente savoiarda per colonizzare i vecchi Stati preunitari, piuttosto che per fondare un nuovo Stato su basi nuove e paritarie per tutti, e tutto ciò accadeva pure senza alcun contributo della tuttora autorevolissima Chiesa Cattolica, tenuta accuratamente ai margini dal processo risorgimentale, contro il quale semmai essa si era in gran parte opposta, sin da prima ancora che si arrivasse allo strappo definitivo con l'annessione all'Italia addirittura dello Stato Pontificio, salva l'eccezione del minuscolo territorio vaticano lasciato al Papa.



Allegoria dell'Italia postunitaria (1861)
La guerra al brigantaggio postunitario


Un'immagine che raccoglie i volti dei componenti della principale banda di briganti, quella guidata da Carmine Crocco e dal suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco


















L'introduzione generalizzata dell'obbligo di leva (v. QUI), per esempio, che durava ben tre anni e sottraeva a lungo alle proprie case giovani braccia maschili indispensabili per il lavoro nei campi ed il sostentamento della famiglia, trovò soprattutto al sud, nel territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie, abituato ad una leva assai più blanda e con pochissime realtà industriali di rilievo, un'accesa resistenza, tanto da costituire il maggior propellente per il grave fenomeno del brigantaggio postunitario [v. QUIQUI e QUI], trattato come una semplice questione di ordine pubblico e conseguentemente represso duramente con le misure eccezionali dell'implacabile Legge Pica del 1863 (v. QUI).


Si trattò invece di una vera e propria guerra civile tra italiani (terribile, per le atrocità che vennero commesse da una parte e dall'altra), nella quale alle truppe neo-italiane, guidate sì da un nobile modenese, il Generale Enrico Cialdini, ma in realtà ancora per almeno un buon 90% piemontesi, che arrivarono a contare ad un certo punto nell'ex Regno delle Due Sicilie fino addirittura a 120.000 uomini, cui erano da aggiungere le milizie cittadine della Guardia nazionale e le forze mobilitate della polizia, si andarono a contrapporre 
Il corpo senza vita di Ninco Nanco,
luogotenente di Carmine Crocco
almeno altrettante migliaia di poveri cafoni meridionali, soprattutto braccianti e montanari lucani, abruzzesi, molisani, pugliesi, calabresi e irpini, spesso insieme con le loro compagne di vita e coi figli; ad essi si unirono per convinzione o necessità moltissimi ex ufficiali e soldati borbonici, congedati e/o sbandati, insieme con tanti ex garibaldini meridionali delusi dalle mancate promesse e persino diversi illustri personaggi della nobiltà cattolica europea, soprattutto spagnola e francese, spinti ad agire dal comportamento ritenuto slealmente illegale col quale il liberale Piemonte aveva conquistato senza formale dichiarazione di guerra il territorio guidato dal cristianissimo Francesco II di Borbone.


Enrico Cialdini

Francesco II di Borbone
La prima guerra civile italiana, perché ripeto tale fu, durò sostanzialmente ben quattro anni, dal 1861 al 1865, anche se ebbe vigorose appendici anche ben oltre gli anni '70 del secolo XIX, eppure è tuttora misconosciuta ai più, non viene praticamente trattata se non male e di sfuggita a scuola, come se su di essa debba stendersi fino all'eternità un'enorme coltre di non detto, di sfuggente, in poche parole di "omertoso": eppure vi morirono assai più italiani che in tutto il Risorgimento, con cifre ufficiali veramente spaventose, tanto più se si considera che in realtà esse sono assolutamente in difetto rispetto alla realtà. 
Cialdini, in un suo rapporto ufficiale inviato a Vittorio Emanuele II, relativo ai soli primi mesi e con riferimento esclusivamente al Napoletano, parlò infatti di "8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati, 10604 feriti, 7112 prigionieri, 918 case bruciate, 6 paesi interamente arsi, 2905 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 13629 deportati, 1428 comuni posti in stato d'assedio" (Vittorio Messori, Le cifre del generale Cialdini).


La bella brigantessa Michelina Di Cesare, ritratta da viva e da morta



Il malcontento sociale dopo l'unificazione


Emigranti meridionali di fine '800 in una cartolina edita dalla Navigazione Generale Italiana


Ma oltre alla leva era l'imposizione fiscale elevatissima l'altro fattore squilibrante del panorama sociale ed economico di allora: l'aumento indiscriminato delle tasse deciso dai governi liberal-borghesi dell'epoca per tenere sotto controllo le finanze pubbliche ed il bilancio dello Stato, in anni in cui l'avvio della nuova Italia imponeva sostanziosi sforzi finanziari per le infrastrutture, l'unificazione amministrativa e le spese belliche, finiva col gravare soprattutto sulla povera gente, anche perché ad aumentare erano per lo più le imposte indirette, che portavano inevitabilmente all'aumento del costo dei beni di prima necessità, quelli incomprimibili che anche le famiglie più povere dovevano comprare per sopravvivere (la famigerata tassa sul macinato del periodo 1869-1884 ne fu un classico esempio, incidendo assai pesantemente alla fonte sul costo del pane e della farina, v. QUI): un problema, anche questo, risentito per ovvi motivi maggiormente al sud, anche se non mancavano le sacche di povertà un po' in tutto il paese, comprese zone oggi insospettabili ma allora sottosviluppate come il Friuli, il Veneto, l'Emilia-Romagna.


L'emigrazione italiana regione per regione dal 1876 al 1915 secondo una grafica francese


Tutto questo portava a malcontento, insofferenza, insubordinazione, ed era solo parzialmente attenuato dall'ormai dilagante fenomeno dell'emigrazione nei nuovi mondi (le Americhe, del Nord e del Sud, soprattutto negli Stati Uniti e in Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela, ma anche l'Australia), tanto da giungere fino allo scoppio repentino ed in genere effimero di vere e proprie sollevazioni di popolo, spesso sobillate da agitatori politici, soprattutto anarchici o di ispirazione social-comunista, o dai neonati sindacati, o incubate all'interno di gruppi politici ben precisicome accadde soprattutto in Sicilia (con i cosiddetti Fasci Sicilianiattivi tra il 1890 ed il 1894), v. QUI), o in Lombardia, coi moti di Milano del 6-9 maggio 1898 (v. QUI).



Il celeberrimo quadro di Pellizza da Volpedo "Il quarto stato"



La povera gente, quella che pur disperata non emigrava all'estero, veniva così sempre più attratta dalle fascinazioni ugualitarie  socialcomuniste ed anarchiche nate contro il sistema nel suo complesso, mentre quest'ultimo si ripiegava su sé stesso, e non solo poco o nulla faceva per risolvere certe storture, ma anzi reagiva scompostamente con le inaccettabili soluzioni muscolari alla Bava Beccaris, il generale che durante appunto i moti milanesi avrebbe dato l'ordine di sparare coi cannoni contro la folla inerme dei manifestanti nelle stesse vie di Milano, causando (cifre ufficiali, di sicuro inferiori a quelle reali) ben 80 morti (2 tra le forze dell'ordine) e 450 feriti (22 tra i militari).

Corso di Porta Venezia a Milano occupato dalle truppe di Bava Beccaris durante i moti popolari nei primi giorni di maggio del 1898


Fiorenzo
 Bava Beccaris



L'adesione dell'Italia al Patto di Vienna (1882)

In quest'atmosfera interna arroventata e piena di contraddizioni sociali, economiche, politiche e ideologiche i contrasti con la Francia avevano così portato di fatto l'Italia nelle braccia di Austria e Germania, soprattutto per volontà di quest'ultima, desiderosa di attrarre a sé la neonata Potenza mediterranea, con l'adesione del Regno al Patto di Vienna, istitutivo nel 1882 della Triplice Alleanza ed inteso dall'Italia proprio in funzione eminentemente difensiva ed antifrancese (v. QUI), nonostante tanti nel Bel Paese vedessero quel patto come il fumo negli occhi, per i ricordi mai sopiti del Risorgimento, attuato soprattutto contro il "tedesco".

L'accordo segreto Barrère-Prinetti (1902)

Camille Barrère
Col tempo poi i rapporti tra Italia e Francia si erano tuttavia abbastanza "normalizzati", grazie soprattutto ai buoni uffici del nuovo ambasciatore francese a Roma Camille Barrère, inviato appositamente da Parigi col compito di ripristinare le antiche relazioni di amicizia con l'Italia.
Uomo colto, affascinante e scaltro, con un notevole uso di mondo, Barrère aveva trasformato l'ambasciata francese in una sorta di cenacolo cultural-mondano permanentemente al centro della quotidianità politica e diplomatica della capitale e con il suo abilissimo modo di fare aveva fatto sì che l'anima triplicista di Crispi e dei suoi emuli, che trovava soprattutto nell'esercito i suoi più zelanti interpreti, venisse sostituita da quella assai più filo-francese del nuovo capo del governo Giuseppe Zanardelli.

Giuseppe Zanardelli
Questi, da vecchio patriota risorgimentale qual era stato, protagonista attivo ed entusiasta nelle famose dieci giornate di Brescia contro l'oppressore austriaco (v. QUI),  era un convinto antitedesco, al pari, almeno apparentemente, del nuovo Re Vittorio Emanuele IIIche aveva preso il posto del padre Umberto I, ucciso a pistolettate
Gaetano Bresci
da un anarchico pratese, il trentunenne Gaetano Bresci (vQUI e vedi QUI), al termine della premiazione di una società sportiva di ginnastica nel Parco di Monza la tarda sera di domenica 29 luglio 1900: una decisione presa per punirlo della grave situazione economica e sociale del paese ed in particolare per avere il sovrano autorizzato il Generale Fiorenzo Bava Beccaris all'uso della forza Milano (premiandolo poi con la Gran Croce dell'Ordine Militare dei Savoia e successivamente addirittura col Laticlavio senatoriale).


L'assassinio di Umberto I ad opera dell'anarchico pratese Gaetano Bresci




Il giovane re, in realtà, non era in effetti propriamente contro gli Asburgo, ma da freddo e lucidissimo uomo di Stato qual era capiva che lo spirito vero della nazione era ancora profondamente antiaustriaco, ed in ciò trovava sincero appoggio anche dal clan famigliare della moglie, la Regina Elena, nata Jelena Pietrovic-Njegos del Montenegro, sesta figlia di Nicola I, Re di quel piccolo Stato orgoglioso e con le pezze al culo, resosi indipendente solo dal 1910 dopo anni di dominazione ottomana e logicamente più vicino allo Zar che all'Imperatore austriaco.

Vittorio Emanuele III
Barrère favorì con reciproca soddisfazione delle due nazioni la fine della guerra doganale e, soprattutto, stipulò il 30 giugno 1902 con l'allora ministro degli esteri, Giulio Prinetti Castellettiun trattato segreto che concedeva alla Francia la più totale libertà d'azione sul Marocco e all'Italia quella sulla Libia (sarebbe stato pubblicamente svelato solo nel 1920), che di fatto non faceva altro che mettere nero su bianco (sia pure non pubblicamente) un'intesa sorta spontaneamente sin da prima tra lo stesso Barrère ed Emilio Visconti Venosta, il nostro più valente diplomatico, ministro degli esteri sotto i precedenti gabinetti condotti prima dLuigi Pelloux e poi da Giuseppe Saracco.
Prinetti, di nobile famiglia meratese, era un galantuomo conservatore e dichiaratamente cattolico (cosa utile anche per consentire un avvicinamento alla Chiesa, negli anni del gelo con l'Italia susseguito alla presa di Roma nel 1871), al contrario dell'anticlericale e massone Zanardelli (affiliato alla grande loggia romana "Propaganda Massonica" afferente al Grande Oriente d'Italia): imprenditordella nascente industria automobilistica prestato alla politica, al contrario del navigatissimo Visconti Venosta lui di esteri sapeva ben poco (la sua precedente esperienza ministeriale, peraltro apprezzata, era stata nel 1897 ai lavori pubblici, sotto la presidenza di Antonio Starabba, Marchese di Rudinì), ma proprio quello era il motivo per cui era stato imposto a Zanardelli da Vittorio Emanuele, che aveva bisogno di una sorta di prestanome con cui fare politica estera per interposta persona.




Giulio Prinetti Castelletti
I "giri di valzer" dell'Italia

Il contenuto di quel trattato "segreto" divenne ben presto un mero segreto di Pulcinella, sia perché la Francia subito ne parlò con Russia e Inghilterra, scoprendo peraltro che l'Italia zitta zitta aveva trovato un accordo con la stessa Inghilterra addirittura qualche mese prima sul medesimo tema, ottenendo la benevola accondiscendenza britannica, sia perché comunque i comportamenti internazionali successivi dell'Italia fecero subito capire la sua intenzione di rendersi più autonoma dagli alleati austriaci e tedeschi, pur restando sempre formalmente fedele al patto che la legava a quelli, peraltro formalmente rinnovato per 12 anni solo due giorni prima del patto segreto italo-francese!!!
Addirittura, l'Italia il 24 ottobre 1909 si accordò pure con la Russia per supportarla nei suoi progetti egemonici sugli stretti in cambio del nulla osta dello Zar sulle nostre mire in Nord Africa, con l'intesa che l'Italia facesse anche di tutto per contrastare le mire austriache sui Balcani!
La cosa incredibile è che solo quattro giorni prima, il 20 ottobre, il nostro ministro degli esteri Tommaso Tittoni 
Tommaso Tittoni
e l'omologo austriaco Alois Lexa von Aehrenthal avevano firmato un analogo impegno in senso uguale e contrario, con la promessa austriaca di compensazioni all'Italia in Africa in caso di una sua espansione nei Balcani e la reciproca assicurazione formale a non stringere accordi con altri Stati sulla medesima questione!!! 
Alois Lexa von Aehrenthal

Erano le prime contraddizioni che avrebbero portato nel 1915 al clamoroso cambio di alleanze dell'Italia in vista dell'entrata nella Grande Guerra, e per quanto ancora in uno stato fluido cominciavano già a dividere profondamente la nostra classe politica, intellettuale e giornalistica tra i favorevoli all'una od all'altra parte.



Bernhard von Bulow
L'Austria-Ungheria, per ovvi motivi, era assai più indispettita per il nostro spregiudicato comportamento della stessa Germania, il cui cancelliere Bernhard von Bulow, filo-italiano anche per aver sposato una figlia di Marco Minghetti, già presidente del consiglio italiano tra il 1863 ed il 1864, rispondeva così ad un'interpellanza rivoltagli al riguardo in parlamento: 

"Un marito non deve dare in smanie se per una volta sua moglie fa un giro di valzer con un altro cavaliere".

Da quel momento l'espressione "giro di valzer" sarebbe entrata nel gergo comune per indicare un certo tipo disinvolto di fare politica internazionale.
Purtroppo, dobbiamo confessarcelo qui tra noi quattro gatti che siamo, si tratta di un atteggiamento che in politica internazionale (legata spesso agli opportunismi ed alle convenienze assai più di quella interna, al costo di tapparsi il naso senza indulgere a trasporti emozionali) attuano tutti, chi più chi meno, ma che nella comune vulgata sarebbe spesso rimasto appiccicato all'Italia come parametro di riferimento.
Sia perché nato con noi, sia perché non è che avremmo dato modo in seguito (fino ai tempi nostri) di smentire i nostri detrattori.

4. LA CRESCENTE OSTILITA' DELL'AUSTRIA-UNGHERIA


Franz Conrad von Hotzendorf
Fatto sta che l'Austria ormai diffidava apertamente di noi, e addirittura in ben due occasioni, e cioè subito dopo il terremoto di Messina del 1908 e per l'appunto in coincidenza con la nostra impresa libica del 1911, nientepopodimeno che il Capo di Stato Maggiore austriaco Conrad von Hotzendorf, nonostante fosse ancora saldamente in vigore l'alleanza con l'Italia, fece grossissime pressioni sul suo governo, per fortuna immediatamente fermate dall'esplicito no della Germania, affinché si procedesse ad un attacco a tradimento immediato, potente e mortifero contro di noi, considerati insieme con la Serbia il pericolo principale per la sopravvivenza dell'Impero austro-ungarico: addirittura esiste al riguardo un'apposita nota scritta al ministro Aehrenthal il 24 settembre 1911, cioè cinque giorni prima dell'inizio delle ostilità contro l'Impero Ottomano!!! 
Non era l'unico, von Hotzendorf, a pensarla così, né nell'esercito né a Corte, dove un altro illustrissimo personaggio la pensava esattamente come lui, proprio quell'Arciduca Francesco Ferdinando che, cadendo sotto i colpi di uno studente serbo a Sarajevo pochi anni dopo, avrebbe dato il la alla prima guerra mondiale.


I disordini di Trieste del 15 febbraio 1902



L'astio di questo generale verso gli italiani era cosa nota, come attestano i suoi scritti che sono arrivati sino a noi (lettere, rapporti, note, etc.), e derivava soprattutto da un grave episodio, la grande manifestazione sindacale di Trieste indetta dai fuochisti del Lloyd Austriaco il 15 febbraio 1902 e sedata con le cariche alla baionetta dalle truppe imperiali dopo che era stato proclamato in città lo stato d'assedio, con un orribile bilancio complessivo di almeno 14 vittime ufficiali (ma sicuramente diverse decine di più) e qualche centinaio di feriti: una manifestazione da lui sin da subito ascritta in realtà al mondo irridentista filo-italiano ed organizzata col segreto appoggio dello stesso governo Giolitti.
Eppure...

Eppure anche l'Austria tanto verginella non era, se il 13 ottobre 1904 il solito Aehrenthal (sempre lui!), allora ambasciatore austriaco in Russia, in un incontro a San Pietroburgo col ministro degli esteri russo Conte Lansdorf, stipulò l'ennesimo trattato segreto in favore del mantenimento dello status quo nei Balcani tra le due Potenze, con l'impegno reciproco a mantenere la neutralità assoluta in caso di eventuale conflitto di una di esse con una terza Potenza...
Di quest'accordo l'Austria avrebbe ovviamente avvisato l'alleata Germania, ma non l'alleata Italia.
Perché?

Perché, come spiegò espressamente Francesco Giuseppe a Guglielmo II in una lettera speditagli il 1° novembre seguente, quel patto aveva proprio una funzione anti-italiana!
Avete capito, la leale Austria?
Non solo era la prima, grave violazione del Patto di Vienna ai danni dell'Italia, ma era anche la conferma, l'ennesima, che in politica estera, alla fine, ognuno fa sempre un po' quello che gli pare, se gli interessi nazionali lo richiedono, senza che possa sempre sorgere un altro col ditino alzato a dare lezioni.


Una caricatura di Bismark alla conferenza di Berlino

5. L'ITALIA ROMPE GLI INDUGI SULLA LIBIA

Era ormai comunque chiaro che, una volta svaniti i timori italiani verso la Francia, automaticamente le vecchie ritrosie di stampo risorgimentale verso l'innaturale alleanza coi popoli germanici stavano ritornando prepotentemente fuori, tanto più che poco tempo dopo l'accordo segreto Barrère-Prinetti, quando Francia e Italia avevano iniziato una grande espansione commerciale nelle rispettive sfere d'influenza, proprio la Germania si era messa in mezzo.
Poiché anch'essa sentiva il bisogno di realizzare un suo impero coloniale,  aveva dato a sua volta il via ad una prepotente penetrazione commerciale in quelle zone e soprattutto proprio in Libia, a danno dei nostri interessi nazionali, talmente ficcante da giungere quasi al punto di superarci, pur essendo partita più tardi.

Il corteo del Kaiser Guglielmo II (al centro) a Tangeri, il 31 marzo 1905  



La prima crisi marocchina,  quella di Tangeri (1905)

Ma, soprattutto (v. QUI), nel corso di una sua visita ufficiale al Sultano del Marocco nella città di Tangeri, il 31 maggio 1905, il Kaiser Guglielmo II si pronunciò espressamente contro la colonizzazione del Marocco da parte della Francia, dando il via alla prima, gravissima crisi marocchina, universalmente conosciuta come crisi di Tangeri.
Noi eravamo ovviamente in una situazione di gravissimo imbarazzo.
Eravamo infatti contemporaneamente da un lato formalmente alleati di Germania ed Austria nella Triplice Alleanza, eppure dall'altro lo eravamo di fatto, in segreto, anche della Francia, contro cui pure era dichiaratamente (da noi!) stato stipulato il Patto di Vienna, e contro cui ci eravamo impegnati sempre in quell'accordo segreto a non combattere (e loro a non combattere contro di noi) anche in caso di guerra contro i nostri alleati della Triplice, ed anche se a sparare per prima fosse stata proprio la Francia, sia pur provocata!!!
Esporci in un modo o nell'altro in questa crisi avrebbe significato scoprire tutti gli altarini e farci fare a livello mondiale una brutta figura verso l'uno o l'altro dei contendenti, e questo anche se l'Italia riteneva di non aver formalmente trasgredito ad alcuna clausola del trattato di Vienna (un cavillo legale si trova sempre).
A salvarci fu ancora una volta l'equilibrio e la bravura di Visconti Venosta, che riuscì a tener ferme le posizioni italiane senza far scoprire i nostri veri intendimenti, scindendo le nostre esigenze di carattere difensivo in Europa dal legittimo perseguimento dei nostri interessi in Africa.

Emilio Visconti Venosta

La situazione aveva comunque toccato vette di tensione altissime, tanto da sfiorarsi il conflitto armato tra Francia e Germania, che avrebbe logicamente portato ad una guerra generalizzata tra le Potenze della Triplice Alleanza e quelle della neo costituita Entente cordiale (stipulata tra la Francia appunto e Inghilterra e Russia), tuttavia si riuscì in qualche modo a venirne a capo ed alla fine la Francia, al termine della Conferenza internazionale di Algeciras convocata nel 1906 per dirimere pacificamente la questione, vide sostanzialmente riconosciute le sue ragioni, grazie all'intervento diplomatico dell'Inghilterra in suo favore ed a scapito della Germania.
Tuttavia i problemi erano stati solo rinviati, non risolti, ed il tema delle colonie ormai era prioritario per ogni governante europeo.


La cannoniera tedesca Panther, principale protagonista della crisi di Agadir,  in una foto del 1901


La seconda crisi marocchina di Agadir (luglio 1911)

Fu così che si arrivò il 1° luglio 1911 alla seconda, gravissima emergenza marocchina, la crisi di Agadir, quando la cannoniera tedesca Panther forzò il porto marocchino di quella città rivendicando il diritto della Germania a prendersi il Marocco od a lasciarlo alla Francia ma in cambio del Congo francese (v. QUI): la turbolenza diplomatica che ne sarebbe seguita fece scoppiare il bubbone, facendo da definitivo detonatore anche dell'intervento italiano in Libia, anche se nel merito anche in questo caso l'intervento in aiuto della Francia condotto dall'Inghilterra sarebbe stato fondamentale, lasciando campo libero alla prima di agire come volesse contro il Marocco ed imponendo come rimborso alla Germanisolo la dazione a suo favore di alcune parti del Congo francese, così da arrivare al Trattato di Fez del 30 marzo 1912, che avrebbe sancito il protettorato francese anche sul Marocco.


Giovanni Giolitti
A quel punto non ci furono più dubbi da parte italiana: una volta che la Francia aveva ormai conseguito il suo obiettivo con la crisi di Agadir, e pertanto poteva anche avere interesse da quel momento in poi a non far più nulla che potesse venire incontro al nostro desiderio di espanderci in Africal'abile e calcolatore Giovanni Giolitti, il nostro capo del governo, normalmente del tutto alieno da avventurismi bellici, decise una volta per tutte l'intervento nei confronti dell'unico territorio che restava ancora disponibile per le ambizioni italiane in Africa, verso quella che era ormai diventata una vera ossessione: la Libia.

6. LA LIBIA OTTOMANA





Quell'immensa regione, pressoché disabitata, arida, secca e sabbiosa, di poco meno di 1.800.000 chilometri quadrati (quarta d'Africa e diciassettesima nel mondo per superficie), pur essendo situata a poche centinaia di miglia dalle coste siciliane era pressoché ancora sconosciuta, o almeno lo era il suo interno: si aveva solo una vaga idea, assai approssimativa, delle risorse naturali ivi presenti e di conseguenza dello stretto valore commerciale di quel territorio, né esistevano mappe geologiche realmente affidabili, in quanto ci si affidava per lo più alle corrispondenze ed ai ricordi di viaggio spesso molto fantasiosi e di sicuro poco documentati dei non molti viaggiatori europei che erano stati da quelle parti (se erano tornati per raccontarlo), tra cui si possono citare l'esploratore tedesco Friedrich Gerhard Rohlfs ed il geologo e paleontologo italiano Paolo Vinassa de Regny.

Paolo Vinassa de Regny
Quella misteriosissima, povera, desertica regione tuttavia aveva un padrone: in quel preciso momento storico costituiva amministrativamente un semplice e periferico 
vilayet (traducibile come provincia o, più propriamente, governatorato)  del'Impero Ottomano turco, quello di Tripolitania, retto da un governatore (Pascià) formalmente nominato da Costantinopoli.

Friedrich Gerhard Rohlfs
In realtà però si trattava di uno Stato di fatto da tempo indipendente, tanto da essere spesso identificato (come si vede nella cartina sotto) come Regno di Tripoli, anche perché dal 1711 al 1835 su di essa aveva sempre regnato un governatore della dinastia Karamanli.
All'interno della provincia di Tripolitania figurava formalmente anche un'altra circoscrizione, quella di Barqa, dal nome in arabo della cittadina storica di Barce, come la chiamavano anche gli italiani (ora El Merj, dopo la ricostruzione della città nuova poco distante a seguito del disastroso terremoto del 1963), fondata nel 560 a.C. dai greci sulla fertile costa nordorientale di quell'enorme territorio.
Si trattava della regione identificata da noi come Cirenaica, in quanto proprio in quel territorio era stata fondata nel 630 a.C. dai greci di stirpe dorica provenienti da Santorini la splendida città di Cirene, situata nei pressi dell'odierna cittadina di Shahat, una regione di fatto semiautonoma per l'autorità esercitata sulle genti del luogo sin dal 1843 dall'Emiro senusso, detto anche il Gran Senusso, il massimo esponente religioso (e di conseguenza anche civile) del comprensorio, espressione di una particolare confraternita sufi musulmana, la senussia appunto, da sempre in lotta spesso violenta col potere centrale turco per far prevalere la sua influenza rispetto a quella ottomana su quella terra.


Le rovine di Cirene
La Tripolitania a ovest e la Cirenaica a est, con le loro grandi propaggini che si estendevano in direzione sud fino all'interno, costituivano le due grandi regioni storiche della Libia, conosciute sin dall'antichità ed infatti colonizzate da greci, fenici, cartaginesi, romani, poi dai vandali e infine dagli arabi.
Oltre  ad esse, però, a completare l'assetto territoriale libico c'era più a meridione una terza regione, assai più misteriosa e pressoché sconosciuta, il deserto del Fezzan, che si spingeva da ovest a est nell'indeterminatezza di confini, lingue e stirpi, arabe, berbere e non solo, che rendevano del tutto anarchico, liquido e poroso il perimetro di quello sterminato  e pressoché vuoto territorio rispetto alle regioni circonvicine, tanto che i turchi per primi facevano fatica ad avventurarvisi.

L'Impero Ottomano in piena crisi

L'Impero Ottomano nel 1900, descritto in una cartina tedesca













Ormai lontano dai fasti di Grande Potenza, come era stato fino almeno a cent'anni prima, il vecchio Impero Ottomano, persa già la Grecia nel 1830, grazie al decisivo intervento delle flotte congiunte di Francia, Regno Unito e Russia in appoggio ai patrioti greci, vittoriose contro la flotta turca-egiziana nella battaglia navale di Navarino del 1827, ultimo scontro tra navi a vela della storia, era da tempo in totale crisi, almeno dalla sconfitta subita dalla Russia nella guerra del 1877-78, terminata con il trattato di pace di Santo Stefano del 3 marzo 1878, dal nome del villaggio turco di San Stefano (oggi Yesilkoy) nel quale fu stipulato.


Il congresso di Berlino (Anton von Werner, 1843-1915)




Questa aveva di fatto ridisegnato la mappa europeaperché il successivo Congresso internazionale di  Berlino del 1878 ne aveva ratificato gli esiti, riconoscendo la nascita ufficiale degli Stati indipendenti ex turchi di RomaniaSerbia e Montenegro, concedendo l'autonomia alla Bulgaria, nell'orbita russa, e dando la Bosnia-Erzegovina in amministrazione alla stessa Austria-Ungheria, pur nella formale sovranità ottomana.

La battaglia navale di Navarino (dipinto ad olio di Ambroise  Louis Garneray)












Abdul Hamid II, detto Il Sanguinario
Dal 27 aprile 1909 il 
movimento politico laico, nazionalista, modernizzante dei Giovani Turchi, nato sin dalla fine del XIX secolo ispirandosi alla mazziniana Giovane Italia, cui appartenevano 
molti ufficiali dell'esercito (tra cui il futuro fondatore della Turchia repubblicana modernaMustafà Kemal, che undici anni dopo si sarebbe visto riconoscere ufficialmente l'attributo di Ataturk, cioè "Il padre dei turchi"), aveva imposto con la forza il ritorno alla costituzione liberale del 1876 e destituito il vecchio e reazionario Sultano Abdul Hamid II, che sin dalla sua incoronazione il 7 settembre 1876 si era opposto violentemente al cambiamento accusando i Giovani Turchi di non essere capaci di fronteggiare gli ormai dilaganti irridentismi europei.
Al suo posto aveva chiamato sul trono imperiale il fratello, Mehmet V, ritenuto più conciliante ed aperto allo spirito nuovo.

Mehmet V
Quasi contemporaneamente però l'Impero veniva sconvolto dalle continue e sempre più gravi ribellioni delle popolazioni balcaniche, per lo più di religione cristiano-ortodossa, fomentate dalla solita Russia: se un anno prima l'Austria-Ungheria si era unilateralmente annessa la Bosnia-Erzegovina, che amministrava dal 1878 (creando un altro grave sommovimento in tutta Europa, perché vi aspirava la Serbia), in quello stesso 1909 anche la Grecia si era annessa pure la storica isola di Creta, mentre la Bulgaria, ultima in ordine di tempo, già di fatto autonoma sempre dal 1878, aveva proclamato ufficialmente la propria indipendenza come Stato, annettendosi anche la Rumelia orientale.
Mustafà Kemal (Ataturk) nel 1916
Ecco perché, nonostante la Sublime Porta avesse ormai intrecciato da tempo fecondi rapporti di amicizia con la Germania, tutti gli osservatori internazionali la vedevano come un'autentica vittima designata del rampante colonialismo italiano. 


Fanti italiani ed ascari eritrei in questa raffigurazione stampa
7. GLI SCHIERAMENTI PRO E CONTRO LA GUERRA DI LIBIA IN ITALIA 

Non c'era unanimità di vedute in Italia in merito all'opportunità, alla convenienza, finanche alla stessa capacità dell'Italia di conquistare la Libia. Bisogna però dire che gli schieramenti sin dall'inizio furono subito abbastanza chiari.

I favorevoli

A favore dell'intervento si erano compattamente schierati l'emergente borghesia industriale, vogliosa di crearsi nuovi mercati ed opportunità di commesse, a maggior ragione dopo la fine della guerra doganale con la Francia, appoggiata dalla grande stampa d'opinione, oltre sorprendentemente  (ma solo in apparenza) gran parte delle masse popolari, che vedevano nella Libia la possibilità di un futuro diverso e migliore, un qualcosa di assimiliabile al "far west" per gli U.S.A., un modo se non altro per sfuggire alla povertà non più necessariamente attraverso la via ormai sempre più praticata dell'emigrazione verso le Americhe e l'Australia. 
Erano poi ovviamente favorevoli nazionalistiliberali e persino la stessa Chiesa Cattolica: questa, ormai sopiti i furori susseguenti alla Breccia di Porta Pia, non vedeva l'ora di rientrare nei giochi politici italiani (senza contare l'empito missionario alla conversione di quelle lande ormai da secoli musulmane).

Giovanni Pascoli

Gabriele D'Annunzio
A tutti questi soggetti si aggiunse
  moltaeterogenea e spesso insospettabile parte del mondo intellettuale e culturale, dai futuristi 
Gabriele D'Annunzio, dal patriota e Premio Nobel per la Pace del 1907 Ernesto Teodoro Moneta fino al grande poeta Giovanni Pascoli ("La grande proletaria si è mossa", disse, riferendosi all'Italia). 

I contrari

Gaetano Salvemini
Contro 
si schierarono invece i sindacati dei lavoratori, impregnati di solidarismo pacifista rivoluzionario, con la Confederazione Generale del Lavoro (che proclamò il 27 settembre 1911 uno sciopero generale di 24 ore solo parzialmente riuscito guarda caso soprattutto in Romagna)  la maggior parte dei socialisti, dei radicali e dei repubblicani, soprattutto nella loro accezione più massimalista e anti-sistema, da Gaetano Salvemini (che giunse a definire la Libia "uno scatolone di sabbia") all'islamista  Leone Caetani, da  Amedeo Bordiga a Pietro Nenni e Benito Mussolini (entrambi arrestati e poi condannati a qualche mese di reclusione  il 14 ottobre del 1911 per i disordini provocati al termine di un infiammato comizio pacifista a Forlì). 

Benito Mussolini 
Vi furono però significative eccezioni da parte di parecchi dissidentialcuni molto famosi si dichiararono in modo paleseda Arturo Labriola Paolo Orano, da Angelo Oliviero Olivetti a Ricciotti Garibaldi, figlio del Generale, che giunse addirittura 
Ricciotti Garibaldi
a mettere insieme un centinaio di "camicie rosse" per uno sbarco da effettuarsi in Albania, ma molti altri, pur non esponendosi pubblicamente, lo fecero nel segreto dell'urna, quando alla Camera si trattò di votare non per l'intervento (avvenuto a camere chiuse -volutamente- per vacanze), bensì per il disegno di legge per l'annessione della Tripolitania e della Cirenaica, messo ai voti molti mesi più tardi, addirittura il 23 febbraio 1912!


8. L'ULTIMATUM ITALIANO ALLA TURCHIA

I preparativi italiani per la guerra, secondo piani già decisi da tempo, ebbero una significativa accelerazione, anche inconsueta per le nostre abitudini, su impulso diretto del nostro ministro degli Esteri, il siciliano Antonino Paternò Castello, Marchese di San Giuliano, che temeva che le turbolenze in corso nei Balcani, le diffidenze di Austria  e Germania contro l'Italia e la stessa situazione caotica interna della Turchia, con l'ascesa dei nazionalisti appartenenti ai Giovani Turchi, potessero alla fine mandare in fumo tutti i progetti italiani sulla Libia, nella quale peraltro da diversi anni era attivo il Banco di Roma, a Tripoli ed a Bengasi, principale finanziatore delle iniziative imprenditoriali italiane in loco messe a rischio dalla situazione internazionale (tanto che il direttore della filiale di Tripoli del Banco di Roma, Enrico Bresciani, era in effetti un informatore sotto copertura del nostro governo).
Antonino Paternò Castello
di San Giuliano
Avviatasi la mobilitazione delle nostre truppe sin dal 19 settembre, solo otto giorni dopo, il giorno 27 settembre, accampando come pretesto delle violenze subite dai cittadini italiani in Tripolitania e Cirenaica, l'incaricato d'affari italiano a Istanbul Giacomo De Martino consegnò alla Sublime Porta un ultimatum "compilato in modo da non aprire strade a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga discussione che dovevamo ad ogni costo evitare", così scrisse Giolitti nelle sue memorie, e con un termine di accettazione di sole 24 ore.
In esso si imponeva al governo ottomano di dare "gli ordini occorrenti affinché essa [l'occupazione militare di Tripolitania e Cirenaica] non incontri da parte dei rappresentanti ottomani alcuna opposizione", al fine di garantire l'incolumità della comunità italiana sul suolo libico.
Il Gran Visir turco era in quel momento impegnato in una partita a bridge in casa di una signora della buona società e quando gli fu presentato il documento, sorpresissimo, seppe solo mormorare: "Ma è uno scherzo, vero?"
Ma non lo era.
Ibrahim Hakki Pascià rifiutò in un primo momento di leggerlo, poi dopo averlo fatto esclamò semplicemente in francese "C'est donc la guerre!" ("Dunque è la guerra").
Ibrahim Hakki Pascià
Il governo turco cercò comunque di mercanteggiare, si impegnò a garantire gli interessi commerciali italiani in Libia, ma la sua risposta venne data ad ultimatum scaduto da ormai due ore e lapidariamente liquidata da Antonino Paternò come "un ingenuo artificio...per guadagnare tempo".
Ormai il dado era tratto.

In quei giorni Il Giornale d'Italia scrisse:

"La spada è stata tratta dal fodero. Ma non è una guerra che incomincia; è un rapido e immenso fatto d'armi con poche migliaia di turchi dei quali avremo ragione in pochi giorni, e con poche perdite (...) I nostri soldati non vanno a morire; vanno a compiere una passeggiata trionfale, una conquista senza sangue, in una terra nella quale noi ritorniamo dopo diciassette secoli, e dove gli arabi ci attendono come liberatori".

Ecco, "gli arabi ci attendono come liberatori", questo si pensava in Italia allora.
Una passeggiata di salute tra ali di folle plaudenti, si pensava anche questo in Italia allora...








9. LA GUERRA COMINCIA


Cartolina illustrata dell'epoca
Lo scontro nelle acque di Prevesa

Il 29 settembre 1911 alle 14,30 venne consegnata alla Turchia la dichiarazione di guerra e quasi allo stesso momento dalle navi italiane al largo dell'Adriatico, impegnate nel blocco totale dei porti albanesi, venivano sparate le prime cannonate contro le coste in mano ai Turchi, mentre nelle acque di Prevesa due torpediniere, la Tokad e la Antalya, ed il giorno dopo il caccia turco Tajar nella stessa area ma davanti ad Igoumenitza venivano inseguiti e messi fuori combattimento dai cacciatorpediniere italiani Artigliere e Corazziere appartenenti alla squadra siluranti al comando del Contrammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta: nel corso della stessa azione veniva catturato il panfilo armato Tarabulus (ex inglese Thetis, poi riutilizzato dagli Italiani col nome di Capitano Verri, in onore di un eroico ufficiale caduto nelle prime fasi della guerra, come vedremo) ed un trasporto.

L'Artigliere in una foto ufficiale del 1907
Le 62 unità leggere, tra caccia e torpediniere, che con gli incrociatori Vittor Pisani e Lombardia e 9 sommergibili formavano la squadra al comando del nobile di Casa Savoia, noto ai più per essere stato anche intrepido e fortunatissimo esploratore, sarebbero state tra le più impegnate e vittoriose in quel conflitto, come vedremo, e non meno importante sarebbe stato il contributo dato dagli incrociatori ausiliari, unità nate per scopi civili (in genere navi passeggeri o mercantili) e militarizzate, con l'aggiunta di alcuni pezzi di medio calibro ed armamenti di altro tipo, per compiti di scorta armata ai convogli (Bosnia, Città di Cagliari, Città di Messina, Città di Palermo, Città di Catania, Città di Siracusa, Duca degli Abruzzi, Duca di Genova), oltre che dalla nave ospedale Regina Margherita del Corpo Militare dello S.M.O.M. (Sovrano Militare Ordine di Malta).


La prima volta dell'aereo in guerra (qui è inquadrato un Bleriot XI biposto)






La guerra di Libia anticipa le guerre future


Luigi Amedeo di Savoia-Aosta
Duca degli Abruzzi
Quello con l'Impero Ottomano sarebbe stato un confronto armato aspro, sanguinoso e con diversi lati oscuri, da una parte e dall'altra, sul rispetto delle più elementari norme internazionali di guerra, ma col senno di poi molto profetico su come sarebbe diventata la guerra del futuro: molto mobile (con la prima volta in battaglia delle automobili, FIAT Tipo 2, delle motociclette, marca SIAMT, e persino delle autoblindo, le FIAT Arsenale e qualche Bianchi), con l'uso delle mitragliatrici, degli aerei, della tecnologia, delle trasmissioni, con l'utilizzo di armi nuove di propaganda come le fotografie, le riprese cinematografiche e persino le canzoni patriottiche, tra cui la famosissima "Tripoli bel suol d'amore", interpretata dalla notissima (per l'epoca) cantante Gea della Garisenda, avvolta dal solo tricolore sabaudo.





"Naviga, o corazzata, benigno è il vento e dolce la stagion,
Tripoli, terra incantata, sarà italiana al rombo del cannon.
Sai dove si annida più florido il suol?
Sai dove sorrida più magico il sol?
Sul mare che ci lega coll'Africa d'or,
la stella d'Italia ci addita un tesor.
Tripoli, bel suol d'amore!"


Una moto SIAMT simile a quelle usate in Libia
Persino le divise adottate dall'esercito italiano sarebbero state molto diverse dalle solite uniformi sgargianti e colorate in voga fino a poco tempo prima, in quanto oltre al classico elmetto coloniale Mod. 1911 sarebbe apparso per la prima volta il grigioverde, colore standard delle divise dell'esercito italiano da quel momento in poi, in un'apposita versione adatta al clima desertico.


Un'autoblindo FIAT Arsenale, basata sull'autocarro FIAT 15 bis



Una FIAT Tipo 2











L'imponente schieramento italiano 

Da parte italiana era stato messo in piedi un imponente ed agguerrito corpo di spedizione, il Corpo d'Armata Speciale, affidato dopo un ballottaggio con il sessantunenne Tenente Generale Luigi Cadorna, comandante del corpo d'armata di Genova (inizialmente favorito per l'ottenimento di quest'incarico), al comando del sessantaseienne Maggior Generale Carlo Caneva, con capo di stato maggiore il pari grado Annibale Gastaldello

Il Maggior Generale Carlo Caneva

Carlo Caneva

Udinese, il giovane Carlo Caneva era stato ufficiale di carriera nell'esercito austro-ungarico e da sottotenente di artiglieria aveva già vissuto un'esperienza bellica di alto profilo, avendo partecipato a quella gigantesca battaglia di Sadowa in cui  i9 luglio 1866 l'armata asburgica del Nord in cui militava, guidata dal generale ungherese Ludwig (Lajos) von Benedekera stata sconfitta da quella prussiana di Helmut von Moltke: a seguito della sconfitta austriaca il Veneto era così passato all'Italia alleata della Prussia e un anno dopo, nel 1867, il ventiduenne Caneva era entrato nel Regio Esercito italiano.

Luigi Cadorna

All'epoca in assoluto il più vecchio generale in attività d'Europa, Caneva era stato probabilmente preferito proprio per la sua maggiore esperienza operativa a Cadorna, che nella sua carriera pur prestigiosa aveva avuto pochissimi incarichi realmente di campo e molti all'interno degli stati maggiori, e per di più col suo carattere durissimo tutto disciplina e regolamenti, inflessibile coi subordinati e antipaticamente puntiglioso con i parigrado o superiori si era creato non pochi nemici a Roma, in primis proprio il Re e Giolitti.
I piani strategici italiani, apprestati da molto tempo e continuamente aggiornati e limati col variare delle situazioni e dei momenti storici negli ultimi trent'anni almeno, prevedevano uno sbarco praticamente contemporaneo in forze su Tripoli, capitale della Tripolitania e città più importante dell'intera provincia turca, e su Tobruk, cinquecento chilometri più a est in Cirenaica, il porto più importante del paese, in posizione assai strategica perché posto praticamente al centro dei traffici tra Libia, Egitto e Medio Oriente.










Il  Corpo d'Armata Speciale

La 1° divisione di linea al comando del Maggiore Generale Guglielmo Pecori Giraldi 
Guglielmo Pecori Giraldi
Augusto Aubry
aveva il compito di prendere il primo obiettivo, Tripoli, e per far questo avrebbe avuto a sua completa disposizione la 2° squadra navale guidata dal Viceammiraglio Luigi Faravelli (formata dalla 1° divisione navale con le corazzate Benedetto Brin, Ammiraglio di Saint Bon, Emanuele Filiberto, al comando dello stesso Faravelli, dalla 2° divisione con gli incrociatori Giuseppe Garibaldi, Francesco Ferruccio, Marco Polo e Varese, nonché gli esploratori Coatit e Minerva, tutti al comando del Contrammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel, nonché per l'occasione dalla divisione navi scuola, con le corazzate Re Umberto e Sardegna e l'incrociatore Carlo Alberto, al comando del Contrammiraglio Raffaele Borea Ricci D'Olmo). 

La corazzata Vittorio Emanuele III nel Golfo di La Spezia nel 1910
Alla 2° divisione di linea guidata dal Maggiore Generale Ottavio Briccola, invece, toccava l'onore e l'onere di conquistare Tobruk, col supporto della 1° squadra navale al comando del Viceammiraglio Augusto Aubry (1° divisione, con le corazzate Vittorio Emanuele III, Regina Elena, Napoli, Roma, al comando dello stesso Aubry, e 2° divisione, con gli incrociatori Pisa, Amalfi, San Marco e gli esploratori Agordat e Partenope, al comando del Contrammiraglio Ernesto Presbitero).



Le operazioni in Libia nel conflitto del 1911-12 in una cartina tedesca





Luigi Faravelli
Proprio ad Aubry, che peraltro sarebbe improvvisamente scomparso  il 4 marzo 1912 a Taranto, ove la flotta all'epoca aveva trasferito la sua base operativa in Italia, sostituito prima da Faravelli e poi, avendo questi rinunciato per motivi di salute, dal Viceammiraglio Leone Viale, era affidato il comando generale dell'intera flotta italiana nel Mediterraneo (poi ridefinita Forze navali riunite), sin dal 23 settembre radunatasi in forze nella rada di Augusta ma con diverse sue unità già all'agguato dal 29 settembre al largo di Tripoli.


Ottavio Briccola
Le due divisioni di Pecori Giraldi e di Briccola, entrambe strutturate su due brigate ognuna su due reggimenti di fanteria rinforzati con una sezione mitragliatrici, oltre che su due squadroni di formazione di cavalleria, un reggimento di artiglieria da campagna (su 4 batterie con pezzi da 75 A, cioè 75/27 mod. 1906), una compagnia del genio zappatori più i relativi servizi divisionali, erano supportate da altre truppe poste direttamente a disposizione del comando d'armata, quasi tutte di formazione, cioè distaccate da più reparti diversi: 
- due reggimenti di bersaglieri (8° e 11°), ognuno dei quali rinforzato con una sezione someggiata di mitragliatrici pesanti Maxim;
il 3° reggimento di artiglieria da montagna (4 batterie su pezzi da 70 A, cioè 70/15);
- un gruppo di artiglieria da fortezza (due compagnie munite di pezzi da 149 G, 149/23);
- un battaglione di zappatori su due compagnie;
- la 1° flottiglia aeroplani al comando del quarantenne 
Carlo Maria Piazza
capitano di artiglieria Carlo Maria Piazza, brevettato il 30 giugno 1911, di Busto Arsizio, appartenente alla neonata Sezione Aviazione del Regio Esercito (11 piloti e 30 uomini di truppa per 9 aeroplani: 2 Bleriot XI, 3 Nieuport, 2 Farman e 2 Etrich Taube, tutti muniti di un motore a 50 cavalli), con il supporto di un battaglione di specialisti del genio, una sezione aerostati con 6 palloni frenati tipo Drakened infine una compagnia telegrafisti con 4 stazioni radio.

Un pallone frenato tipo Draken

In totale si trattava di ben 34.000 uomini, da trasportare in Libia dall'Italia in circa 3 settimane.

In attesa, a Napoli, era però già pronta per partire la seconda ondata d'invasione, formata dalla 3° divisione speciale di linea al comando del Tenente Generale Felice De Chaurand de Saint Eustache, noto per essere stato il primo vero fondatore dei servizi segreti militari italiani.

Felice De Chaurand
de Saint Eustache

Questa
 rispetto alle altre due era se possibile ancora più forte: infatti, pur essendo di base formata allo stesso loro modo, su due brigate  di fanteria ognuna su due reggimenti, disponeva di 8 squadroni di cavalleggeri invece di 2, di 6 battaglioni alpini, di 6 batterie di artiglieria da campagna invece di 4 (montate anch'esse su pezzi da 75 A), di ben 11 batterie di artiglieria campale,  di 8 di artiglieria da montagna (invece delle 4 indivisionate della prima ondata), 7 compagnie di artiglieria costiera (costituite da 5 batterie da 149, una di bombarde da 149 ed una di mortai da 210), 5 compagnie zappatori e 4 minatori, oltre ai servizi, ad una sezione di palloni aerostatici, sei ospedali da campo (due da 50 posti e 4 da 100) con due ambulanze da montagna e persino una sezione di forni da mattoni ed altri materiale da costruzione.

Il Giornale d'Italia del 10 ottobre 1911



Pietro Frugoni
Lo scopo di questa seconda ondata era quello di consolidare le posizioni acquisite sul campo di battaglia dalle truppe della prima ondata a partire dai primi sbarchi, per poi progressivamente ampliare le conquiste ottenute fino ad un rapido e completo dominio sulla Libia intera.
Truppe mehariste
Spahis libici

L'insieme delle truppe di formazione della seconda ondata era praticamente pari o addirittura superiore nel numero a quello della prima, tanto che si decise successivamente di istituire uno specifico corpo d'armata per la difesa di Tripoli, posto al comando del Tenente Generale Pietro Frugoniper cui si può agevolmente calcolare che, sommando a tutti questi uomini gli equipaggi di tutte le navi impegnate nel corso della guerra, i marinamessi a disposizione per gli sbarchi e persino (a partire dai primi di febbraio del 1912) i battaglioni di Ascari eritrei e di Savari libici (spahis a cavallo e meharisti sui dromedaril'Italia giunse a mobilitare ed a inviare sul fronte africano in poco più di un anno circa 103.000 uomini, e con le rotazioni nel frattempo attuate si arrivò ad utilizzarne almeno 200.000 ed a mettere in campo addirittura in breve tempo anche una 4°, una 5° e persino una 6° divisione speciale!!!

La modestia delle difese turche

In confronto ad un simile sforzo organizzativo, logistico e muscolare il paragone con le capacità difensive delle truppe turche poste a presidio dell'allora provincia libica era francamente impietoso.

Ismail Enver Pascià

Il Generale Ismail Enver Pascià, comandante in campo delle forze turche in Libia ed importantissimo esponente dei Giovani Turchi, aveva a disposizione solo la sua 42° divisione autonomafondata essenzialmente su quattro reggimenti di fanteria (124°, 125°, 126° e 127°): tre di essi erano situati in Tripolitania, con un reggimento di cavalleria su 4 squadroni, un battaglione di cacciatori (nichandji) ed un battaglione di artiglieria da fortezza, mentre uno solo presidiava la Cirenaica, con un altro squadrone di cavalleria,  2 batterie di artiglieria da campagna, una batteria di artiglieria da montagna e 2 compagnie da fortezza.


Artiglieria turca





Nel complesso si trattava di non più di 4-5000 uomini, cui si potevano aggiungere circa 2000 effettivi della gendarmeria tra l'una e l'altra regione libica, comunque troppo pochi per coprire adeguatamente territori co vasti, per quanto valorosi e combattivi fossero tradizionalmente i soldati turchi.


Non meno difficile era per i Turchi la situazione sul piano navale.
Se l'Italia aveva dedicato allo sforzo bellico il meglio della sua flotta, la più potente del Mediterraneo dopo l'onnipresente flotta britannica, l'Impero vedeva le sue navi  per lo più antiquate praticamente bloccate impotenti nei suoi porti.
La squadra più forte era basata a Beirut ed era formata da due corazzate, la Barbaros Haireddin e la Targut Reis, due incrociatori protetti, Mecidiyie e Hamidiyie, sette caccia (Jadighiari Milet, Nemamiehamet, Morenivetmiliè, Samsum, Jarhissar, Thaxos, Bassora) la nave appoggio Teirimughian, la cannoniera corazzata Avnillah e unità minori.

ll suo fiore all'occhiello erano le due moderne corazzate, entrambe di costruzione tedesca, della classe Brandenburg, ed i cacciatorpediniere, anch'essi di costruzione germanica, tutti moderni ed assai veloci per l'epoca.
Tuttavia sin dalle primissime fasi della guerra tutte queste unità, tranne l'Avnillah e le due unità più piccole (e mal gliene sarebbe incolso, come vedremo), si trasferirono in massa attraverso i Dardanelli verso il Mar di Marmara, per sfuggire alla ben più potente flotta italiana che presidiava già in forze il Mar Egeo e trovare sicuro rifugio nella base di Costantinopoli, dove erano alla fonda altre due corazzate e 12 torpediniere.

Corazzata Barbaros Haireddin (ex Friedrich Wilhelm)

Corazzata Weissenburg (poi Turgut Reis)



In Albania erano poi basati tra Durazzo e Valona due incrociatori, 4 torpediniere e due cannoniere fluviali, mentre nel Mar Rosso, di fronte alla nostra flottiglia basata a Massaua, in Eritrea, al comando del capitano di vascello Giovanni Cerrina Feroni
Giovanni Cerrina Ferroni

si contrapponevano un cacciatorpediniere, 9 cannoniere, uno yacht armato e 6 sambuchi armati, piccole imbarcazioni a vela tipiche di quelle zone.
Peraltro, sin dai primissimi giorni di guerra, la flottiglia italiana, impegnata in un rigorosissimo blocco navale, dopo aver fermato una dozzina di sambuchi civili e ben tre mercantili battenti bandiera britannica con i loro carichi di armi (soprattutto fucili Mauser con le relative munizioni), avrebbe affondato di fronte alle coste arabe altri undici sambuchi, forse impiegati per sbarcare truppe turche in Eritrea a scopo diversivo, con le due cannoniere di scorta, di fatto azzerando anche lì le possibilità offensive della marina turca.
Come si può vedere, anche sotto questo profilo non c'era partita.

I turchi sono consci della loro inferiorità 

I governanti turchi, ovviamente, erano perfettamente consapevoli che con tale modestia di forze gli era impossibile vincere la guerra, per quanto cercassero fino all'ultimo di rifornire alla bell'e meglio quelle loro modeste guarnigionianche da prima dell'inizio delle ostilità.
Le disposizioni date dagli Alti Comandi erano pertanto semplicemente quelle di cercare di rallentare al massimo gli sbarchi degli italiani per poi ritirarsi all'interno delle oasi nei pressi delle città e da qui riorganizzarsi per bene, chiamando alla lotta contro l'invasore in nome della comune religione le orgogliose tribù arabe localial fine di sfruttare appieno le loro indubbie qualità di mobilità, resistenza, conoscenza del territorio per tenere gli italiani sulle spine con improvvisi attacchi di sorpresa, anche in grande stile, ma nelle condizioni di tempo e di spazio assai più favorevoli, nel segno della più classica guerriglia: se mancavano sul posto le truppe nazionali sarebbero state quelle indigene a sostituirle insomma...
Tutto ciò però ragionevolmente solo allo scopo di allungare il più possibile i tempi delle operazioni italiane, così da favorire il lavorìo diplomatico delle Grandi Potenze europee, che vedevano questo conflitto come il fumo negli occhi per le gravi conseguenze che esso poteva avere sugli instabili equilibri continentali del tempo, ed arrivare ad un cessate il fuoco con la situazione ancora in bilico e quindi nient'affatto compromessa per la Sublime Porta.

I ribelli libici

Di per sé avevano ragione i nostri pianificatori degli Alti Comandi a ritenere che in teoria non ci sarebbe voluto molto per ridurre al silenzio le raffazzonatepoco numerose demotivate truppe turche, lontane da casa e pressoché isolate dalla Madre Patria grazie allo stretto controllo attuato dalle nostre navi sul Mediterraneo Orientale che impediva l'afflusso dei rifornimenti sino alla lontana Africa, tanto che, per dirne solo una, si sarebbe sfiorato lo scontro diplomatico (e qualcosa di più) con la Francia per il fermo in mare ed il conseguente sequestro temporaneo in Sardegna di due bastimenti battenti bandiera francese: l'Agordat il 16 gennaio 1912 aveva intercettato a 30 miglia da Capo Spartivento e scortato a Cagliari il transatlantico Charthage, impiegato in un servizio di linea tra Marsiglia e Tunisi, scoperto a trasportare un aereo, mentre il successivo 18 gennaio era stata una torpediniera a bloccare al largo dell'isola di San Pietro di Sardegna e scortare fino a Cagliari il piroscafo Manouba, con a bordo 29 uomini di nazionalità turca, che dicevano di essere medici ed infermieri.
Di fronte alle proteste ed alle richieste di scuse di gran parte dell'opinione pubblica ed alle interpellanze rivoltegli in parlamento 
Raymond Poincarè
il presidente del consiglio e ministro degli esteri francese Raymond Poincarè, assicurando che l'aereo non era destinato ai turchi e che i 29 passeggeri erano stati riconsegnati al console francese a Cagliari con l'impegno a rimandarli ai luoghi d'imbarco, avrebbe detto la famosa frase: 

"Une muage qui passe n'assombrira pas l'horizon!" 
("Una nuvola passeggera non oscurerà l'orizzonte").

I due fattori imprevisti che sorpresero i nostri Alti Comandi

Nonostante il ferreo blocco della Regia Marina, tuttavia, due fattori avrebbero concorso a complicare le cose ed a far ricredere subito le nostre autorità politiche e militari sull'effettiva rapidità e facilità delle operazioni sul campo: 

- da un lato, sotto l'aspetto squisitamente militare, come detto sopra, la scelta dei generali turchi di non opporsi frontalmente alle nostre truppe, incomparabilmente superiori sotto ogni profilo, preferendo una tattica attendista ed apparentemente rinunciataria finalizzata solo a tirare in lungo le cose, per vincere semmai al tavolo della pace

- dall'altro, però, a far sballare tutte le previsioni sulla facile vittoria italiana sarebbe stato il sorprendente atteggiamento di collaborazione instauratosi tra i turchi e le popolazioni libiche soprattutto dell'interno della Cirenaica, che pure fino a solo pochi anni prima combattevano strenuamente  per l'indipendenza della loro terra contro la Sublime Porta, unite come detto dal grande collante religioso della Senussiauna confraternita intertribale che dava una particolare interpretazione sufi dell'Islam e trovava nelle oasi di Cufra e soprattutto di Giarabub  i suoi due principali santuari fortificati (marabutti), peraltro formalmente appartenenti alla sovranità dell'Egitto e quindi intangibili dalle nostre truppe.

Contro le previsioni dei nostri Alti Comandi infatti le tribù dell'interno si sarebbero schierate senza indugi quasi al completo con la Sublime Porta, sia per l'insipiente superficialità non priva di una certa vena razzista (certo figlia dei tempi) con cui gli stessi affrontarono la questione dei rapporti con gli indigeni, passati alla fine almeno nelle zone meno urbanizzate da una possibile o accertata benevola neutralità ad una profonda avversione, sia per motivi di comunanza religiosa dei libici coi turchi ma soprattutto in seguito a certi comportamenti disumani delle nostre truppe d'invasione, anche se dovuti al desiderio di vendicare le efferatezze compiute a sua volta dal nemico.


Reparti armati tribali (mehalle) senussi sfilano davanti agli ufficiali turchi



Le principali tribù libiche cominciarono così a fornire in appoggio alle truppe regolari ottomane molte migliaia di armati, in parte organizzati dal colonnello Nesciat Bey, favorito anche dalla sua perfetta conoscenza della lingua araba, in apposite unità organiche su base tribalele mehalle, poste al comando di ufficiali turchi, ed in parte  riuniti in bande indigene autonome, anch'esse di varia consistenza, dalle poche decine fino alle migliaia di uomini, guidate da capi carismatici e di riconosciuto valore, alleati ai turchi sì ma su un piano più autonomo rispetto alle altre.

Suleiman al Barouni
Cominciarono così a divenire famosi personaggi i cui nomi sarebbero divenuti estremamente familiari agli italiani anche ben oltre la fine del conflitto con la Turchia: nomi come quello di Chalifa ben Ascaro di Madhi es Sunni, o di Mohammed Ben Abdallah, temutissimo sceicco dello sconosciutissimo Fezzan, o come quello di Suleiman Pascià al Barouni, signore di Jeffrenun berbero della regione montuosa del Gebel Nefusauna strana figura di teologo islamico, romanziere (considerato in Libia come un autore classico) e politico (era stato un senatore nel parlamento turco), già Valì (governatore)  di Tripolitania, che dopo aver combattuto gli italiani collaborando strettamente con Ismail Enver Pascià durante la prima guerra mondiale insieme con un altro autorevole capo libico, Mohamed Fekinisi sarebbe autoproclamato addirittura 
Mohamed Fekini
presidente dell'effimera Repubblica di Tripoli, nata (e pressoché morta) nel 1919 al fine di riunire sotto un'unica bandiera tutti i libici in nome del rifiuto sia dell'autorità ottomana che dei nuovi oppressori italiani.

Omar Al Mukhtar
Il più famoso di tutti, però, sarebbe stato Omar Al Mukhtar, un insegnante coranico, leader religioso prima ancora che militare, essendo di fatto la mente militare del capo della setta musulmana dei Senussiti, come detto maggioritaria in Cirenaica e le cui bande erano stanziate al sicuro delle sopra citate oasi di Cufra e Giarabub, in pieno deserto, altamente presidiate e pressoché inespugnabili.

L'indomabile guerriero cirenaico nel corso di circa un ventennio di guerra, prima a fianco dei turchi e poi assolutamente da solo, si sarebbe rivelato un'autentica spina nel fianco degli italiani, tenendoli sotto scacco a lungo col risultato di divenire famosissimo in tutta Europa, costringendoli ad un grosso sforzo militare, logistico ed economico per riuscire alfine a batterlo, nonostante l'esiguità delle forze a sua disposizione, che probabilmente mai riuscirono a superare i 3.000 uomini  e verso la fine, come riconosciuto dallo stesso Pietro Badoglio, difficilmente arrivarono a 600. 

10. LA PRESA DI TRIPOLI





Sin dal momento della dichiarazione di guerra al largo di Tripoli stazionavano già alcune grosse unità della squadra di Faravelli, quelle al comando di Thaon De Revel, partite da Augusta, che il 2 ottobre di prima mattina si presentarono puntualmente di fronte al porto libico, a circa dieci chilometri dalla costa, intimando la resa.
Ormai da qualche giorno l'intera comunità italiana presente in città era stata evacuata, anche per l'arrivo in porto del piroscafo Derna proveniente da Salonicco con un carico di ventimila fucili Mauser di produzione tedesca con due milioni di proiettili, sfuggito miracolosamente alle numerose navi italiane dopo essersi finto il mercantile tedesco Hamitaz: queste infatti, a conoscenza della sua esistenza, gli stavano dando implacabilmente la caccia su input diretto del governo (ma senza poterlo impunemente affondare a cannonate, visto che in quel momento non c'era alcuna guerra in corso).
La nave, semiaffondata in rada dagli stessi marinai turchi una volta sbarcato il carico, sarebbe stata successivamente recuperata a ottobre inoltrato dagli Italiani e immessa nel  naviglio dello Stato come nave ausiliaria di seconda classe, col nome di Bengasi, ed usata per il trasporto truppe.
(Sulla vicenda del Derna-Hamitaz v. QUI).



La situazione in quel momento era assai critica. 
Da parte del governo, ed in particolar modo dal ministro degli esteri Paternò Castello, si insisteva infatti in maniera quasi parossistica, tempestando il comandante della 2° squadra di telegrammi in tal senso, affinché si procedesse sin da subito al bombardamento navale della città, per la fretta di concludere le operazioni prima che dagli altri Stati europei potesse venire imposto un altolà nelle tre settimane ritenute necessarie per lo spiegamento completo dell'intero corpo di spedizione.
Ma il prudente Faravelli tentennava, sapendo bene che in quel momento le truppe imbarcate sulle sue navi erano troppo poche per poter tenere con sicurezza la città e che in zona erano presenti molti europei e si doveva evitare sia che uno o più colpi delle nostre navi potessero inavvertitamente andare a bersagliare i loro quartieri, sia che da parte della popolazione locale potesse verificarsi qualche episodio di violenza nei loro confronti, ritenendoli accomunati agli Italiani per la stessa provenienza geografica e la medesima religione cristiana professata, con le conseguenze che si potevano immaginare: il console tedesco Adrian Tilger, tuttavia, dagli europei stessi nominato portavoce, rifiutò la proposta dell'ammiraglio di un imbarco sulle nostre navi, dichiarando di sentirsi al sicuro sotto la garanzia delle autorità turche.

Il bombardamento navale su Tripoli





Fu così che, respinto dal comandante della locale guarnigione di 2000 uomini, il colonnello Nesciat Bey, l'ultimatum di Thaon De Revel, quest'ultimo ordinò solo dopo un giorno e mezzo, alle 15,30 del 3 ottobre, di aprire il fuoco da 9500 metri sui due forti di Sultanieh, a ovest del porto, sottoposto alle salve del Garibaldi e del Ferruccio, e di Hamidieh, a est, su cui spararono Re Umberto, Sardegna e Sicilia, oltre che sulle stesse installazioni militari di Faro e Molo e su quelle di Gargaresh, nelle vicinanze della città, su cui infierirono i colpi della Brin.


Cannoni turchi da 90 mm nelle fortificazioni del porto di Tripoli

L'azione proseguì sino al tramonto e poi riprese alle prime luci del mattino del giorno dopo.
Visto che i grossi calibri da 343 delle corazzate Sicilia e Sardegna, da 305 della Brin e della Re Umberto e da 203 degli incrociatori Garibaldi e Ferruccio, senza peraltro aver colpito alcuna struttura civile, avevano pressoché spianato al suolo tutte le fortificazioni avversarie e che solo da Sultanieh ancora proveniva qualche isolata risposta, ben presto messa a tacere anch'essa, il 5 ottobre venne ordinato a un battaglione di marinai guidato dal capitano di vascello Umberto Cagni, con circa 400 uomini, di sbarcare nell'area portuale.


Tripoli subito dopo lo sbarco degli Italiani, il 5 ottobre 1911



Sempre il console tedesco infatti aveva fatto sapere a una nostra pattuglia sbarcata in incognito ben prima dell'inizio delle ostilità, guidata dal brillantissimo capitano Pietro Verri,  un ufficiale dello stato maggiore specializzato in certe missioni "speciali", che i soldati turchi erano andati tutti via portandosi con sé i morti, i feriti e le armi con le relative munizioni, e si rendeva quindi necessaria l'occupazione italiana per evitare atti di saccheggio, anche su richiesta dei notabili locali. 

Lo sbarco dei marinai al comando di Umberto Cagni

Umberto Cagni

Il capitano Cagni, constatato che Nesciat Bey aveva nottetempo in effetti fatto ritirare le sue truppe (come da tempo stabilito) sull'oasi di Al Azizia Suarei Ben Adem, a dieci chilometri dalla città, comunicò a Thaon di Revel di dare l'ordine di sbarco generale, occupandosi nel frattempo di organizzare con i suoi pochi uomini una cintura di sicurezza attorno al porto.
Sbarcarono così in due tempi successivi due reggimenti di marinai, ordinati su tre battaglioni: uno tratto dalla divisione delle navi scuola (corazzate Sardegna, Sicilia e Re Umberto), comandato dal capitano di fregata Mario Grassi della Sardegna, con una sezione di artiglieria, che alle 7,30 andò ad occupare Fort Sultanieh; l'altro tratto dalla 1° e dalla 2° divisione (Benedetto Brin, Emanuele Filiberto, Saint Bon, Garibaldi e Ferruccio), con altri quattro pezzi di artiglieria, comandato dal capitano di fregata Enrico Bonelli, imbarcato sulla Re Umberto, che andò  a completare alle 16,30 la demolizione di Fort Hamidieh, sull'altro lato della rada, già predisposta di prima mattina da un modesto distaccamento di guastatori, ed a presidiare gli altri punti sensibili della città.

Alle 17,00 la bandiera italiana sventolava orgogliosamente sul Konak, il palazzo del governatore.





Il rassicurante proclama dell'Ammiraglio Faravelli

Il giorno seguente, per sciogliere l'atmosfera colma di curiosa e trepidante attesa degli eventi da parte della impaurita popolazione locale,   l'ammiraglio Faravelli diffondeva il seguente proclama: 

"A nome di S. M. il Re d' Italia vi assicuriamo non solo il rispetto alla più completa libertà vostra, alla vostra religione, ma anche il rispetto di tutti i vostri beni, delle vostre donne, dei vostri costumi. Vi annunciamo che sarà abolita la coscrizione, vi saranno elargiti i possibili miglioramenti economici e che vi consideriamo fin d'ora strettamente legati all'Italia"




Raffaele Borea Ricci D'Olmo

I primi passi fatti dal neo governatore provvisorio della Tripolitania, il viceammiraglio Borea Ricci D'Olmo, nominato il 7 ottobre 1912, furono nello stesso segno rassicurante: dopo aver ricevuto al konak per rassicurarli sulle intenzioni italiane tutti i notabili della città guidati dal sindaco, insieme con il capo degli ulema, le comunità greca ed ebraica e tutto il corpo consolare, si premurò di mantenere in carica lo stesso sindaco anche se era stato nominato dalle autorità turche, attribuendogli pure il titolo puramente onorifico di vicegovernatore, e per la tenuta dell'ordine pubblico, oltre ai carabinieri, chiamò a collaborare anche i pochi zaptiè turchi rimasti 
Un carabiniere italiano  ed uno zaptiè arabo pattugliano
le strade di Tripoli
(un nome, zaptiè, che presto sarebbe entrato anche nella lingua italiana, per identificare le truppe italiane coloniali di colore corrispondenti ai carabinieri nazionali). 


L'arrivo a Tripoli del nuovo governatore provvisorio della Tripolitania



Il bluff riuscito di Cagni

La testa di ponte si era ormai ufficialmente insediata, ma il capitano Cagni, nominato capo militare dell'intero presidio, aveva però a disposizione solo 1732 uomini.
In quei momenti confusi la sua preoccupazione maggiore era quella di dover aspettare almeno sette giorni per l'arrivo dei rinforzi promessi da Faravelli, ancora fermi ai porti di partenza di Napoli e Palermo, col concreto pericolo che un eventuale contrattacco turco potesse rovesciare la situazione: da qui la sua decisione geniale di far effettuare alle sue truppe una serie di spostamenti diversivi da un punto all'altro della città (cui fece corrispondere dei movimenti analoghi da parte di alcune nostre navi in rada), tali da ingenerare nel nemico la convinzione che i soldati sbarcati fossero molto di più. 
Il bluff riuscì in pieno, tanto che nei confronti dei nostri avamposti si registrarono in quei giorni di transizione per lo più solo poche fucilate provenienti dalle oasi circostanti, dove si erano acquartierati i regolari turchi, col supporto di alcuni reparti irregolari indigeni per lo più a cavallo, autori a loro volta di qualche scorribanda senza conseguenze, e solo nella notte tra l'8 ed il 9 ottobre ci fu un contrattacco serio, effettuato a sud di Tripoli nell'oasi di Bu Meliana, ove era presente una preziosissima sorgente che riforniva Tripoli d'acquadue buluc (plotoni) di fanteria ed uno di cavalleria, per un totale di circa 300 uomini, con l'appoggio di un cannone, attaccarono i circa 200 marinai appiedati posti a presidio dei pozzi, ma la veemente reazione di questi ultimi, con l'appoggio anche delle artiglierie navali, portò dopo un'ora di combattimento alla loro ritirata, con la cattura pure delle armi, delle munizioni e del cannone.

Lo sbarco delle truppe a Tripoli (1911)


Ormai però i rinforzi erano in arrivo. 
Proprio la mattina dell'11 arrivavano in porto i piroscafi America e Verona, scortati dall'incrociatore Varese, le unità più veloci della nostra flotta, con l'84° reggimento fanteria Venezia, due battaglioni del 40° Bologna ed uno dell'11° bersaglieri, 4800 uomini in totale, e il giorno dopo si aggiungeva il resto del nostro contingente, col generale Caneva che assumeva ufficialmente la carica di governatore della Tripolitania sostituendo l'ammiraglio Borea Ricci.



Di fronte all'Ammiraglio Faravelli  il passaggio di consegne tra il capitano di vascello Umberto Cagni ed il Regio Esercito 

Pochi giorni dopo i due reggimenti di marinai al comando di Umberto Cagni, che il Re avrebbe successivamente premiato con titolo di Conte di Bu Meliana, passavano la responsabilità della piazzaforte al Regio Esercito, per tornarsene finalmente tra gli entusiasmi popolari in Patria.






11. L'OCCUPAZIONE DI TOBRUK, DERNA E BENGASI IN CIRENAICA

Più o meno con le stesse modalità avvennero le conquiste delle principali città costiere della Cirenaica.

Le navi italiane si dirigono verso Tobruk nell'ottobre 1911. Capofila è una nave da battaglia classe Regina Elena



Lo  sbarco a Tobruk

Cinquecento chilometri più a est di Tripoli, la 2° squadra navale quasi al completo dell'ammiraglio Aubry (corazzate Vittorio Emanuele III, Roma, Napoli, incrociatori Amalfi e Pisa, esploratore Agordat e caccia Lampo) si presentò il 4 ottobre nella rada di Tobruk, il porto più importante dell'intera Libia, nodo strategico fondamentale per avere il controllo delle comunicazioni costiere da e per l'Egitto, la cui conquista avrebbe consentito alle nostre forze di accorciare considerevolmente le linee di rifornimento rispetto al porto siciliano di Augusta.
La città era presidiata da circa 200 soldati regolari al comando del capitano Mustafà Kemal, colui che avrebbe fondato la nuova repubblica turca undici anni più tardi, e dagli irregolari libici della tribù Meryem, guidati dallo Sheik Muberra, ma come al solito essi preferirono accennare ad una difesa simbolica per poi ritirarsi nell'entroterra.


A Tobruk il capitano turco Mustafà Kemal detta una lettera ad un soldato


Dopo l'intimazione di resa, portata dal capitano di fregata Carlo Albamonte Siciliano, comandante dell'Agordat, come al solito respinta al mittente sia da Kemal che dal capo della milizia locale, espressione della tribù Abidat, la Vittorio Emanuele e lo stesso Agordat aprirono il fuoco sulle installazioni militari, per poi far sbarcare anche in questo caso un piccolo contingente di 400 marinai che in breve tempo completò l'occupazione dell'intera città, dopo un breve scontro di fucileria, favorendo l'ordinato afflusso nei giorni successivi dei nuovi rinforzi dall'Italia, tra cui un battaglione del 48° fanteria Ferrara ed un plotone del genio, arrivati il giorno dopo da Napoli col piroscafo Favignana, per un totale di circa 2000 uomini, senza incontrare alcuna resistenza.

L'incrociatore (ariete esploratore) Agordat

Lo sbarco a Derna

Al termine del bombardamento su Tobruk la divisione dell'ammiraglio Presbitero, con in prima fila la corazzata Napoli e gli incrociatori Pisa e Amalfi, si sganciò dal grosso della flotta dirigendosi verso Derna, più a ovest, dove si erano verificati atti ostili contro gli italiani presenti in città e persino lo stesso console con altro personale era stato preso in ostaggio. 

La corazzata Napoli
Dopo una breve resistenza risolta dall'intervento dei cannoni di piccolo e medio calibro della Napoli il 7 ottobre i nostri diplomatici erano stati liberati a condotti a bordo della nave, e con loro tutti gli altri italiani presenti in città, ma permanendo la situazione di tensione l'ammiraglio Aubry decise il 13 ottobre di effettuare uno sbarco anche su quel porto, che venne fatto il giorno 16, preceduto anche in questo caso da un forte bombardamento sulle postazioni turche, cui partecipò anche il solito Agordat che, come a Tobruk, anche a Derna si occupò di distruggere la stazione radio nemica.

Vittorio Italico Zupelli

Alla fine, nonostante le condizioni di mare molto mosso rallentassero fortemente le operazioni, al termine di cinque giorni di combattimenti anche intensi, il 21 ottobre l'intero battaglione, composto da circa 400 tra marinai del Vittor Pisani e fanti del I° battaglione del 40° Bologna, era a terra, destinato ad essere raggiunto nei giorni successivi dal 22° reggimento fanteria Cremona, dal battaglione alpino Saluzzo e da un plotone del genio, col compito di garantire l'afflusso idrico alla città.
   
Era un compito assai impegnativo, perché le fonti erano situate su un altopiano che torreggiava sulla città saldamente in mano al nemico, ma gli uomini del 22°, guidati dall'abile comandante, il colonnello Vittorio Italico Zupelli, riuscirono ad impadronirsi di quel costone con un geniale colpo di mano ed a fortificarlo, rendendolo inespugnabile dalle forze avversarie.


La sede del comando italiano a Derna










Lo sbarco a Bengasi

Molto complessa fu anche l'occupazione di Bengasi, 15000 abitanti, capitale della Cirenaica, obiettivo secondo solo a Tripoli da un punto di vista strategico, e sin dal 1° ottobre sgombrata completamente dagli italiani ivi residenti.
Il 18 ottobre una squadra navale partita da Augusta con 4000 uomini a bordo, posti sotto il comando diretto del generale Briccola, appartenenti a due reggimenti di fanteria (4° Piemonte e 63° Cagliari), altri del genio, due batterie di artiglieria da montagna ed un battaglione di fanti di marina, si presentò innanzi a quest'ultima città, difesa da un piccolo presidio di 450 uomini, e le intimò la resa, che venne rifiutata. 
La corazzata Roma
Il giorno dopo, alle 7,30 di mattina, le batterie delle corazzate Vittorio Emanuele III, Regina Elena, Roma e Napoli aprirono il fuoco, concentrandosi sui forti di Berka e Castello, ma colpendo anche la spiaggia lunga un chilometro e mezzo della Giuliana, unica adatta ad uno sbarco in forze per poter scagliare l'attacco allo strategico forte di Berka che dominava sulla cittadina, cui era deputato
Giovanni Ameglio
il Maggiore Generale Giovanni Ameglio, stretto collaboratore di Briccola e futuro governatore della Cirenaica, posto al comando dell'avanguardia costituita dal 4° fanteria e da una batteria da montagna. 
Questo costrinse i nostri fanti di marina al comando del capitano di fregata Angelo Frank, vice comandante della Napolia sbarcare, a bombardamento ancora non concluso, poco più di un'ora dopo,  su una linea di dune a circa cento metri dalla battigia, sotto il fuoco di fucileria intensissimo dei difensori turchi, ben appostati all'interno di trincee accuratamente mimetizzate poste in corrispondenza di una salina praticamente impossibile da aggirare.

Fanti di marina sbarcati sulle dune delle spiagge libiche


Per poter dominare sulla spiaggia lo stesso capitano Frank, postosi al comando di un plotone di marinai da sbarco con due pezzi di artiglieria, occupò l'unica altura disponibile, quella in cui era posto il cimitero cristiano, libera da truppe nemiche: costretto a ripiegare, dopo aver rimosso gli otturatori ai cannoni, per il timore di essere circondato dai turchi, che avevano scelto proprio il cimitero cristiano come fulcro della loro furiosa controffensiva, sempre Frank, tuttavia, con l'appoggio decisivo dei grossi calibri delle corazzate in rada, guidò nuovamente la riscossa riprendendo prontamente l'altura e i cannoni.
Di fronte alle veementi cariche avversarie l'eroico ufficiale riuscì a tenere la posizione, fino a quando, intorno alle 15,30, col contingente nazionale ormai quasi tutto sbarcato, due battaglioni del 4° fanteria, fattisi largo in furiosi scontri alla baionetta ed aggirate a loro volta le postazioni nemiche, riuscirono a mettere in fuga definitivamente i fanti turchi, quasi sul punto di riconquistare l'altura. 
L'eroico capitano Frank non sarebbe però riuscito a vedere la fine di quello scontro, cadendo ucciso prima dell'arrivo dei rinforzi.


La caserma della Berka a Bengasi



















Il mattino del 19 ottobre Bengasi era ormai completamente occupata dalle nostre truppe, continuamente rinforzate nei giorni successivi dall'afflusso di nuovi reggimenti di fanteria (6° Aosta e 68° Palermo) e di bersaglieri, tuttavia la situazione si sarebbe praticamente cristallizzata su questo scenario fino alla fine della guerra, in quanto nell'immediato retroterra della città fortissime bande di irregolari arabi appartenenti alle tribù locali, valutate sino a 20000 uomini, con l'appoggio delle residue truppe turche rimaste sul territorio, avrebbero stabilmente occupato il campo trincerato di Sidi Muftà (Benina), impedendo da quel momento in poi qualsiasi iniziativa offensiva italiana.


Vedetta  in un avamposto di Bengasi





12. CHI VA PIANO VA SANO E VA LONTANO

Una volta ottenuto il controllo delle principali città sulla costa, spesso anche in maniera assai precaria, secondo i più il grosso era fatto.
Si trattava a questo punto semplicemente di cercare un visibile risultato decisivo che potesse rendere immediatamente percepibile la netta vittoria italiana.
Ma così non avveniva. 



Il Generale Caneva a Tripoli con il suo stato maggiore






Il Generale Caneva, per sua forma mentale, non amava i voli pindarici e preferiva, piuttosto che procedere risolutamente all'annientamento del nemico, affidarsi alla classica, buona, vecchia tattica più conservativa del logoramento: il suo intento era quello di tenere botta alle prevedibili controffensive turche e possibilmente di espandere progressivamente le nostre conquiste territoriali, fidando nella superiorità numerica, tecnologica e tattica delle nostre truppe, ma senza esporsi più di tanto.
Sulla stessa sua linea si poneva anche il Generale Ottavio Briccola, il comandante della 2° divisione di linea, come abbiamo visto in precedenza a proposito della conquista di Bengasi, ma si trattava di un pensiero sicuramente presente  in quasi tutti i comandanti italiani e che trovava la sua genesi probabilmente ancora una volta nello shock per la sconfitta di Adua.


Accampamento italiano a Tripoli


Così facendo, però, i progressi sul piano bellico, dopo le iniziali vittorie, cominciarono a latitare: non solo le stesse città in mano italiana restavano sempre esposte ai contrattacchi nemici, e fino alla fine della guerra non sarebbero comunque mai state completamente al sicuro, ma soprattutto le zone dell'interno rimanevano totalmente fuori controllo da parte dei nostri soldati, in particolare quelle intorno alle oasi, nelle quali tutte le forze regolari turche avevano scelto di andarsi a rifugiare, protette dalle popolazioni locali, con l'intento a questo punto di agire contro le straripanti truppe d'invasione italiane usando non più le classiche azioni manovrate da guerra guerreggiata, ma iniziando ad adottare tattiche proprie dell'autentica guerriglia, fatte di imboscate e rapide puntate offensive in profondità con l'aiuto decisivo delle formazioni di irregolari arabi, agili, manovriere, perfettamente a loro agio in quegli ambienti, che al contrario dei nostri conoscevano perfettamente palmo a palmo. 
Si creava perciò un circuito vizioso in cui il timore di procedere alla cieca nel deserto contro le tribù locali, senza un addestramento specifico alla lotta contro guerriglia,  senza equipaggiamenti adatti, senza mappe aggiornate del territorio, finiva col tradursi di fatto in una sorta di rinserrarsi delle nostre truppe al sicuro delle città costiere, lasciando perciò praticamente a sé stesso l'enorme retroterra desertico.


Fanti italiani al riparo di una trincea

Si cominciarono a costruire appostamenti difensivi stabili intorno alle città, ridotte, fortificazioni fisse e mobili, grandi e piccole, dai quali partivano magari limitati raid in direzione dell'entroterra ma sempre a piccolo raggio, magari per consolidare un'altura, od occupare un'oasi, o più crudamente per andare a fare una rappresaglia nei confronti dei villaggi da cui provenivano le formazioni ribelli arabe, ma senza un autentico slancio offensivo: troppo forte era il timore di subire clamorosi rovesci inoltrandosi in territori sconosciuti contro un nemico che, pur rifiutando ovviamente lo scontro in campo aperto dove sarebbe stato polverizzato, era però capacissimo di tendere imboscate e agire alle spalle delle meno manovriere e più pesanti truppe italiane.


Si piazzano i reticolati

La situazione venne poi aggravata in Tripolitania anche dal sopravvenire di una grave epidemia di colera che, già presente sin dal 1910 a Tripoli, dilagò ben presto sin dai primi giorni di ottobre tra le truppe d'occupazione italiane (ma anche tra quelle turche), toccando il suo culmine fin verso metà dicembre, con un totale di 1080 soldati colpiti con 333 decessi, col picco individuato nell'oasi di Ain Zara, a 8 chilometri a sud di Tripoli, dove intensi furono gli scontri tra le opposte schiere, e del pari intensa l'incidenza mortale dell'epidemia.
Ma Ain Zara non fu l'unica oasi dove si combatté giorno e notte ad esiti alterni fin quasi alla fine del conflitto: divennero famosi i nomi di altre oasi e cittadine tutt'attorno nei pressi di Tripoli dove dal 20 ottobre in poi si concentrò principalmente la controffensiva delle truppe turche in un primo momento scacciate dalla città.


Artiglieria cammellata italiana



13. IL SETTORE DI HOMS

Molto contese furono le alture attorno ad Homs, ad esempio, città a circa 120 chilometri ad est di Tripoli.

Carlo Maggiotto
L'8° bersaglieri del colonnello Carlo Maggiotto sbarcò il 21 ottobre 1911, solo quattro giorni dopo l'arrivo in rada, a causa delle bruttissime condizioni del tempo che rendevano impossibile l'attracco, pensando che si trattasse di una zona tranquilla e non presidiata da truppe nemiche, ed invece difesa da 300 regolari e circa 2000 volontari indigeni.
Questi, ritiratisi sulle alture del Mergheb a quota 176 che dominavano il centro abitato, respinsero vigorosamente le truppe italiane dirette verso quella direzione, ignare della loro presenza, costringendole alla ritirata, per poi attaccare anche i nostri campi trincerati davanti alla città, venendo però respinti dai bersaglieri grazie anche all'apporto di due compagnie da sbarco della marina, con un cannone da 75 tratto dall'incrociatore Marco Polo, ed ai cannoni dello stesso incrociatore.


Conquista alla baionetta delle alture del Mergheb
(Domenica del Corriere del 10 marzo 1912)

Le colline, nonostante i reiterati tentativi italiani, sarebbero restate in mano delle truppe arabo-turche fino al 27 febbraio 1912, quando sarebbero state definitivamente riconquistate dai nostri soldati.

Ezio Reisoli
Agli ordini del Maggiore e poi Tenente Generale Ezio Reisoli, comandante di quel presidio e della neocostituita 4° divisione speciale di Derna, tre colonne di 2000 uomini ciascuna, formate al centro dall'89° fanteria Salerno e dal battaglione alpino Mondovì, col compito dello sfondamento principale, a destra dal II° battaglione del 6° Aosta e dal I° del 37° Ravenna, ed a sinistra dall'8° bersaglieri, appoggiate tutte e tre da mezza compagnia del genio, da parecchie sezioni mitragliatrici e da sei batterie, attaccarono all'alba le munitissime posizioni nemiche su quelle alture, con l'appoggio dal mare delle batterie dell'incrociatore ausiliario Città di Siracusa e dall'esploratore Coatit, già impegnati il giorno prima in un finto sbarco a scopi diversivi su Zliten, distante 35 chilometri più a est da Homs.

Dopo ben otto ore di durissima lotta tutte quelle posizioni sarebbero state definitivamente conquistate, al prezzo di  15 caduti (tra cui le medaglie d'oro alla memoria capitani Donato Somma del 6° fanteria e Riccardo De Caroli del 1° reggimento di artiglieria da montagna) e 100 feriti, mentre dall'altra parte le valutazioni parlano di circa 500 caduti e quasi il doppio di feriti.
Sembra che proprio su quelle alture, a quanto raccontava l'interessato, sia morto il nonno di Muhammar Gheddafi.

La battaglia di Lebda

Da lì, non appena consolidate le posizioni, lasciati ad Homs alcuni plotoni del 6° e del 37°, le medesime truppe partirono all'attacco il successivo 2 maggio 1912 per impadronirsi anche di Lebda, cioè dell'antica Leptis Magna, a 3 chilometri di distanza, dove le forze nemiche scampate alla sconfitta si erano andate a rifugiare.

La battaglia per l'occupazione di Lebda
(Domenica del Corriere del 12 maggio 1912)



Alle 4,45 di mattina, suddivisi anche qui su tre colonne,  gli italiani attaccarono, anche qui con l'appoggio del Città di Siracusa: due battaglioni del 6° e del 37° in direzione delle rovine romane, l'8° bersaglieri ed una batteria di artiglieria da montagna verso i cosiddetti Monticelli contro la sinistra dello schieramento nemico su Lebda, e due battaglioni dell'89° Salerno al comando del maggiore Antonino Di Giorgio, siciliano di San Fratello (ME), con il battaglione alpino Mondovì, di riserva sul Mergheb a protezione della nostra destra attaccante.

Antonino Di Giorgio
Le postazioni del nemico, tenute da circa 1000 uomini, vennero espugnate completamente al termine di poco meno di due ore di combattimento, grazie anche all'intervento provvidenziale della riserva di Di Giorgio, pronto a frustrare un tentativo di sfondamento nemico.
Le nostre perdite assommarono in totale a 8 morti (tra cui un ufficiale) e 57 feriti (tra cui tre ufficiali), secondo il rapporto redatto da Reisoli al termine, mentre si stimarono circa 300 morti e 500 feriti nelle fila del nemico.


Cesare Gazzani
La battaglia dei Monticelli

Nella notte tra l'11 e il 12 giugno la ridotta italiana sui Monticelli, difesa da una cinquantina di nostri soldati, un plotone dell'89° fanteria al comando del tenente Cesare Gazzani, di Campobasso, sarebbe stata assaltata da forze soverchianti nemiche: il fortino B venne distrutto e incendiato e 19 suoi occupanti uccisi, ma il resto del plotone, tra cui il tenente Gazzani, riuscì a salvarsi presso un altro fortino ed a contrattaccare all'arma bianca, dopo aver dato l'allarme a Homs. 
Mentre infuriava l'impari scontro, sopraggiunse la colonna di soccorso comandata dal colonnello De Albertis, comandante dell'89°, composta da alcune compagnie dell'89° stesso e del III° battaglione bersaglieri, che venne accolta dal fuoco nemico proveniente dalle vicine alture dei Monticelli Rossi, sgominato però dal successivo intervento del V° battaglione bersaglieri.
Le forze nemiche che avevano attaccato la ridotta, messe in fuga sullo uadi Lebda, vennero falcidiate dal fuoco di fucileria di tre plotoni del 37° fanteria sopraggiunti in quel momento ed infine annichilite completamente dai cannoni dell'artiglieria, mentre anche i Monticelli Rossi venivano rapidamente sgomberati dalle mehalle arabe in scomposta fuga. 
Sul posto restarono 60 morti italiani, tra cui il coraggioso tenente Gazzani che ebbe la medaglia d'oro alla memoria, e ben 421 nemici.


14. LA BATTAGLIA DI SCIARRA SCIAT



Un furioso e sanguinosissimo scontro, probabilmente il più conosciuto dell'intera guerra, si ebbe il 23 ottobre nell'oasi di Sciarra El Sciat (v. QUI), ad est di Tripoli.

Tripoli e le sue oasi
Tripoli in quel momento era difesa lungo tutto il perimetro difensivo di circa 13 chilometri da un totale di 8500 uomini: ad ovest con tre batterie di artiglieria erano presenti il 6° Aosta ed il 40° Bologna, al centro con fronte sud l'82° Torino e l'84° Venezia e ad est l'11° bersaglieri.
I fanti in linea a Sciarra Sciat


Nel corso di un volo di ricognizione svolto alle 6,10 del mattino da parte del Bleriot del capitano Carlo Maria Piazza, il primo in assoluto della storia, era stato rilevato quella mattina un certo movimento di truppe nemiche in direzione dell'abitato, ma quanto riferito da Piazza non aveva trovato conferme da un successivo volo di ricognizione di un altro pilota, il trentaquattrenne capitano  di artiglieria Riccardo Moizo (brevettato nell'autunno 1910), di Piacenza.





Non c'è da sorprendersi della mancanza di certezze, quelli effettuati erano più che altro brevi voli esplorativi per effettuare verifiche tecniche e di efficienza dei velivoli (bisogna pur sempre considerare che la squadriglia era appena arrivata da Napoli, dove si era imbarcata il 12 ottobre, ed aveva trovato come punto d'appoggio un semplice campo di fortuna a sud ovest di Tripoli, in una località chiamata Cimitero degli Ebrei).
Tuttavia sin dal primo mattino fu evidente che qualcosa bolliva in pentola: col senno del poi ci si sarebbe reso conto che all'improvviso dal piccolo centro abitato erano spariti i tanti mendicanti, ambulanti e venditori di frutta che da sempre si affastellavano in gran numero sulle sue povere strade polverose per andare in direzione degli accampamenti italiani...

Il Bleriot del capitano Piazza nel 1912
L'inizio della battaglia

Gustavo Fara
Infatti, dopo alcuni attacchi diversivi condotti in forze dal 
nemico con circa 500 uomini più a ovest,  tra Bu Meliana e Gargaresh, contro il 6° e successivamente contro l'82° fanteria, tutti assai facilmente respinti  anche con l'aiuto del fuoco navale della corazzata Sicilia, migliaia di armati, tra i quali molti irregolari indigeni, supportati da cecchini civili nascosti all'interno della stessa oasi, direttamente alle spalle dei nostri soldati, attaccarono le posizioni ancora non fortificate dell'11° bersaglieri agli ordini del colonnello Gustavo Fara.
Poste a presidio della parte a est del perimetro difensivo, quelle postazioni erano purtroppo quelle più esposte alle offese nemiche e su di esse quindi era diretto l'attacco principale.

Il XXXIII° battaglione era schierato, senza riserva, tra Messri ed Henni, a sette chilometri e mezzo dalla città.
Il XXVII° battaglione era posto tra quest'ultima ed il mare, con una compagnia in riserva a Bu Sette.
Il XV° battaglione infine era 
in riserva ad est di Henni.







Purtroppo le nostre truppe erano situate in una zona dell'oasi, la Menscia, densamente popolata e pertanto impossibile da difendere coi cannoni a causa della mancanza di campo di tiro se non abbattendo almeno parte delle abitazioni e delle proprietà dei residenti, cosa che non si era voluta fare per non renderseli ostili in una chiave di pacificazione verso la gente libica, e per di più la visuale dei nostri uomini era limitata in media solo a 40 metri, per la presenza delle palme e di numerosi muretti a secco alti circa un metro atti a delimitare le singole proprietà, dietro ai quali avevano buon gioco i beduini a nascondersi e prendere la mira.


Sotto l'impeto furioso di un nemico assai più numeroso e combattivo del solito, i nostri soldati schierati più all'interno, finiti sotto un precisissimo fuoco di fucileria, furono pertanto costretti a ripiegare progressivamente, patendo gravi perdite: da un lato la 7° compagnia del capitano Pergolesi del XXXIII° battaglione che presidiava Forte Messri, rinforzata dalla 9° del tenente Belluzzi, dalla 3° del XV° battaglione e da alcuni plotoni dell'84° Venezia, riuscì con molti sforzi a mantenere le posizioni, ma dall'altro l'8° compagnia schierata ad Henni dovette combattere fino al calar della notte sotto l'incalzare del nemico, con l'aiuto della 1° e della 2° del XV° e della 6° del XXVII°.
Proprio quest'ultima, comandata dal tenente Serravalle, prima portatasi sulla moschea di Bu Mescia, lungo la strada del cimitero di Rebab, si sarebbe infine diretta su Henni, dove Fara conduceva la sua disperata difesa.

Il colonnello Fara stende il suo rapporto sulla battaglia

Probabilmente proprio grazie a questa sua decisione la compagnia di Serravalle si salvò: delle cinque compagnie dell'11° bersaglieri ormai finite sotto tiro, infatti, la 4°, la 5°, la 6°, la 7° e la 9° (un totale di circa 1.000 uomini di cui appena la metà ancora in grado di combattere dopo un giorno di battaglia), solo le ultime tre sarebbero sopravvissute.
La 4° compagnia del capitano Bruchi del XXVII° battaglione, schierata ad est di Henni, e parte della 5° del capitano Punzo, schierata da Henni fino al mare, che non disponevano di alcuna riserva e non potevano quindi essere aiutati da nessun altro che da sé stessi, a differenza delle altre furono infatti costrette alla fine a ripiegare proprio sul cimitero di Rebab: solo pochi soldati della 5° sarebbero riusciti comunque ad aprirsi un varco ed a sganciarsi, verso le 13,00, dopo una durissima lotta, ripiegando prima sulla Batteria Ahmedìa e poi sulla stessa Tripoli, sfruttando anche il poderoso intervento delle nostre navi al largo, che cominciavano a riversare sul nemico tutto il fuoco dei loro pezzi maggiori.

La sorte degli uomini di Bruchi e Punzo, presi tra due fuochi,  era comunque segnata: ormai stremati, colpiti a fucilate anche alle spalle dai civili in quello che era ormai diventato un osceno tirassegno, i bersaglieri della 4° e della 5° compagnia combatterono come diavoli in mezzo ai campi coltivati per almeno altre tre o quattro ore, fino a quando, una volta esaurite le forze e soprattutto le munizioni, dopo aver a loro volta creato vuoti paurosi tra gli attaccanti furono costretti ad alzare bandiera bianca.
Si trattava di circa 290 uomini ormai inermi.

La strage dei bersaglieri prigionieri

Pensavano di averla comunque fatta franca, di essere forse destinati ad un campo di prigionia, o magari ad essere scambiati con dei prigionieri degli italiani.
Invece per loro in quel momento cominciò un orrore ancora più grande di quello pur enorme che avevano vissuto fino a lì.
Dopo essere stati tutti concentrati sul cimitero vennero tutti uccisi ad uno ad uno, senza pietà. 
I loro corpi sarebbero stati ritrovati in seguito dietro la moschea, orrendamente mutilati, secondo la testimonianza scritta del 23 ottobre di Gaston Leraux per il francese Le Matin, del corrispondente del connazionale Journal e del giornalista italo-argentino Enzo D'Armesano del quotidiano La Prensa.



La vittoria arabo-turca sarebbe durata lo spazio di un paio d'ore: dopo un accesissimo combattimento casa per casa, un battaglione dell'82° fanteria, due battaglioni di marinai delle compagnie da sbarco delle navi Sicilia, Sardegna, Re Umberto e Carlo Alberto, supportati dal fuoco di una batteria da sbarco da 75 mm già posizionata a Bu Meliana, coll'eroico intervento dei soli 57 superstiti delle due compagnie martiri del XXVII° battaglione, inquadrate in due plotoni, riconquistarono l'intera oasi.

I granatieri avanzano nel cimitero di Rebab, nel corso della battaglia di Sciarra El Sciat

Ma da quel giorno nulla sarebbe stato più come prima.
Erano caduti nella battaglia 21 nostri ufficiali e 482  soldati (altre fonti parlano di 8 ufficiali e 370 soldati, o di 13 ufficiali e 361 soldati), e 125 erano stati i feriti (altra fonte più precisamente parla di 16 ufficiali e 142 uomini di truppa): la cosa era stata tragica, certo, ed alla fine della guerra quello si sarebbe rivelato il fatto d'armi più grave in assoluto per le nostre truppe, ma tutto sommato sarebbe stata giustificabile razionalmente nell'ottica degli inevitabili costi della guerra, anche se l'impresa libica era stata da sempre vissuta sin dall'inizio come una sorta di passeggiata militare contro un nemico decisamente inferiore.  

Quando furono scoperti i corpi martoriati dei poveri bersaglieri della 4° e della 5° compagnia però si scatenò l'inferno, con ripercussioni che si sarebbero dispiegate per tutta la durata del conflitto.

Si era sempre stati convinti che le tribù locali, gli "arabi", come erano chiamati, avrebbero accettato l'arrivo degli Italiani quasi con gioia, in fin dei conti fino praticamente quasi all'inizio della guerra i locali avevano sempre combattuto contro i dominatori turchi, spinti dai capi senussi, ed improvvisamente si scopriva che ora non era più così.
Anzi, proprio loro, gli arabi, si erano alleati agli antichi usurpatori per poi accanirsi quasi con voluttà sulle carni ormai inerti dei poveri caduti (si veda l'incipit della didascalia sotto l'immagine d'epoca della battaglia di Sciara Sciat, che parla del "L'INIQUO TRADIMENTO...")




Un bersagliere, Felice Piccioli, lasciò questa testimonianza: "I nostri morti di Sciara Sciat giacciono insepolti ovunque: molti sono inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti hanno cucito gli occhi con lo spago; molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa; moltissimi hanno avuto le parti genitali tagliate".
La relazione ufficiale italiana, che trova conferma nell'articolo citato sopra di Enzo D'Armesano, diceva che "molti erano stati accecati, decapitati, crocifissi, sviscerati, bruciati vivi o tagliati a pezzi".

Arresto di presunte spie arabe

L'immediata repressione italiana

Caneva, furibondo con le popolazioni autoctone, accusate apertamente di "tradimento" dopo che gli Italiani avevano cercato in tutti i modi di trattarli nel modo più umano e corretto possibile, pretese sin da subito una reazione severissima e implacabile.
Questo l'ordine del giorno di Caneva, elogiativo nei confronti dell'11° bersaglieri ed al contempo già pienamente chiaro circa i suoi sentimenti verso le popolazioni indigene:

"Nel giorno 23 del corrente mese, l'11° reggimento bersaglieri, impegnato nelle trincee dell'oasi orientale di Tripoli, è stato proditoriamente assalito a tergo da abitanti indigeni che apparivano e dovevano ritenersi sottomessi al nostro Governo. Nella contingenza difficilissima, per l'imprevedibile attacco, per l'insidiosità del terreno, per il frazionamento inevitabile dell'azione, seppero gli ufficiali ed i bersaglieri dell'11° reggimento affrontare vigorosamente gli eventi. E nonostante le notevoli perdite che a loro vennero dal tradimento, seppero con lunga lotta abbattere e giustiziare sul posto od arrestare i traditori spazzandoli dal loro tergo e ricuperando la loro linea di difesa.
Io segnalo al plauso dell'intero corpo d'operazione la brillante condotta degli ufficiali e dei bersagliari dell'11° reggimento, la loro bravura, la loro invitta virtù militare. Onore ai caduti per la causa italiana, onore agli ufficiali ed ai militari tutti dell'11° reggimento bersaglieri, onore al colonnello che tante virtù ha saputo infondere nel suo reggimento".


In seguito allo scontro di Henni, di cui parliamo tra poco, Caneva avrebbe rincarato la dose contro i "traditori" in un nuovo ordine del  giorno di elogio alle truppe:

"Ieri il nemico ha portato un violento attacco contro tutta la nostra linea di difesa che fu anche assalita a tergo da attacchi a tradimento degli abitanti dell'oasi. Ma voi avete saputo ad un tempo spazzare dalle vostre spalle i traditori e respingere davanti a voi un forte nemico infliggendogli gravissime perdite. Avete dato prova di esemplare fermezza e di mirabile valore. Ed io cito qui, a titolo d'onore, voi tutti e la compagnia da sbarco della Regia Marina, che con voi ha strenuamente combattuto".

Sin dalla prime ombre di quella stessa sera cominciò così una feroce repressione da parte del Regio Esercito contro i locali, a seguito della scoperta dei corpi dei nostri soldati.


Fucilazione di irregolari arabi

Si procedette sin da subito, ad opera di un battaglione della marina, alla ricerca di armi e munizioni facendo perquisizioni casa per casa, stanza per stanza, di tutte le abitazioni prima di Sciarra Sciat e poi dell'intera oasi.
Vennero arrestati e fucilati sul posto tutti coloro trovati in possesso di armi.

Furono incarcerati e trasferiti sin da subito tutti quelli ritenuti sospetti, prima a Tripoli e poi in appositi campi d'internamento sia in Libia che in Italia (alle Tremiti, dove già esisteva un campo predisposto per 400 persone, ne vennero per esempio deportate 1300, di cui un terzo sarebbe morto entro un anno a causa del tifo esantematico).


Prigionieri arabi alle Tremiti

Da quel momento in poi si sarebbe cominciato a fare largo uso di rappresaglie, anche a danno di interi villaggi ritenuti conniventi col nemico, e purtroppo non di rado vennero compiuti anche da parte italiana veri e propri atti di estrema crudeltà nei confronti dei libici, secondo il vecchio detto "occhio per occhio, dente per dente": spiacevoli episodi in tal senso accaddero ad esempio quando a scontrarsi furono le tribù arabe libiche e i nostri soldati delle truppe coloniali.

Un campo di concentramento italiano in Libia

Lo storico Angelo Del Boca in un suo saggio dedicato all'impresa libica (A un passo dalla forca, Baldini & Castoldi Dalai) parla di un totale di 4000 arabi uccisi e di 3425 deportati in ben venticinque penitenziari italiani, tra cui famigerato quello di Ustica, in cui, secondo il giornalista Paolo Valera, l'unico a poterlo visitare, vi furono ben 500 morti a causa del colera, anche per le condizioni di vita inumane in cui i prigionieri si trovavano a vivere: "Nessun Paese ha trattato i prigionieri di Stato come l'Italia. Li ha nutriti come carcerati, con 600 grammi di pane e con una minestra di gavetta nauseosa. Il loro giaciglio è stato della paglia sternita, buttata in terra, sparpagliata sulle pietre o sugli ammattonati, come per le bestie".


I figli degli ufficiali turchi al campo di concentramento di Caserta

Tutto questo avrebbe sfavorevolmente inciso sia sui rapporti tra gli italiani e le tribù indigene, anche quelle meglio disposte nei nostri confronti, sia nella considerazione della nostra azione in Libia da parte dell'opinione pubblica internazionale, a maggior ragione di quegli Stati europei che già non vedevano di buon occhio la nostra impresa bellica, tra i quali spiccavano soprattutto i quotidiani liberali britannici (alcuni corrispondenti internazionali per protesta innanzi a tali atti ritenuti di barbarie del nostro esercito preferirono ritirare i propri accrediti dal fronte di guerra): dalle colonne del Times l'inviato George Macaulay Trevelyan scriveva che il tricolore "è la bandiera meno onorata fra quante ondeggiano sopra un'Europa militarista e finanziaria", e la campagna stampa britannica contro l'Italia cominciò ad essere così insistente da espandersi un po' in tutto il Commonwealth, tanto che non pochi furono coloro che decisero di costituire dei comitati apposta per finanziare gli sforzi bellici arabo-turchi.
Va anche detto tuttavia che non mancò chi giunse comunque a difendere l'operato italiano, mettendolo proprio a confronto, per esempio, con le rappresaglie fatte dagli inglesi contro i boeri o contro le tribù africane ribelli nei loro possedimenti coloniali.
Ognuno pensasse a casa sua, insomma, era la morale.





















Gli scontri di Henni-Bu Meliana

Un'immagine tratta da un giornale francese dell'epoca 
sulla cattura del vessillo verde del profeta  da parte delle nostre truppe
Tre giorni dopo quel tragico episodio, il 26 ottobre, le truppe ottomane, partite dall'abitato di Tagiura, a circa dodici chilometri ad est di Tripoli, attaccarono di nuovo in forze la città alle 6,00 del mattino, non del tutto a sorpresa perché dalla ricognizione aerea italiana erano stati segnalati sin dal giorno prima movimenti frenetici da parte del nemico.
L'attacco era diretto lungo tutto il fronte sud-est del perimetro difensivo, ancora una volta su Henni-Bu Meliana, dove da qualche giorno si era accasermato nella casa-fortino di Djamil Bey, un notabile locale, sita a soli duecento metri dai trinceramenti dell'84° fanteria Venezia, il gruppo squadroni di formazione del 15° cavalleggeri di Lodi, formato dal 1° e dal 3° squadrone sbarcati a Tripoli il 15 ottobre e ridesignati in Libia come 1° e 2° squadrone.


Il violentissimo scontro

Dobbiamo la descrizione particolareggiata dell'episodio al rapporto scritto inviato al comando di reggimento da parte del tenente Giovanni Castelli, al comando del 1° squadrone (v. http://www.tempiocavalleriaitaliana.it/public/biblioteca/pubblicazioni/Dario%20Temperino_%20Reggimento%20Cavalleggeri%20di%20Lodi%20(15).pdf).
Mentre all'alba suonava l'allarme dalle trincee, subito sovrastato dalle scariche di fucileria del nemico, i cavalleggeri destati nel sonno corsero a piedi nella loro direzione, proprio nel momento in cui un piccolo drappello turco di cavalleria caricava, subito seguito da presso da molti miliziani indigeni a piedi mentre "alle spalle delle trincee stesse un'orda numerosissima di arabi effettuava simultaneamente un altro attacco".
Dopo quattro ore e mezzo di combattimenti intensi, gli attaccanti arabo-turchi, pur essendo riusciti in parte ad avanzare in un primo momento sul lato ovest, furono ributtati indietro dall'arrivo del III° battaglione dell'82° fanteria, giunto di rinforzo da Forte Messri, e dal fuoco dell'artiglieria, sia quella terrestre che quella a bordo della corazzata Sicilia, proprio mentre veniva rapidamente stroncato anche un più timido attacco sul fronte orientale.
Nel terribile scontro morirono 54 uomini dell'84° fanteria, quattro dei quali ufficiali, citati dall'ordine del giorno del 27 ottobre firmato dal colonnello Spinelli, comandante del reggimento (il capitano Faitini, comandante della 10° compagnia, il capitano Hombert, comandante della 7°, ed i tenenti Orsi della 7° e Bellini della 12°) e 12 cavalleggeri del Lodi, con 5 feriti, tutti e 17 citati nel rapporto di Castelli.

Gli eroici cavalleggeri del Lodi

La Domenica del Corriere del 14 luglio 1912


Paolo Solaroli di Briona
Il tenente M.O.V.M. Paolo Solaroli di Briona, barone, già ferito al braccio destro e poi al ginocchio all'inizio della battaglia, venne colpito mortalmente quattro volte alla testa, due delle quali con un'arma da taglio, dopo un'ora e mezzo di lotta, mentre sparava in piedi davanti al suo plotone appiedato con un moschetto raccolto da terra, caduto dalle mani di uno dei feriti, il soldato Enrico Vecchi, colpito al braccio destro.

Il tenente Ugo Granafei di Serranova, M.A.V.M., un nobile anche lui, marchese stavolta, cadde invece colpito alla tempia da un solo proiettile dopo un'ora di combattimento, mentre apparentemente impassibile al fuoco nemico sparava con la sua pistola Mauser contro le masse urlanti che gli si paravano davanti, col ginocchio appoggiato per terra "come se fosse ad un campo di tiro, ad eseguire un fuoco nutrito circondato dal suo plotone senza retrocedere di un passo", avrebbe scritto Castelli, che lo rinvenne dopo il combattimento ed ebbe la sensazione che quasi dormisse "di un sonno di pace e soddisfatto del suo operato".

Ugo Granafei di Serranova
Attorno ai due ufficiali ed al capitano Lorenzo Gandolfo,  decorato con la medaglia d'argento, comandante del 2° squadrone, rimasto ferito alla spalla destra mentre, primo fra tutti, si gettava coraggiosamente alla testa del suo reparto sul nemico avanzante, tutti gli uomini dei loro rispettivi due plotoni si strinsero all'estrema difesa, una sessantina di cuori decisi a non cedere a nessun costo, cadendo praticamente uno sopra l'altro fino all'arrivo dei fanti dell'82°.

Caddero tutti attorno al tenente Solaroli, colpiti alla testa da colpi di arma da fuoco, il caporalmaggiore Mario Sola, il caporale Mario Lunghi, il caporale Luigi Carenini, che ebbe il tempo di dedicare un'ultima parola per la madre, ed i soldati Giovanni Radaelli, trafitto alla gola da un'arma bianca, Salvatore Arcero, per un corpo d'arma da fuoco, anche se colpito per sfregio in seguito anche da un'arma bianca, Innocente Bianchi, colpito mortalmente da un colpo d'arma da fuoco all'inizio ma trafitto poi da molte pugnalate e trascinato per terra e abbandonato a circa duecento metri di distanza, Vincenzo Giudice, colpito da una fucilata alla schiena da civili nascosti nell'oasi, Vittorio Carbone, ferito da più colpi nemici, i soldati Ghezzi, Agide e Giuseppe, forse parenti, il primo colpito alla testa ed il secondo al petto, dopo che il proiettile gli aveva tranciato la bandoliera; mentre oltre al capitano Gandolfo ed al soldato Vecchi furono feriti anche il caporale Mario Bergamaschi, rimasto a lungo nonostante tutto sul campo per proteggere il corpo di Solaroli, ed i soldati Luigi Enis, colpito ben due volte alla gamba, e Giovanni Rondanini, ferito seriamente prima alla mano destra e poi, continuando lo stesso a combattere, da ben due colpi anche al braccio sinistro.
Intorno a loro, alla fine di tutto, sarebbero stati contati ben 700 nemici uccisi.






La bandiera del reggimento venne premiata con la sua prima medaglia d'oro, ed oltre alla medaglia d'oro conferita a Solaroli  ne furono accordate altre sette d'argento e dieci di bronzo.
Alcuni dei caduti sarebbero stati ricordati da Gabriele D'annunzio nella sua opera Merope, o Canti della Guerra d'Oltremare, il quarto libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi:


“Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.
Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come
un nembo. E’ la Cavalleria di Lodi,
la schiera della morte. So il tuo nome,
o buon cavalleggero Mario Sola.
Giovanni Radaelli, so il tuo nome;
Agide Ghezzi, e il tuo. “Lodi” s’immola.
E veggo i vostri visi di ventenni
ardere tra l’elmetto ed il sottogola,
o dentro i crini se il caval s’impenni
contra il mucchio. Gandolfo, Landolina,
alla riscossa! Tuona verso Henni.
Tuona da Gargaresch alla salina
di Mellah, su le dune e le trincere,
sulle cubbe, su fondachi, a ruina,
sui pozzi, su le vie carovaniere.
La casa di Giamil ha una cintura
di fiamma. Appié, appié, cavalleggere!"


Cartolina celebrativa del capitano Verri

La caduta del capitano Pietro Verri

I cavalleggeri del Lodi non furono però gli unici protagonisti di quella terribile giornata ad essere celebrati dal Vate D'Annunzio, ma lo fu anche un altro grandissimo personaggio, che abbiamo già incontrato in questo breve percorso storico.
Proprio durante l'acerrimo scontro di Henni cadde infatti anche l'eroico capitano Pietro Verri, già protagonista in incognito della presa di Tripoli (v. QUI).
Mentre conduceva un furibondo assalto alla baionetta alla testa della sua compagnia di marinai da sbarco, da lui stesso affettuosamente chiamati i "Garibaldini del mare", l'uomo venne colpito da una scarica di fucileria dei cavalleggeri arabi verso cui stava dirigendo la carica. 
Si dice che prima di spirare baciasse la mano ad uno dei suoi adorati compagni d'arme dicendo: "Oggi ci volevano mille di voi!".
Vero eroe romantico secondo tutti i crismi, che ben sarebbe potuto essere protagonista nei libri di Kipling, di Salgari o di Verne, Pietro Verri ebbe l'onore di essere ricordato da questi versi:

"Chi balza con lo stuolo irto di ferri
di là dalle trincere e dai destini
verso la sua bellezza? E' Pietro Verri.
"Avanti, marinai, garibaldini del mare!" 
Par che su lo scarno viso
l'ardente ombra del Sirtori s'inclini.
Rotta la fronte che fu pura, ucciso
cade. Par che l'alfiere da Camogli
su le spalle si carichi l'ucciso".


Alla fine di quella terribile battaglia si ebbero tra le fila nemiche un totale di 2000 morti e circa 4000 feriti, 500 fatti prigionieri, 23 cannoni e 1000 fucili catturati e persino 2 bandiere strappate ai turchi (almeno una dall'84° fanteria), riferisce La Stampa del 29 ottobre 1911.


L'84° fanteria sfila con la bandiera del profeta conquistata al nemico negli scontri di Sciarra Sciat e Bu Meliana


Nuove critiche a Caneva


Una rarissima immagine del colonnello Nesciat Bey
Ma anche a Henni il solito atteggiamento attendista di Caneva, sempre più criticato in patria, impedì di conseguire un successo probabilmente definitivo, poiché non solo venne ordinato agli squadroni di cavalleria di non inseguire le forze nemiche finalmente in rotta dirette proprio verso Ain Zara, ma addirittura si decise un prudenziale ripiegamento sulla linea Karamanli-Forte Messri, per accorciare le difesa italiane, di modo che il nemico poté praticamente senza opposizione tornare a riposizionarsi nelle postazioni precedentemente abbandonate, a poche centinaia di metri dalle nostre linee.
Solo un mese dopo, il 26 novembre 1911, con una manovra iniziata alle 6,00 di mattina dai due squadroni di cavalleria del Lodi e dai reggimenti di fanteria 50° Parma, 23° Como e 52° Alpi, il nemico poté essere nuovamente ricacciato via, grazie anche al contributo determinante dell'artiglieria, che sin dalle 7,00 prese a martellare con sistematica precisione e potenza le postazioni arabo-turche, grazie all'aiuto degli osservatori a bordo dei palloni aerostatici.


Cavalleggeri in ricognizione


Un totale di 8000 uomini tra regolari e irregolari nemici poté ancora sfuggire all'annientamento.
Gli irregolari sempre più in aumento di fatto costituivano ormai la spina dorsale del dispositivo difensivo turco, organizzati sapientemente dall'ottimo colonnello Nesciat Bey nelle mehalle apposite milizie tribali, appiedate o a cavallo, comandate da ufficiali turchi e di varia composizione numerica a seconda della tribù di provenienza.
D'ora in poi, più che contro i turchi veri e propri, sarebbe stato proprio contro di loro che gli italiani si sarebbero sempre scontrati.

Trinceramenti italiani in Libia

15. LA BATTAGLIA DI AIN ZARA






Bisognava risolvere ad ogni costo il nodo di Ain Zara.
Fino a quando quell'oasi fosse stata in mano nemica avrebbe costituito una continua e pericolosissima spada di Damocle sulla testa dei nostri soldati: gli ottomila uomini nascosti lì dentro, in possesso tra l'altro di una batteria di sette ottimi cannoni Krupp da 87 mm, erano una minaccia costante nei confronti della città.



Si decise perciò una spedizione in forze nei confronti di quella munitissima base.
Ben 12500 uomini, distinti in tre colonne, si avventarono il 4 dicembre 1911 su Ain Zara:

- La prima colonna, di destra, al comando dello stesso Pecori Giraldi, era formata da due brigate, quella ai comandi del Maggior Generale Antonio Giardina (i reggimenti di fanteria 6° Aosta e 40° Bologna ed i due squadroni di cavalleria del Lodi, posti al comando del maggiore Guglielmo Bisini) e quella agli ordini del Tenente Generale Clemente Lequio (il I° ed il II° battaglione dei granatieri, raggruppati nell'estemporaneo reggimento granatieri di Libia, l'11° bersaglieri del colonnello Fara ed il battaglione alpino Fenestrelle).

- La colonna centrale, al comando del Maggior Generale Luigi Rainaldi, era articolata sull'82° fanteria Torino e l'84° fanteria Venezia, col supporto di una batteria da montagna.

- La terza colonna, a sinistra, partita da Tripoli al comando del colonnello Giuseppe Amari, comprendeva due battaglioni del 52° fanteria Alpi ed aveva il compito di impegnare il nemico a quota 38 (altura delle Fornaci).









Mentre dall'alto alcuni palloni frenati della Regia Marina dirigevano il fuoco delle artiglierie navali e terrestri e alcuni reparti della da poco sbarcata 3° divisione speciale di De Chaurand (un battaglione del 93° fanteria Messina, due compagnie del 18° Acqui e due di zappatori) facevano un piccolo attacco diversivo per distrarre le difese nemiche, le colonne di Pecori Giraldi a destra e di Amari a sinistra attaccavano su entrambi i lati, con la cavalleria a fare da forza d'urto sul lato destro, mentre quella centrale di Rainaldi si scagliava in pieno sul nemico, sotto il fuoco dei pezzi turchi, cui dal canto loro gli italiani rispondevano col fuoco di controbatteria dei cannoni da 149/23 e dei mortai da 210.
Alle 15,00, vistosi minacciate dall'arrivo della colonna Giardina e di quella Lequio in appoggio che le metteva a grave rischio di aggiramento sulla loro sinistra, anche per le travolgenti cariche di cavalleria del Lodi, le truppe arabo-turche decisero in fretta e furia di ritirarsi, lasciando sul posto tutte le artiglierie, così consentendo alle due brigate di Pecori Giraldi di prendere l'altura soprastante l'oasi, mentre la colonna Amari, pur impegnando severamente il nemico, non riusciva comunque  a sfondare e, dopo il suo ripiegamento, riceveva l'ordine di fermarsi e rientrare in città.




Il giorno dopo, truppe appiedate e cavalleria rastrellarono su ordine di Caneva tutta l'area, catturando  addirittura intere carovane, e dopo aver rintuzzato alcuni movimenti di retroguardia del nemico giunsero a occupare ben quattro accampamenti nemici, catturando moltissimo materiale, tra armi, munizioni, esplosivi, tende, viveri e bestiame.
Nella vittoriosa azione caddero 17 uomini, tra cui un ufficiale, e 171 furono i feriti (di cui 8 ufficiali), mentre il nemico ebbe oltre 50 morti (2 ufficiali) ed altrettanti feriti.
Tra i caduti vi fu anche il colonnello Giovanni Pastorelli del 40° fanteria, che fu insignito della medaglia d'oro al valor militare alla memoria.


La morte del colonnello Pastorelli in una cartolina del 1913

Il successivo 13 dicembre il 2° squadrone del Lodi, partito da Ain Zara, avrebbe preso senza colpo ferire anche Tagiura, su cui da subito cominciò la costruzione di ridotte difensive, mentre prima l'uno e poi l'altro squadrone sarebbero stati notevolmente impegnati dalle milizie beduine il giorno 15 nel corso di due distinte ricognizioni armate, una verso Bir Akara e l'altra verso lo Uadi Rubka, ove ebbe luogo lo scontro più cruento.
Finalmente il 17 dicembre,  gli italiani sarebbero entrati anche nell'ormai deserta ed arrendevole Zanzur, totalmente sgombra da truppe nemiche.
Come al solito, però, anche in questa occasione gli Alti Comandi, spaventatisi di aver avuto tanta audacia, ordinarono di abbandonare la zona: una decisione assurda, tanto che quando sei mesi dopo le nostre truppe si sarebbero ripresentate sotto la stessa cittadina avrebbero trovato ad aspettarle ben 10.000 uomini armati fino ai denti e decisissimi a vendere cara la pelle!
Non era ancora stata detta la parola fine, comunque.




Tra il 27 ed il 28 gennaio 1912 un tentativo in grande stile delle truppe arabo-turche di riprendersi Ain Zara sarebbe stato frustrato dalla pronta reazione dei soldati italiani, già preallertati dal nostro Stato Maggiore, giunto a conoscenza dell'imminente attacco: il 6° Aosta, il 40° Bologna ed il 50° Parma, col II° battaglione granatieri ed il battaglione alpino Mondovì e l'aiuto di alcune batterie di artiglieria e diverse sezioni di mitragliatrici, respinsero l'assalto di ben 7000 uomini, di cui solo 500 erano regolari turchi, al prezzo di 3 morti e 15 feriti, tutti militari di truppa. 
Alle 10,00 di mattina del 28 la battaglia era finita. Le perdite del nemico non furono mai rese note, ma le stime parlano di circa 2000 morti e 4000 feriti.
Dopo quest'ultimo scontro l'oasi di Ain Zara fu definitivamente fortificata e collegata a Tripoli con un troncone ferroviario.



Un cannone italiano da 75 spara contro le postazioni turche di Ain Zara

Nel corso degli scavi per costruire le trincee i bersaglieri del XXXIII° battaglione ritrovarono fortunosamente un antico pavimento romano a mosaico, probabilmente risalente all'antica città di Oea, una delle tre principali città di origine punica della costa occidentale libica, con Sabratha e Leptis Magna (l'attuale Lebda) che costituivano appunto la Tripolis (in greco), o Emporia, per indicarne la grande importanza commerciale, cui si contrapponeva sulla costa orientale il gruppo delle cinque città libiche di origine greca, la Pentapolis, cioè Cirene, che ne era il capoluogo, Apollonia (l'attuale Marsa Susa), allora porto di Cirene, Esperide-Berenice (Bengasi), Tauchira-Arsinoe (l'attuale Tocra) e Barca (Al Marj), il cui porto era allora Tolemaide (ora Tolmetta).

Il reperto venne accuratamente rimosso e trasportato in Italia.

Non sarebbe stato il primo, né l'ultimo resto delle antiche vestigia romane e di altre civiltà che gli italiani avrebbero trovato in Libia da quel momento in poi. 




16. IL PRIMO BOMBARDAMENTO AEREO DELLA STORIA

Un cronista dell'epoca, tale Giulio De' Frenzi, pseudonimo del giornalista Luigi Federzoni, futuro ministro fascista degli Interni e Presidente del Senato dal 1929 al 1939, avrebbe scritto il 2 novembre 1911 sul Giornale d'Italia:

"Ormai è una abitudine mattutina, questa dei voli di aeroplani sul cielo di Tripoli. I fragili, rombanti apparecchi, intorno ai quali, durante la notte, vegliano e accudiscono gli specialisti del genio, escono al primo bacio di sole trascinati a braccia fuori dagli improvvisati hangars. Moizo, Piazza, Gavotti e Rossi sono già di bel mattino in tenuta di volo. Ispezionano le ali, i carrelli, il motore".







Proprio nel corso della battaglia su Ain Zara, il giorno prima, il 1° novembre 1911, il sottotenente pilota Marchese Giulio Gavotti (brevettato il 3 dicembre 1910), di Genova, a bordo di un Etrich Taube di produzione austriaca, aveva infatti effettuato il primo "bombardamento" aereo della storia sul campo nemico, sganciando da circa 500 piedi di altezza 
Bomba Cipelli
quattro bombe a mano tipo Cipelli da 2 chili, dotate di spoletta ad impatto con detonatore al fulminato di mercurio (chiamate familiarmente "ballerine" per le caratteristiche appendici di carta poste alla loro base, che servivano ad orientarne la caduta), costruite nel silurificio San Bartolomeo a La Spezia ed appositamente progettate per essere lanciate dall'alto: tre che aveva messo in una cassettina di cuoio rivestita internamente di ovatta e che aveva personalmente inchiodato accanto al seggiolino le lanciò sulle postazioni dell'oasi di Tagiura ed un'altra che teneva addirittura nel taschino del giubbotto direttamente sulle trincee nemiche di Ain Zara!!!







Questa la corrispondenza del famosissimo Luigi Barzini sul Corriere della Sera sempre del 2 novembre 1911:

"Stamane il tenente della brigata specialisti Gavotti, preso il suo astuccio da toilette, vi ha deposto quattro granate. Fissato l'astuccio chiuso con una cinghia al fuselage del suo Etrich, ha messo una bomba in una tasca, in un'altra tasca gli inneschi fulminanti ed in un'altra ancora i tappi. Quindi ha preso il volo verso le 8 dirigendosi sull'oasi Ain-Zara, a circa 8 chilometri a sud est degli avamposti, dove sapeva che si trovava un nucleo di nemici". 


Sempre De Frenzi-Federzoni avrebbe scritto al riguardo:

"I turchi, come si sa, hanno dato ad intendere agli arabi che i nostri aeroplani sono genii alati che Allah manda da Costantinopoli per confortare i difensori della bandiera del profeta. Gli arabi dapprima hanno creduto alla geniale spiritosa invenzione, ma oggi – ci dice Gavotti – non ci crederanno più!"


Come avveniva il "bombardamento" nel 1911, a bordo di un Bleriot biposto: se non si trattasse comunque di strumenti mortali è un'immagine che farebbe quasi tenerezza, paragonandola ai tempi moderni























La Stampa del 3 novembre 1911, cogliendo intelligentemente l'importanza storica di quel momento, uscì con questa prima pagina.







Non fu certamente per merito di questa coraggiosa impresa (ci voleva certo un bel po' di fegato a lanciarsi a bassa quota su quelle macchine fragilissime scatarranti e tenute su con lo sputo sotto il fuoco della fucileria del nemico), per la quale l'intrepido aviatore sarebbe stato premiato con la medaglia d'argento al valore militare, se alla fine il 4 dicembre 1911 Ain Zara venne presa, tuttavia essa resta un passo enorme nella storia della guerra

Giulio Gavotti 
(Genova, 17 ottobre 1882- 
Roma, 6 ottobre 1939)



Gli Alti Comandi capirono subito (non era affatto così scontato) l'importanza di questa novità, anche se per ora ragionevolmente limitata al piano dell'impatto psicologico sulle truppe avversarie, tanto che ben presto altre squadriglie sorsero, una a Bengasi (con un Bleriot, un Farman ed un Asteria)una a Derna ed una anche a Tobruk (su quattro aerei entrambe
guidati da piloti civili volontari, tutti di diverso tipo ma accomunati dal montare il medesimo motore rotativo raffreddato ad aria Gnome, più semplice da curare e meno facile alle avarie dovute al caldissimo clima africano, così da favorire la logistica per l'approvvigionamento delle parti di ricambio). 



Un Etrich Taube nel suo ricovero alla base

Un biplano Farman sul campo di volo di Derna 



Tutti gli uomini della squadriglia basata a Tobruk














Insieme con gli aerei avrebbero avuto un intenso utilizzo anche i palloni frenati da osservazione aerea per i tiri d'artiglieria (draken), come abbiamo visto a proposito della battaglia di Ain Zara, nonché i dirigibili, in Libia a partire dal marzo 1912, anch'essi utilizzati spesso per effettuare bombardamenti.


Due dirigibili italiani bombardano postazioni turche
La guerra di Libia avrebbe così portato ovviamente anche ad una serie di prime volte in campo aeronautico: 
-il primo rilevamento di tiro, da parte del capitano Piazza, il 28 ottobre 1911, a favore della corazzata Sardegna contro le postazioni turche di Ain Zara;
-la prima azione da fuoco contro un aeroplano, il 26 ottobre 1911 durante la battaglia di Henni, contro l'aereo del capitano Riccardo Moizo che ebbe l'ala forata da tre colpi di mitragliatrice;
-la prima volta in cui vennero usati i cannoni in funzione antiaerea, da parte dei turchi, il 15 dicembre 1911, contro l'aereo del sottotenente di vascello Francesco Roberti, fortunatamente senza esito;
-il primo ferito da contraerea, il capitano (e onorevole) Carlo Montù, comandante della squadriglia dei volontari civili, ferito ad una gamba da un colpo di mitragliatrice il 31 gennaio 1912, durante un bombardamento in Cirenaica a Emme Dauer;
-la prima foto aerea, scattata dal capitano Piazza il 23 febbraio 1912: una sola foto, non potendo ovviamente il pilota cambiare la lastra mentre volava;
-il primo volo notturno, effettuato da Piazza e Gavotti il 4 marzo 1912;
-il primo bombardamento notturno, fatto sempre da Piazza e Gavotti l'11 giugno;
-il primo aviatore abbattuto, il sottotenente di cavalleria Piero Manzini, caduto il 25 agosto 1912 durante una missione di ricognizione;
-il primo aviatore fatto prigioniero, il capitano Riccardo Moizo, costretto ad atterrare dietro le linee nemiche il 10 settembre 1912 per un'avaria del motore durante un volo di ricognizione e rilasciato al termine delle ostilità il successivo 11 novembre, dopo aver ricevuto un buon trattamento dai militari turchi. 

Il sottotenente Piero Manzini, primo aviatore abbattuto della storia 

Al riguardo rimando al seguente link: http://www.ilgiornale.it/news/centanni-fa-libia-luso-dellaereo-litalia-cambi-modo.html. 


17. GLI SCONTRI DI BIR TOBRASZANZUR E ZUARA

La lenta penetrazione italiana si sarebbe diretta verso altre oasi ancora più lontane, in varie direzioni, sempre allo scopo di allargare al massimo la zona di occupazione, non sempre con esito positivo.

I bersaglieri fanno quadrato nell'oasi di Bir Tobras

La fallita spedizione di Bir Tobras

Il generale Caneva, sempre più nell'occhio del ciclone dell'opinione pubblica per la lentezza con cui procedevano le operazioni sul campo, in un incontro col Ministro della guerra Paolo Spingardi insistette con la necessità di separare gli arabi dai turchi, favorendo poi tra i primi quelli che dimostravano di volersi sottomettere pacificamente alle armi italiane.

Paolo Spingardi, nella sua divisa di comandante
generale dei carabinieri
Proprio in quest'ottica venne organizzata la grossa spedizione in direzione dell'oasi di Bir Tobras, a 14 chilometri a sud di Ain Zara, ove delle famiglie intere di libici italofili erano state catturate e trattenute in ceppi dalle milizie irregolari arabe alleate dei turchi.
Alle 2,30 della notte del 19 dicembre 1911, una colonna di 1500 uomini, al comando del colonnello Gustavo Fara, composta da due battaglioni dell'11° bersaglieri e da uno di granatieri, si avviò in silenzio verso l'obiettivo, con cinque guide arabe alla testa del reggimento, per sorprendere all'alba nel sonno l'insediamento nemico.
Purtroppo le cose non andarono nel verso giusto: le guide si smarrirono e le mappe in possesso dei nostri militari si rivelarono inesatte, per cui dopo alcune ore di giri a vuoto solo alle 9,00 di mattina le truppe si presentarono davanti all'obiettivo, con l'unico risultato però di essere attaccati da forze numericamente superiori non appena sbucati fuori dalle dune. 
Il violentissimo attacco nemico mise tremendamente a rischio prima l'uno, poi l'altro fianco dello schieramento, costringendo Fara a far intervenire prima l'uno e poi l'altro battaglione dei suoi bersaglieri su entrambi i lati per evitare l'accerchiamento, con una manovra spericolata che però, sia pure solo a tarda notte, ebbe finalmente successo, concedendo ai suoi uomini di sganciarsi e ritornare ad Ain Zara, favoriti dall'abitudine degli arabi di non combattere di notte.
Incredibilmente, Fara, dopo aver salvato ancora una volta con la sua impeccabile condotta sul campo di battaglia i suoi soldati, venne accusato di incompetenza da Pecori Giraldi,  alle cui dipendenze era quella colonna armata, suscitando lo sdegno di Luigi Cadorna, che anzi si fece in quattro affinché il colonnello ottenesse al ritorno in Patria la promozione a maggiore generale, con il premio anche di una medaglia d'oro per i fatti d'arme di Sciarra Sciat e Ain Zara.

Vittorio Camerana

Nel febbraio del 1912 l'aristocratico e spocchioso Generale Pecori Giraldi sarebbe stato pertanto messo a riposo d'autorità per volere di Cadorna, suo diretto superiore (salvo poi essere richiamato all'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale per comandare il VII° corpo d'armata e successivamente la I° armata schierata sugli Altipiani). 
Il suo posto al comando della 1° divisione venne preso dal Tenente Generale Vittorio Camerana

Su Pecori Giraldi, che pure riuscì a finire la sua carriera come Maresciallo d'Italia, l'inserto "Grande Guerra, piccoli generali" del quotidiano Libero uscito la domenica 10 agosto 2014 così si sarebbe espresso: 

"Il generale Guglielmo Pecori Giraldi non frequentava le prime linee. Gli sembravano umide, malsane e frequentate da brutta gente: A villa Clementi, che aveva scelto come sede del suo comando, non si trovava una cartina topografica ma non mancava il bagno in maiolica con una vasca a livello terra dove si accedeva con una scaletta in ottone cromato. Non si sa cosa ci stesse a fare nell'esercito. In Libia era stato battuto dai turchi a Bir Tobras e, in seguito alla sconfitta, congedato di autorità. Lo richiamarono quando scoppiò la prima guerra mondiale e lui rivestì la divisa con l'impegno di non fare assolutamente nulla. Doveva arrivare alla pensione e questo doveva bastare. Non usciva mai dal comando da dove, peraltro, non si azzardava a comandare... "




Oleografia di artista sconosciuto (cm 50 x 40) raffigurante la battaglia di Zanzur

L'attacco all'oasi di Zanzur

Il primo impegno del generale Camerana e della sua 1° divisione fu la predisposizione e la guida dell'attacco all'oasi di Zanzur, nodo strategico importante perché presidiato da una forte concentrazione nemica da cui partivano regolarmente fastidiosissimi attacchi alla capitale, posta a soli 12 chilometri più a est.

Al comando del Generale Frugoni, cui come sappiamo  era affidato l'intero settore tripolino, si mossero per un attacco frontale su quella cittadina ben 14.000 uomini, suddivisi in due colonne:

- la brigata del Maggior Generale Antonio Giardina (6° e 40° fanteria, col supporto di una compagnia della Guardia di Finanza e di due batterie da montagna) si diresse verso il mare;

- la brigata del Maggior Generale Luigi Rainaldi (82° e 84° fanteria, col supporto di tre batterie da campagna) seguì invece la carovaniera che collegava Tripoli alla stessa Zanzur.



Luca Montuori
Insieme a loro erano aggregati forti elementi della brigata del Maggior Generale Luca Montuori (alcuni battaglioni dei reggimenti 50° Parma, 63° Cagliari e 93° Messina fanteria, con la batteria da montagna Zoppi), appartenente alla 3° divisione speciale di De Chaurand, mentre di riserva era posta la brigata di cavalleria al comando del Maggior Generale Edoardo Coardi Marchese di Carpeneto (col reggimento lancieri di Firenze ed un reggimento misto formato dai due squadroni del Lodi e da uno delle Guide), più due battaglioni del 37° fanteria Ravenna, il V° battaglione eritreo, la batteria da montagna Baseggio ed i servizi di retrovia.
Dal rapporto finale del generale Frugoni sappiamo che le due colonne italiane comprendevano un totale di 19 battaglioni di fanteria, 8 squadroni di cavalleria, una compagnia della Guardia di finanza, una del genio zappatori, 4 batterie da montagna, 3 scudate da campagna, 2 batterie da 75 A delle ridotte di Gargamesh, una da 149 ed una sezione mortai da 210 e potevano contare su 13494 fucili, 12 mitragliatrici e ben 50 cannoni in totale. 
Oltre a questo godevano dell'appoggio sia dal mare,  con l'incrociatore corazzato Carlo Alberto, l'incrociatore ausiliario Città di Siracusa e la torpediniera Ardea, sia dal cielo,  con gli aerei della prima squadriglia di Tripoli.
Tutto questo imponente schieramento di forze era atteso però da oltre 14.000 uomini decisi a contrastarle in ogni modo possibile ed impossibile, appartenenti alle mehalle di Zanzur, Suani Ben Adem, Fonduk Ben Gashir e Bir Tobras.


Incrociatore corazzato Carlo Alberto
Alle 5,00 di mattina la brigata Giardina venne a contatto col nemico e dopo aver conquistato più serie di trinceramenti con ripetuti attacchi alla baionetta si impossessò dopo due ore e mezza di combattimento dell'importante marabutto di Sidi Abd el Gili.
Contemporaneamente la brigata Rainaldi, con l'aiuto di alcuni nuclei del 6° fanteria della Giardina, occupava anch'essa dopo un intenso assalto alla baionetta una lunghissima trincea fortificata avversaria continuamente battuta dalla nostra artiglieria e posta ad ovest del marabutto.


Batterie da 149/23 presso Tripoli



Mentre tutto questo accadeva, altre truppe del nemico venute da sud e valutabili in alcune migliaia di uomini, con l'apporto di forti reparti a cavallo, attaccavano in forze le nostre posizioni di partenza di Gargaresh e Bu Meliana, prendendo alle spalle e sul fianco la brigata Montuori e costringendo a far intervenire le nostre riserve, fino ad allora tenute prudenzialmente a riposo, ed in particolare l'artiglieria, che col tiro preciso dei suoi pezzi da 75 e da 149 costrinse alla fuga il nemico verso mezzogiorno.




I cavalleggeri del Lodi in esplorazione nell'oasi in una raffigurazione di Alberto Parducci





Tuttavia restava sotto pressione ed in grave difficoltà il V° battaglione eritreo, sotto pesante attacco da ormai parecchie ore: fu allora che entrò in azione la nostra cavalleria, 
che con una serie di cariche avvolgenti a ondate successive e da più direzioni finì col causare lo sbandamento del nemico, intorno alle 15,00 circa,  poi trasformatosi in rotta completa alle 17,00 dopo il nuovo intervento della brigata Rainaldi, lanciatasi all'inseguimento delle disarticolate milizie arabe.

I  nostri cavalleggeri, costretti da ore a combattere da appiedati fianco a fianco degli ascari, gli uni e gli altri incitandosi a vicenda sotto la comune insegna tricolore, poterono così ritornare finalmente ai loro adorati cavalli, lasciati un chilometro più indietro.
Mentre la brigata Rainaldi e le altre truppe ritornavano ai loro alloggiamenti, la brigata Giardina provvedette all'occupazione piena ed alla messa in sicurezza dell'oasi, rinvenendo 1130 morti tra i nemici, un numero comunque sicuramente molto inferiore a quello effettivo, così come rilevante dovette essere quello dei feriti, tutti però trasportati via, forse ad Azizia.
Da parte nostra ci furono invece 39 morti (un ufficiale, 28 uomini di truppa e 10 ascari) e 291 feriti (13 ufficiali, 203 soldati e 75 ascari).




La presa di Zuara

Al fine di interdire una volta per tutte il contrabbando di guerra proveniente dalle zone di confine e dal mare, fu decisa un'azione di forza su tutta la fascia costiera libica ai confini con la Tunisia.
Il 10 aprile la cittadina di Zuara venne bombardata dal mare dagli incrociatori corazzati Carlo Alberto e Marco Polo, da quelli ausiliari Città di Siracusa e Città di Catania, dal cacciatorpediniere Fulmine e dalla torpediniera Alcione, di scorta ai piroscafi Sannio, Hercules e Toscana impegnati in un finto sbarco simulato a scopo diversivo su quella costa: il vero scopo però era lo sbarco a partire dall'11 aprile nella penisola di Ras el Machbez della neo costituita 5° divisione speciale al comando del Tenente Generale Vincenzo Garioni (11° bersaglieri, 60° fanteria Calabria, I° battaglione granatieri, XXVIII° battaglione bersaglieri, VI° e VII° battaglione eritreo, tre batterie di artiglieria ed una compagnia del genio), operazione che riuscì pienamente









Vincenzo Garioni

Dopo aver stabilito una salda testa di ponte gli italiani, impegnati in accaniti combattimenti, il giorno dopo occuparono il forte di Farwa per poi successivamente puntare  su quello di Bu Kamech: qui il 3 maggio un battaglione eritreo ed uno del 60° fanteria sconfissero ben 3000 beduini facendo un'autentica strage e catturando molte armi, munizioni e viveri, mentre una settimana dopo, il 10 maggio, lo stesso battaglione eritreo riusciva ad intercettare un'enorme carovana nemica di 4000 dromedari che da Ben Gardane si dirigeva verso l'interno, catturandola quasi per intero. Infine, il 13 maggio, una colonna mista di ascari, fanti e bersaglieri riuscì ad arrivare sino al confine tunisino ed a sostituire il cartello indicatore TURCHIA con quello ITALIA.

Alberto Cavaciocchi
A quel punto le truppe di Garioni, divise in due colonne, la colonna del generale Lequio uscita dal campo trincerato di Machbez (il I° battaglione granatieri, il XXVIII° battaglione bersaglieri, una batteria scudata ed una compagnia del genio) e la colonna del Tenente Generale Alberto Cavaciocchi uscita da Bu Kamech (il 60° fanteria, l'11° bersaglieri, il VI° ed il VII° battaglione eritreo, una compagnia ciclisti, un reparto di meharisti, una batteria scudata, una da 149 e due da montagna), attaccarono forti raggruppamenti nemici postisi a difesa dell'intero settore tra le alture di Sidi Said ed il mare, conquistando definitivamente la cittadina il 27 giugno.


Lo sceicco di Zuara alla testa delle truppe arabo-turche

Da qui  partirono all'inseguimento del nemico, ripiegato su Sidi Alì, che venne occupata il 14 luglio.
A quel punto la strada per la martoriata località di Zuara, capitale di quel distretto, era ormai spianata.
Giulio Cesare Tassoni
L'oasi, presa di fronte dalle truppe di Garioni e attaccata dal mare dai reparti della brigata appena sbarcata da Siracusa (34° Livorno e 57° Abruzzi con un battaglione alpino ed alcune batterie di artiglieria)al comando del reggiano Maggiore Generale Giulio Cesare Tassoni, nato e formatosi militarmente nel Ducato di Modena e Reggio e di lì a qualche mese destinato al comando della 4° divisione speciale di Derna, venne così finalmente occupata senza incontrare resistenza il 6 agosto 1912.
In tutte queste operazioni gli italiani avrebbero avuto in totale 41 morti (un ufficiale e 40 graduati) e 198 feriti (2 gli ufficiali), mentre dall'altra parte si rinvennero sul terreno oltre 700 morti ed innumerevoli feriti.







18. LA PRESA DI MISURATA

Per stroncare in maniera radicale il contrabbando via mare anche in Cirenaica, come si era fatto verso Zanzur, venne organizzata sin dal dicembre 1911 una imponente spedizione offensiva verso la città portuale di Misurata.



Un episodio della presa di Misurata raccontato dalla Domenica del Corriere
del 21 luglio 1912: gli alpini fanno quadrato sotto gli assalti nemici
Più volte posticipata per le avverse condizioni del mare, l'azione fu finalmente possibile all'inizio dell'estate, quando sette battaglioni di fanteria, due di alpini, uno squadrone di cavalleria, una compagnia del 
V° battaglione eritreo e cinque batterie di artiglieria, coi relativi servizi, tutti appartenenti alla 1° divisione speciale e tratti dai presidi di Tripoli, Homs, Bengasi, Derna e Rodi, un totale di 9000 uomini al comando del Tenente Generale Vittorio Camerana, sbarcarono  a sorpresa il 16 giugno tra Ras Zarrugh e la punta di Sidi Bu Sceifa.


Il tricolore sventola su Misurata (La Tribuna Illustrata del 21 luglio 1912)





Dopo aver rapidamente occupato il villaggio di Gasr Ahmed, non senza qualche scontro a fuoco col nemico, l'intero contingente si lanciò alla conquista definitiva della città costiera il successivo 8 luglio, prendendola quasi senza resistenza alcuna, col fronte turco costretto in tal modo  a retrocedere fino all'oasi di Gheran, a sua volta però definitivamente presa da aliquote del 50° e del 63° fanteria il 20 luglio 1912.


Il 52° Fanteria "Alpi",  erede dei garibaldini Cacciatori delle Alpi, impegnato nel terribile scontro sull'altura di Sidi Bilal, il 20 settembre 1912,  nell'oasi di Zanzur

19. LA BATTAGLIA DI SIDI BILAL 

La situazione sul terreno restò sempre estremamente fluida, anche se con le mehalle beduine ormai costrette permanentemente a ripiegare; tuttavia sino alle fasi finali della guerra non ci si sarebbe mai potuti fidare, come dimostra anche il terribile scontro per la sopravvivenza sull'altura di Sidi Bilal, situata a nord ovest di Zanzur, il 20 settembre 1912.






Qui il 52° reggimento fanteria Alpi, erede dei gloriosi Cacciatori delle Alpi nati con Garibaldi, inviato da Zanzur per andare a presidiare il nodo carovaniere a sud, sostenne un terrificante scontro contro preponderanti forze nemiche di irregolari ribelli libici, di consistenza probabilmente almeno tripla, che fruttò alla bandiera di quel reparto la medaglia d'oro al valor militare.
I cacciatori, respinto bravamente un primo assalto nemico, col concorso fondamentale di un gruppo di artiglieria da montagna e di un battaglione del 23° fanteria Como, vennero costretti a ripiegare dall'incauto avanzamento dei fanti, spintisi troppo avanti, che li espose al contrattacco nemico.
Nonostante l'arretramento, ricomposta una linea di difesa, gli uomini del 52° si slanciarono in avanti, in un terribile assalto all'arma bianca contro le mehalle arabe che si credevano ormai vittoriose, ed al termine di sette lunghissime ore di combattimento ebbero alla fine la meglio, conseguendo una vittoria totale, con pesanti perdite tra le fila nemiche, stimate in oltre 600 mujahideen morti, ma al duro prezzo totale tra le fila italiane di 41 tra morti e dispersi e 110 feriti, ma per il solo 52° di 5 ufficiali e 28 tra sottufficiali e soldati caduti, un disperso e ben 91 feriti.



Nello stesso scontro anche i due squadroni cavalleggeri del Lodi, impegnati per tutta la giornata in estese azioni di ricognizione insieme con lo squadrone a cavallo Firenze, si sarebbero coperti di gloria, perdendo il loro comandante, il pluridecorato maggiore Giuseppe De Dominicis, di Catania, veterano di mille campagne, colpito da una fucilata alla fronte dopo essersi spinto sull'altura fino ai margini dell'oasi nel pieno del combattimento per verificare di persona la situazione e dare l'esempio ai suoi soldati.

Giuseppe De Dominicis
L'intero mezzo reggimento del Lodi, scioccato dalla morte del comandante (cui sarebbe stata riconosciuta la medaglia d'argento alla memoria, l'ultima delle sue decorazioni), dette segni evidenti di sbandamento e sarebbe stato travolto dall'impeto del rinvigorito avversario, ritornato sotto, senza l'energico operato del capitano Edoardo Pirandello, che ne ricompattò le fila e, a sciabola sguainata, condusse alla carica finale i suoi cavalleggeri, travolgendo il nemico fino alla vittoria finale, e per questo sarebbe stato premiato con la medaglia di bronzo al valor militare.
Edoardo Pirandello








La battaglia di Sidi Bilal sarebbe stata l'ultimo episodio d'armi significativo della guerra.





20. IL FRONTE CIRENAICO

Analoga, forse addirittura peggiore, la situazione che si presentava in Cirenaica, dove le nostre truppe applicarono un codice di comportamento bellico se possibile ancor più conservativo di quello usato in Tripolitania, costruendo un intricato sistema di ridotte, camminamenti, fortificazioni tutt'attorno alle città di Derna, Tobruk e Bengasi che le resero praticamente inespugnabili ai numerosi attacchi del nemico, e dalle quali solo raramente si lanciavano in puntate offensive verso l'interno, più che altro a titolo dimostrativo e di monito verso le popolazioni locali ormai in gran maggioranza favorevoli ai turchi.
Si può comunque notare come gli attacchi contro gli italiani iniziassero più o meno intorno a fine ottobre-inizio novembre del 1911, in contemporanea con l'inizio delle controffensive turche verso la cintura delle oasi di Tripoli e sulle alture di Homs, segno evidente di una qual certa programmazione da parte dei comandi ottomani.


Un fante turco di sentinella su un costone in Cirenaica


Nel settore di Tobruk

A Tobruk, passata la primissima fase dello sbarco italiano e ritiratisi nelle oasi circostanti le truppe arabo-turche, all'improvviso il normale e pacifico andamento delle cose, solo ogni tanto interrotto da qualche isolato scambio di fucilerie, venne interrotto il successivo 9 novembre 1911 da un vigoroso contrattacco turco ordinato dal capitano Kemal e condotto all'alba da 120 volontari libici con una ventina di soldati regolari turchi al comando di un tenente: questi colsero di sorpresa i 200 bersaglieri attestati sulla prospiciente collina di Nadura, nella valle di Nureyra, ed impegnati a scavare trincee e costruire fortificazioni, costringendoli alla fuga disordinata anche per il mancato appoggio dell'artiglieria, alla fine di due ore di combattimento, con la perdita di 3 mitragliatrici e molte munizioni.
Non ottenne invece analogo risultato un nuovo blitz arabo-turco il 22 novembre contro una compagnia del genio ed una di fanti del 20° Brescia impegnati anch'esse a scavare trincee: l'assalto venne infatti respinto anche grazie all'intervento delle artiglierie dell'incrociatore corazzato Etna.
Incrociatore corazzato di 2° classe Etna
L'intervento delle truppe di rinforzo non avrebbe consentito la riconquista immediata dell'altura di Nadura, che si sarebbe ottenuta soltanto ai primi del 1912, al prezzo di circa 200 morti in totale tra le nostre fila, tuttavia le continue incursioni delle mehalle arabe fino a luglio 1912 avrebbero indotto i comandi italiani a battere con l'artiglieria le postazioni nemiche di Mdaur, causando loro moltissime perdite e riducendole finalmente al silenzio.



Gli italiani attorno ad una mitragliatrice pesante Maxim-Vickers


Nel settore di Derna

Una breve ma intensissima offensiva il 24 novembre 1911 contro le nostre truppe in ricognizione nello uadi che scorreva nella città, nei pressi dell'acquedotto a monte di Derna, avrebbe costretto i nostri genieri alla costruzione di due imponenti ridotte fortificate lungo le pareti di quel vallone, denominate Lombardia Piemonte.







Luigi Capello
Nel corso dell'intero conflitto vi sarebbero stati più attacchi contro le due fortificazioni, condotti anche da migliaia di uomini in più ondate alla volta e con un forte supporto dell'artiglieria, tutti coordinati da Enver Bey, spostatosi proprio in quel settore, affidato al comando del Maggior Generale Luigi Capello, passato in seguito tristemente alla storia come uno dei maggiori responsabili della disfatta di Caporetto, pur essendo per molti commentatori ed esperti uno dei migliori generali italiani in assoluto.
Furono sempre respinti, ma costrinsero i nostri comandi ad inviare notevoli rinforzi di truppe, praticamente pari alla consistenza di una divisione, destinati a diventare in breve tempo la già citata 4° divisione speciale di Derna del Maggiore Generale Ezio Reisoli e posti temporaneamente ai comandi di un colonnello cinquantatreenne di Finale Emilia (MO), il Conte Ferruccio Trombi, già comandante del Regio Corpo Truppe Coloniali del Benadir in Somalia ed ora, dopo un breve passaggio al comando del 22° Cremona al posto del parigrado Zuppelli, divenuto capo di Stato Maggiore di Frugoni, passato alla testa del 34° Livorno: ne facevano parte, tra gli altri, oltre allo stesso 34° fanteria, i battaglioni alpini Ivrea e Verona, alcuni battaglioni di ascari, una sezione mobilitata di Regi Carabinieri tratta dalla Legione di Napoli e alcune batterie da montagna cammellate.

Gli alpini del battaglione Edolo osservano il triste spettacolo dei ribelli caduti
all'attacco della ridotta Lombardia il 3 marzo 1912





Il combattimento di Bu Msafer

Il combattimento più sanguinoso avvenne il 3 marzo 1912, nei pressi della ridotta Lombardia, sulla testa del Bu Msafer, quando sin dal primo mattino un battaglione del 35° fanteria Pistoia, nel corso della giornata aiutato dai sopraggiunti rinforzi (l'altro battaglione del 35°, uno del 26° Bergamo, il battaglione alpino Edolo con elementi del Verona e dell'Ivrea e una batteria da montagna), fu costretto a difendersi alla baionetta contro forze molto superiori, valutate addirittura in 10.000 uomini, giunte di sorpresa sotto le linee italiane, poi definitivamente sgominate nel pomeriggio con l'arrivo del 20° fanteria Brescia, un battaglione del 40° Bologna e l'altro battaglione alpino Saluzzo.
Restarono sul terreno 65 morti (8 ufficiali) e 177 feriti tra gli italiani (13 ufficiali), mentre tra i ribelli arabi si stimarono circa 800 tra morti e feriti. 

L'attacco su Gars Ras El Leben

Dopo mesi di attenta condotta difensiva sotto il continuo assedio delle fanterie e delle artiglierie turche, improvvisamente gli italiani decisero di passare all'offensiva, quasi già a ridosso della stipula del trattato di pace, anche allo scopo di sciogliere gli ultimi dubbi turchi, nati a seguito della caduta del governo ottomano il 24 luglio, che aveva costretto alla nomina di due nuovi plenipotenziari per la Turchia, cui si aggiungeva l'orgoglio nazionalistico dei Giovani Turchi che non accettavano la resa senza che vi fosse una piena vittoria italiana in Tripolitania ed in Cirenaica.

Tommaso Salsa
Così tra il 14 ed il 17 settembre 1912 il generale Capello decise improvvisamente di lanciare un attacco generale scagliando una colonna di fanteria al suo diretto comando sulla stessa Bu Msafer, da dove le artiglierie turche tiravano su Derna, ed altre due, la brigata speciale da montagna al comando del Maggiore Generale Tommaso Salsa (battaglioni alpini Mondovì, Edolo, Ivrea, Saluzzo, Fenestrelle, I° e VII° battaglione eritreo e due batterie da montagna) e quella diretta dal Maggiore Generale Francesco Del Buono, rispettivamente sulla località detta di Casa Aronne con le alture circostanti e su Gars Ras El Leben, a 20 chilometri dalla città: quest'ultima colonna, contrattaccata dalle truppe di Enver Bey nella mattinata del 17, resse l'impatto del nemico fino all'arrivo della brigata di Salsa, che con un'ardita manovra di aggiramento riuscì ad accerchiare ed annientare le truppe avversarie, costringendole alla resa lasciando sul campo circa mezzo migliaio tra morti e feriti, al prezzo di 61 morti (4 ufficiali) e 113 feriti (9 ufficiali) tra gli italiani.





L'azione su Suani Abd el Rami (Bengasi)

L'azione del 12 marzo 1912 verso Suani Abd el Rami, detta anche dagli Italiani l'Oasi delle due palme, posta a circa 8 chilometri da Bengasi, fu decisa dal generale Briccola dopo che il 57° fanteria Abruzzi aveva difeso ancora una volta la ridotta del Foyat dagli attacchi nemici, con l'intento strategico di far finire una volta per tutte le ripetute azioni offensive fatte dagli irregolari arabi di Benina contro Bengasi.
Al comando del generale Ameglio, sei battaglioni di fanteria organizzati in due reggimenti, appartenenti alla IV° (due del 4° Piemonte ed uno del 63° Cagliari) ed alla VII° brigata (due battaglioni del 57° ed uno del 79° Roma), un gruppo di artiglieria da campagna, uno da montagna ed un reggimento di cavalleggeri (due squadroni del Lucca e due del Piacenza), oltre a uno squadrone indigeno di savari, con un ulteriore battaglione di fanteria posto di riserva generale (il III° del 57° fanteria), si lanciarono dopo un intenso bombardamento d'artiglieria contro le posizioni nemiche stringendole in una tenaglia da nord e sud per chiuderle in una sacca.
Dopo quattro ore di combattimenti l'ardore delle truppe ribelli fu messo praticamente a tacere per sempre con la perdita di un migliaio di uomini (750 contati sul campo) al prezzo di 37 nostri caduti (di cui 5 ufficiali) e 142 feriti (12 ufficiali).

Di scorta ai prigionieri


21. LA PROCLAMAZIONE DELL'ANNESSIONE

Con un significato più politico che effettivo il Governo italiano, esasperato dalla lentezza dei progressi sul campo di battaglia, era giunto a proclamare ufficialmente sin dal 5 novembre 1911 l'annessione della Libia, proprio lo stesso giorno in cui da Napoli partiva la seconda e definitiva ondata del generale De Chaurand.

Questo il testo del decreto firmato dal Re:

"Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del ministro degli Esteri; sentito il Consiglio dei Ministri; visto l'articolo 5 dello Statuto fondamentale del Regno abbiamo decretato e decretiamo: La Tripolitania e la Cirenaica sono poste sotto la sovranità piena ed intera del Regno d'Italia. Una legge determinerà le norme definitive per l'amministrazione di quelle regioni. Affinché tale legge non sarà promulgata si provvederà con decreti reali. Il presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge".

Questa mossa a sorpresa del nostro governo, però, si tradusse in un vero e proprio errore di comunicazione, come si direbbe ora, in quanto finì con l'indispettire ulteriormente le autorità turche, irrigidendole ancor di più nella volontà di accettare proposte di pace e rafforzando al contempo il movimento rivoluzionario nazionalista dei Giovani Turchi, che non poteva ovviamente mostrarsi debole e remissivo di fronte ad un'iniziativa unilaterale come quella.

Giuseppe Marcora
Quando quasi quattro mesi dopo, il 23 febbraio 1912, il Parlamento italiano venne finalmente riaperto, il presidente della Camera, l'onorevole Giuseppe Marcora, pronunciò un applauditissimo discorso patriottico, subito seguito dagli infiammati interventi dell'onorevole Pietro Lacava e dei ministri della guerra, Paolo Spingardi, e della marina, Pasquale Leonardi Cattolica
Pasquale Leonardi Cattolica
Venne approvato all'unanimità un ordine del giorno così concepito:







"La Camera, con animo riconoscente ed orgoglioso, manda un saluto ed un plauso all'Esercito e alla Marina che, segnalandosi nel mondo, mantengono alto l'onore d'Italia!".

Il disegno di legge, di un solo articolo, venne preceduto da una lunga relazione introduttiva sulle motivazioni dell'intervento, in cui tra le altre cose si leggeva testualmente:

"Noi non saremmo ricorsi all'estremo mezzo di una guerra, se ogni altra soluzione non fosse stata resa impossibile, se ogni forma di attività italiana in Libia non avesse incontrato da parte del Governo ottomano una pertinace e sistematica opposizione, talora dissimulata, talora aperta, la quale divenne ancor più intensa e spesso provocante dopo l'instaurazione del regime costituzionale in Turchia, che aveva in principio destato tante speranze e tante simpatie". 

Il provvedimento venne esaminato da una commissione di 21 membri che il giorno dopo ne relazionò all'assemblea per bocca dell'onorevole Ferdinando Martini, futuro ministro delle colonie e già governatore dell'Eritrea.
Ferdinando Martini

Pietro Lacava
Enrico Ferri
Pur essendosi dichiarato il gruppo socialista compattamente contrario, tra gli intervenuti si espresse pubblicamente a favore anche il deputato socialista Enrico Ferriallievo di Cesare Lombroso, docente di diritto penale, ispiratore del codice penale argentino del 1921 nonché affermato criminologo, con queste parole:



"Osservatore dei fatti sociali, non posso dimenticare la legge storica per cui una nazione, ottenuto il culmine della pienezza della sua vita, passa inevitabilmente per la fase dell'espansione coloniale. E questo non poteva non essere il Destino d'Italia!(...) Le speciali condizioni delle classi lavoratrici meridionali, il cui sviluppo è un problema decisivo della nostra vita economica nazionale, imponevano questa necessità (...)".

Alla fine prima del voto chiuse i lavori lo stesso presidente del consiglio Giovanni Giolitti, che in apertura aveva dato conto della risposta di Caneva (applauditissima) all'ordine del giorno votato dalla Camera ventiquattro ore prima, ed infiammò l'intera aula con un discorso molto apprezzato, in cui, nel premettere di essere "entrato nel concetto della necessità dell'impresa non per forza d'entusiasmo, ma con freddo ragionamento", affermò che il provvedimento veniva preso "per togliere qualunque illusione, per determinare qual è la meta cui il paese a qualunque costo vuole giungere, in modo che amici, alleati, avversari sappiano qual è il punto oltre il quale l'Italia non potrà andare nelle sue concessioni" (v. QUI).
Filippo Turati
Il disegno di legge venne alla fine approvato con 431 voti favorevoli, 38 contrari ed un astenuto: 13 deputati socialisti votarono a favore, con gran dispetto del contrarissimo Filippo Turati, per il quale ormai la scissione diventava inevitabile.
Al Senato, il giorno dopo, il disegno di legge venne approvato all'unanimità con 202 voti su 202.








22. LA GUERRA SUL MARE

L'azione iniziale su Prevesa dei nostri cacciatorpediniere e soprattutto il bombardamento contro costa del cacciatorpediniere Artigliere sul porto di San Giovanni di Medua (oggi Shengjin, nel nord dell'Albania) del 5 ottobre 1911 avevano molto indispettito l'Austria-Ungheria, pure in quel momento formalmente nostra alleata, perché svoltasi veramente ai limiti delle acque territoriali austriache, tanto che nel corso di alcune nostre incursioni sulle coste albanesi al confine le navi italiane erano state fatte oggetto anche di un preciso fuoco di controbatteria da parte delle stesse artiglierie costiere asburgiche e si era deciso da parte di Vienna l'invio in zona di alcune grandi unità della flotta: questo aveva sin da subito suggerito alle autorità politiche e militari italiane di concentrare gli sforzi della Regia Marina al di sotto del Canale di Otranto, soprattutto su input diretto dell'allora Ministro della Marina, Pasquale Leonardi Cattolica, per evitare pericolosissime frizioni in quell'area balcanica in perenne ebollizione, tanto che tutte le più influenti cancellerie europee avevano cominciato a fare pressioni sui due contendenti perché si addivenisse il più presto possibile ad una composizione pacifica della disputa.
Ecco perché sin dall'inizio lo sforzo della nostra marina fu improntato più che altro ad un (meritevolissimo) ruolo servente delle operazioni di terra, sia nella spola da e per le opposte coste del Mediterraneo per l'imbarco e lo sbarco dei nostri soldati, anche approntando come abbiamo visto propri contingenti soprattutto nelle primissime fasi del conflitto, sia nel ferreo blocco navale nel Mar Mediterraneo Orientale e nel Mar Rosso.
Non mancarono però, soprattutto nel Mediterraneo Orientale, nel Mar Egeo e nello stesso Mar Rosso numerose azioni dimostrative, spesso concepite appositamente con l'intenzione di provocare una battaglia decisiva che, nelle intenzioni italiane, doveva portare al completo annientamento dell'avversario, anche se  la flotta turca non accettò mai lo scontro frontale, nella consapevolezza di essere votata in quel caso al massacro.
Nel Mar Rosso, ormai acquisito il totale dominio su quelle acque, l'azione offensiva delle nostre unità fu dettata soprattutto dall'intento di appoggiare le truppe nostre alleate dello sceicco Asir Said Idris, Emiro dell'Assir, che combatteva i turchi in Arabia guidati da Izzet Pascià, col bombardamento di fortificazioni ed accampamenti nemici ed il blocco di vari porti d'attracco sulla penisola arabica.


L'affondamento della cannoniera Bafra nel corso della battaglia navale di Kunfida





La battaglia di Kunfida

Proprio nel corso di una di queste incursioni, il bombardamento contro costa delle guarnigioni di Djabana, Medi, Kunluda e Loheia da parte degli arieti torpediniere Calabria e Puglia (reduce quest'ultimo dall'affondamento di una torpediniera il 5 novembre 1911 davanti alle coste di Aqaba e dalla cattura il 22 dicembre successivo di un piroscafo turco camuffato da nave ospedale, il Kaiseride, probabilmente usato per trasportare uomini ed armi in Libia), il 7 gennaio 1912 avvenne intorno alle acque di Kunfida uno scontro molto acceso tra sette cannoniere nemiche (AjutahOrdonCostamuniRefakieMokaBafraQuenkeche) e tre grosse nostre unità di scorta a Calabria e Puglia.

La battaglia di Kunfida nella Domenica del Corriere

Le coraggiose piccole torpediniere turche, uscite in mare aperto contro le due grosse unità italiane attaccanti, aprirono il fuoco da oltre 6000 metri su di loro con l'appoggio delle batterie turche di terra ma furono affrontate dall'ariete torpediniere Piemonte e dai cacciatorpediniere Artigliere e Garibaldinosotto il comando del capitano di vascello Osvaldo Paladini.

Osvaldo Paladini
Ripetutamente colpite dal preciso fuoco italiano, le sette navi ottomane vennero costrette a spiaggiarsi e poi distrutte a cannonate dopo tre ore e mezzo di frenetico combattimento; subito dopo le unità italiane puntavano anche il piroscafo armato Shipka (ex francese Fauvette), costringendolo ad incagliarsi nei pressi di Kunfida: lestamente requisito dalla nostra marina, il piroscafo ebbe un nuovo nome, proprio quello di tale località.
Paladini sarebbe stato premiato per quest'azione con le onorificenze di Ufficiale della Corona e di Cavaliere dell'Ordine di Savoia perché "diresse e coordinò la ricerca di cannoniere nemiche in località irte di difficoltà idrografiche, predispose e condusse l'azione con prontezza e perfetti criteri militari".

A quel punto si può dire che ogni velleità ostile nemica fosse stata ormai azzerata, e che il Mar Rosso fosse ormai diventato un mare interno italiano: da qui gli entusiasmi della nostra stampa nazionale, al di là dell'oggettiva rilevanza di quello scontro, in sé abbastanza modesta, esemplificata dalle famose copertine di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere, rivista al cui interno venne pubblicata la foto del comandante Paladini che vedete qui.

L'incursione sul porto di Beirut





Ma forse ancora più importante dell'azione di Kunfida sarebbe stata l'incursione effettuata dai nostri incrociatori sul porto di Beirut, poco meno di un mese e mezzo dopo, il 24 febbraio 1912, proprio lo stesso giorno in cui la Camera approvava il disegno di legge per l'annessione di Tripolitania e Cirenaica.
Mentre l'incrociatore ausiliario Duca di Genova, al comando del capitano di fregata Luigi Arcangeli, interrompeva la linea telegrafica a nord della città, e l'incrociatore corazzato Francesco Ferruccio, al comando del capitano di vascello Michelangelo Leonardi, si posizionava al largo del molo foraneo incrociando sulla zona a lento moto per precludere ogni via di fuga alle navi nemiche presenti in rada, l'incrociatore corazzato gemello Giuseppe Garibaldi, al comando del capitano di vascello Mattia Giavotto, con l'insegna di comandante della 2° divisione della 2° squadra navale,  si portava poco innanzi all'ingresso del porto per intimarne la resa. 
Mattia Giavotto
Non avendo ottenuto risposta, allo scadere dell'ultimatum, alle 9,00 di mattina, il Garibaldi entrava a lento moto nella baia per individuare gli obiettivi a vista e, identificata la vecchia cannoniera corazzata Avnillah da 2400 tonnellate di stazza, faceva fuoco su di essa con tutti i suoi grossi calibri, finendola poi con due siluri dopo trascorsi solo pochi minuti, per poi colpire e affondare a cannonate anche la torpediniera Angora (vedi foto sotto).



Finita quella che si era rivelata un'autentica esecuzione, le tre navi eseguirono una lunga ricognizione a lento moto delle acque libanesi, per poi effettuare il giorno dopo una ricognizione della rada di Mersin (costa meridionale della Turchia) che avrebbero trovato assolutamente vuota di navi da guerra.












Era stato psicologicamente un nuovo colpo durissimo per l'orgogliosa Turchia, ma ancora non sufficiente, anche se tutte le cancellerie europee, in particolare quella inglese, allarmata che un possibile sommovimento religioso potesse finire con l'estendersi anche ai suoi possedimenti indiani, cercarono nuovamente di indurre le due Potenze in guerra alla pace, ma senza risultato: le condizioni poste dall'Italia in un memoriale del 15 marzo dal ministro Paternò inviato alle altre Potenze in risposta ad una loro formale richiesta di cinque giorni prima (il riconoscimento della Libia italiana da parte degli altri Stati ed il ritiro delle truppe nemiche da Tripolitania e Cirenaica in cambio dell'impegno italiano a rispettare l'autorità religiosa del califfo in Libia e più in generale gli usi e costumi religiosi, a non punire chi si fosse macchiato di atti ostili dopo il decreto di annessione, a garantire i titoli del debito pubblico turco per la relativa quota libica, a riscattare i beni turchi in Libia, a revocare gli aumenti dei dazi sui prodotti turchi importati ed a garantire insieme con le altre Potenze i confini della Turchia europea) vennero rifiutate dopo pochissimi giorni dalla Sublime Porta, che già il 4 marzo aveva ribadito di non voler affatto rinunciare alla sua sovranità sulla Libia, come "assolutamente inaccettabili".
Ma ormai era ben chiaro al nostro Ammiragliato che con il conseguito dominio su tutti i mari delle nostre unità bisognava dare la spallata finale: sin dal 7 marzo una nota del governo aveva infatti comunicato che l'Italia si sarebbe attenuta solo all'impegno preso verso l'Austria di non intervenire contro le coste nemiche adriatiche e ioniche, lasciandosi campo libero sul resto.

23. LA CONQUISTA DEL DODECANESO

A partire dal marzo 1912, quindi, con la situazione sul fronte terrestre libico ancora pericolosamente sull'altalena  più o meno in coincidenza con la ratifica del terzo trattato della Triplice Alleanza Italia-Austria-Germania, la cui firma premeva assai al Kaiser Guglielmo II, convincemmo quest'ultimo a rendere più malleabile Vienna sulla nostra intenzione di effettuare un'azione coordinata della nostra flotta dell'Egeo con le truppe da sbarco dell'esercito in direzione degli arcipelaghi delle Sporadi meridionali e soprattutto del Dodecaneso, presidiate da forti guarnigioni però invise alla locale popolazione maggioritaria di origine greca, che le considerava da sempre come truppe occupanti, e sufficientemente lontani dal vivo dei Balcani per poter essere attaccati senza che le Potenze europee avessero a lamentarsene.
In realtà non sarebbe stato propriamente così, l'Austria ancora una volta dimostrò comunque parecchia insofferenza, così come Inghilterra e Francia, toccate nei loro interessi coloniali dalle azioni rispettivamente nel Mar Rosso e davanti al Libano, tanto che tutte e tre queste Potenze, ma anche la Germania, da tempo in rapporti amichevoli con la Sublime Porta, decisero di non opporsi all'azione italiana purché non portasse all'occupazione di altre isole turche dell'Egeo centrale ed avesse soprattutto un carattere di "temporaneità".







Nonostante la difficoltà di tutte queste acrobazie diplomatiche e l'aperta contrarietà dei capi di stato maggiore di marina, l'Ammiraglio Carlo Rocca Rey, ed esercito, il Generale Alberto Pollio, sulla reale utilità di una simile azione in connessione anche alla sua evidente difficoltà tecnica, la necessità di dare uno strappo all'inerzia della guerra aveva ormai convinto il governo a dare il via al progetto.
La vicinanza di tali isole alle coste turche e la necessità di mettere fine al contrabbando di armi che attraverso di esse riuscivano sia pure con difficoltà ad arrivare alle truppe turche in Libia rendevano questi arcipelaghi un obiettivo assai pagante dal punto di vista militare e politico: la loro caduta poteva accelerare la fine della guerra.

Le fasi preliminari dell'azione

L'azione, studiata nei minimi particolari dai due ammiragli Thaon di Revel e Presbitero, fu obiettivamente un grande successo ed entrò nel vivo dopo che nella notte tra il 17 ed il 18 aprile erano stati tagliati i cavi telegrafici che univano Imbro e Lemno al continente asiatico.
Nei due giorni successivi, il 19 ed il 20 aprile, proprio mentre la Sublime Porta notificava alle Ambasciate la chiusura assoluta dei Dardanelli, venne effettuata un'altra audace azione di bombardamento ai forti degli Stretti in due ondate, da parte prima dei caccia e delle torpediniere e poi addirittura delle nostre navi da battaglia, Emanuele Filiberto, Varese, Ferruccio e Garibaldi pressoché in blocco, col conseguente smantellamento dei forti di Gum-GaleshSed-dul-BahrWathy e delle stazioni radiotelegrafiche di CesmeAladiezKelemmish e Cividera.
Mentre tutto questo inferno di fuoco si scatenava praticamente alle porte della Turchia venivano fatte filtrare ad arte dallo spionaggio italiano, per intorbidare ulteriormente le acque, voci di un imminente sbarco nel golfo di Bomba, in Cirenaica, per colpire tribù ribelli senussite.
A quel punto tutto era pronto.
La prima isola a venire occupata dai fanti italiani fu quella di Stampalia, nelle Sporadi meridionali, il 28 aprile successivo, senza trovare alcuna resistenza.



Lo sbarco delle truppe italiane sulla spiaggia di Kalithea a  Rodi

















Lo sbarco di sorpresa sulla spiaggia di Kalithea


La mattina del 4 maggio una forza da sbarco di circa 9000 soldati italiani al comando del generale Giovanni Ameglio (34° Livorno, 57° e 58° Abruzzi, 43° Forlì, di fanteria,  2 battaglioni del 4° bersaglieri, il battaglione di alpini Fenestrelle, 2 batterie di artiglieria da campagna e 2 da montagna, 2 sezioni di mitragliatrici Maxim, alcuni plotoni del genio minatori e zappatori, un plotone di cavalleggeri del Piacenza, una compagnia della Guardia di Finanza, oltre ad elementi di sanità e trasmissioni), partiti da Tobruk il 2 maggio a bordo di sei piroscafi (Sannio, Valparaiso, Verona, Bulgaria, Cavour e Lazio) scortati da una flotta al comando del Viceammiraglio Marcello Amero d'Aste Stella composta dalle navi da battaglia della 2° divisione della 1° squadra navale (Saint Bon, Regina Margherita, Emanuele Filiberto, Re Umberto, Duca di Genova, Città di Siracusa) e da una squadriglia di siluranti (comandata dal Duca degli Abruzzi a bordo del Vittor Pisani), si presentò  a sorpresa sulla spiaggia di Kalithea, 12 chilometri a sud-est di Rodi, la piccola capitale dell'isola omonima, la più grande ed importante del Dodecaneso.

Il piano originario prevedeva in realtà che lo sbarco avvenisse nella grande baia di Trianda, situata esattamente dal lato opposto di Kalithea, 7 chilometri a ovest della capitale, appena dopo il Capo Kundurnu, dove una volta sorgeva l'antico centro di Ialiso, una delle tre colonie doriche storiche dell'isola, ma era stato poi deciso di attaccare dall'altro lato perché c'era il timore non infondato che il nemico potesse aver concentrato le sue forze maggiori proprio a Trianda e sulla strada che la collegava a Rodi.
Marcello Amero D'Aste Stella
Per non avere intoppi fu comunque effettuata una azione simulata di sbarco anche su Trianda da parte dell'incrociatore ausiliario Duca di Genova, mentre la corazzata Regina Margherita ed il caccia Ostro andavano avanti e indietro su altre rade costiere minori per farsi notare dalle vedette turche.
Così, mentre nel frattempo le grosse unità della divisione di Presbitero si spingevano il più possibile vicino alle coste occidentali turche ed alle Cicladi per intercettare eventuali movimenti navali ostili provenienti da lì, i primi marinai delle compagnie delle corazzate Regina Margherita, Emanuele Filiberto e Saint Bon sbarcavano alle 4,00 di mattina sulla spiaggia designata sotto la protezione dei grossi calibri delle loro navi, aprendo la strada al successivo arrivo in spiaggia delle fanterie, dei finanzieri, dell'artiglieria, dei quadrupedi, viveri, ospedali da campo e servizi logistici, a bordo di grosse scialuppe appositamente attrezzate, sotto lo sguardo vigile di alcune torpediniere.


L'ingresso dei bersaglieri a Rodi




Rodi era allora abitata da 27.000 residenti, per lo più di etnia greca, con la presenza di una forte comunità ebraica, e secondo le nostre informazioni era difesa da una guarnigione di circa 5000 uomini di cui 3000 di truppe regolari, ma in realtà il suo presidio non contava che 1300 uomini con un pugno di cannoni.
Mentre dal primo pomeriggio del 4 tutti i grossi calibri delle corazzate protagoniste dello sbarco, ad oriente di Capo Kundurnu, e quelli della Regina Elena e del Coatit, ad occidente di quello stesso punto, sparavano all'unisono verso l'entroterra, dove si supponeva la presenza dei maggiori concentramenti nemici, le truppe ormai sbarcate in massa si lanciarono su ordine diretto di Ameglio all'inseguimento dei regolari turchi in fuga, facilmente sopraffatti, poco dopo le 13,00, sul colle di Koskino, dal fuoco di fucileria e da una carica finale alla baionetta sul loro fianco scoperto da parte di alpini, bersaglieri e finanzieri, con la cattura anche di 50 prigionieri.
Gli uomini scampati all'attacco italiano vennero
 inseguiti fin verso la piana di Sandrulli, a 3 chilometri dalla città, ma qui Ameglio ordinò alle sue truppe avanzanti di fermarsi.

Il tricolore sabaudo sventola sul castello turco di Rodi

Dopo un giorno di combattimenti circa 400 soldati turchi sfuggiti agli italiani riuscirono così a ritirarsi nell'interno orograficamente aspro e tormentato dell'isola, verso l'altopiano di Smith, mentre il Valì turco dell'isola, dopo aver preso tempo all'intimazione della resa da parte del capitano di vascello Gustavo Nicastro, comandante del caccia Alpino, scappava con una barca verso la costa anatolica (sarebbe stato poi catturato il 28 maggio dal caccia Ostro).
Rodi veniva occupata dalle avanguardie di Ameglio, che portavano con loro i prigionieri fatti nell'azione sul colle, la mattina del 5 maggio.
Alle 14,00 la bandiera italiana veniva issata da un picchetto d'onore sul bastione più alto del castello turco posto all'imboccatura del porto, davanti al Contrammiraglio Camillo Corsi, capo di stato maggiore del Viceammiraglio Leone Viale, nuovo comandante in capo della flotta italiana nel Mediterraneo, inviato da quest'ultimo, a bordo della Saint Bon, a prendere possesso ufficialmente dell'isola. 
Leone Viale
A quel punto anche la sorte del piccolo reparto turco fuggito dalla capitale era segnata.

L'attacco sulla ridotta turca di Psythos

Dopo qualche giorno, consolidate le opere di difesa ed ultimato lo schieramento, non senza aver rastrellato casa per casa i soldati turchi rimasti in città con abiti borghesi ed i malfattori fatti fuggire apposta dalle carceri locali al momento dello sbarco italiano per creare confusione, Ameglio decise di far marciare il 14 maggio i suoi soldati divisi in tre colonne verso il piccolo villaggio montano di Psythos, che dominava la costa occidentale dell'isola, ove la maggior parte dei regolari turchi era andata a trincerarsi. 
Quello che segue è il racconto sintetico dell'attacco su Psythos come descritto nel rapporto ufficiale del generale Ameglio.



Fotografia del campo di battaglia di Psythos









Il grosso delle sue forze (colonna A), composto da quasi tutta la fanteria e tre batterie da montagna, al suo diretto comando, sarebbe partito dalla capitale puntando senza indugio da sud-est verso Psythos, lungo la direttrice Afgura-Koscinò-Afando-Stuvurudiù, mentre il 4° bersaglieri del colonnello Maltini (colonna B) ed il battaglione alpino Fenestrelle del colonnello Rho con una sezione di mitragliatrici (colonna C), trasportati in loco da due piroscafi (
rispettivamente il Sannio ed il Bulgaria) il giorno 15, sarebbero partiti rispettivamente da Kalaverda alle 23,30 e da Malona un'ora prima, puntando con una manovra a tenaglia su Kalopetra e Plotania per poi convergere sempre su Psythos rispettivamente da nordovest e da nord la prima  e da sud la seconda, bloccando le vie di ritirata al nemico sul Monte Sant'Elia dai due versanti opposti di Kalemona e di Archipoli.
Nel corso della marcia verso il villaggio fortificato ci furono il 16 maggio un paio di scontri a fuoco tra le truppe italiane della colonna A e quelle turche, risoltisi rapidamente con la vittoria italiana, ma tutte e tre le colonne giunsero indenni davanti all'obiettivo pressoché contemporaneamente quel giorno stesso, alle 9,00 di mattina, completando così l'accerchiamento dell'intera conca di Psythos.
I pezzi turchi posti in un avvallamento a nord di Psythos sin dalle 9,30 presero a sparare sui contrafforti di Kalopetra, dove si erano posizionati i bersaglieri, attaccati anche senza successo da una rilevante colonna turca in cerca di una via di fuga su Kalemma, essendo quella orientale su Maritza battuta dal fuoco preciso delle nostre navi della 2° squadra di Presbitero. 
Il tiro delle artiglierie turche  era tuttavia disorganizzato e poco preciso, anche perché efficacemente contrastato dal fuoco delle nostre batterie da montagna, una che sparava su di loro, l'altra puntando su Psythos dove parte dei difensori turchi era tornata a rifugiarsi nella locale caserma, presto ridotta in un cumulo di rovine.
Poiché gli alpini erano un po' in ritardo sulla tabella di marcia e conseguentemente tra i bersaglieri e la colonna A si era creato un buco scoperto sulla cima del Monte Leucopoda, Ameglio comandò alle 10,45 al colonnello Vanzo, comandante del 57° fanteria, di recarsi su quella cresta con due battaglioni del suo reggimento e la terza batteria da montagna: fu uno sforzo considerevole per le stanche truppe di Vanzo, ma intorno alle 12,00 la cima era raggiunta, e da lì poterono scoprire con grande sorpresa che gran parte delle truppe nemiche stava tentando di riposizionarsi per vie sconosciute alle mappe sul lato orientale del Leucopoda, con alcuni pezzi di artiglieria.
Un uragano di fuoco venne così scatenato dalla terza batteria di montagna, prontamente messa in posizione su quella cima, contro le colonne nemiche in movimento: queste, colte totalmente allo scoperto, dopo aver sofferto molte perdite furono costrette ad abbandonare in fretta e furia con tutti i loro equipaggiamenti, armi, munizioni, viveri e carriaggi quell'appostamento ormai mortale, fuggendo in massa verso il vallone di Maritza, tranne una sezione di artiglieria che fu in grado di sparare ancora una ventina di colpi contro gli italiani, senza esito, da una piazzola al coperto dietro un piccolo contrafforte a sud-est del Leucopoda.
Alle 15,00 l'accerchiamento di Psythos era completo e l'intera fortificazione era sferzata da precisi e continui tiri della nostra artiglieria, mentre le forze nemiche sfuggite alla sacca si ammassavano disordinatamente verso Maritza, sotto il fuoco delle nostre navi al largo.
Alla sera del 16 maggio ci fu l'ultimo tentativo disperato del distaccamento turco: tentò di avventarsi in massa sui bersaglieri della colonna Maltini, ma questi reagirono con vigore e li respinsero indietro, costringendo il nemico alla fuga sulle asperità della zona, senza munizioni e praticamente senza viveri.

La resa finale del presidio di Rodi

Alle 23,00 un parlamentare turco, un maggiore della gendarmeria di Rodi, si presentò con la bandiera bianca al quartier generale italiano a Psythos chiedendo di trattare la resa, con l'onore delle armi.
Venne concessa.
Il giorno dopo alle 7,30 il bimbasci, comandante delle truppe nemiche, ed il miralai, comandante della gendarmeria dell'Egeo, si presentarono con le loro truppe già disarmate di fronte al generale Ameglio. Agli ufficiali venne lasciata la sciabola, al bimbasci venne consegnato il Corano personale che aveva dimenticato nella foga della ritirata da Psythos, mentre furono consegnati tutti i fucili con le munizioni, una sezione completa di artiglieria da montagna con munizioni e quadrupedi, un ottimo apparato eliografico di grande portata e vario altro materiale, anche rinvenuto in seguito abbandonato sul posto o gettato in fondo ai burroni dai turchi in fuga.
La battaglia per Rodi era finita.

Era il 17 maggio 1912.


L'attacco finale alla ridotta fortificata di Psythos









A quella data ormai l'occupazione di tutte e tredici le isole si era pressoché completata, e il Dodecaneso e le Sporadi erano in totale ed incontrastato possesso delle armi italiane: il 9 maggio l'incrociatore Duca degli Abruzzi occupava Calchi facendone prigioniera la locale guarnigione, nei giorni successivi le navi sia della 1° che della 2° squadra procedevano alla presa di ScarpantoCasoNisiroPiscopiCalinoLero e Patmo, il 16 maggio toccava a Lipso, il 19 a Simi, il 20 era infine occupata Coo, tutte quante preda dei nostri incrociatori e cacciatorpediniere (NapoliAmalfiPisaSan MarcoPegasoNembo e Aquilone).
Soldati turchi prigionieri all'imbarco a Rodi
(immagine tratta dal III volume dell'opera 

"Il Mediterraneo", UTET, 1927, di A. Brunialti e S. Grande)
La presa di Rodi, condotta in modo magistrale anche se favorita anche qui dalla debole consistenza dell'avversario, costò alle truppe italiane un totale di 8 morti (2 del 57° fanteria e 6 del 4° bersaglieri, tra cui un ufficiale) e 33 feriti (5 del 57° fanteria e 28 del 4° bersaglieri), mentre tra le file turche si ebbero 23 morti tra ufficiali e soldati e 48 feriti. 


Vennero fatti prigionieri inoltre 33 ufficiali e 950 soldati, oltre a 6 pezzi di artiglieria, 750 fucili, munizioni, quadrupedi e carriaggi.
Molti prigionieri, esattamente 915, vennero trasportati a Palermo il 22 maggio e da qui internati nei campi di concentramento di Termini ImereseCefalùCorleone e Sciacca.




Alzabandiera a Rodi ormai italiana

L'arcipelago del Dodecaneso, nonostante le rassicurazioni italiane in corso di conflitto, non sarebbe mai stato restituito alle autorità turche dopo la fine delle ostilità, malgrado le loro reiterate proteste, anche per punirle dell'appoggio che esse continuavano a dare alla guerriglia delle tribù arabe. La prima guerra mondiale, i sommovimenti politici ed economici globali che vi fecero seguito, le posizioni di Potenza vincitrice dell'Italia e di Potenza sconfitta della Turchia ai colloqui di pace di  Versailles fecero sì che tutto si congelasse in una sorta di limbo diplomatico, fino a quando l'avvento al potere di Benito Mussolini da una parte e di Kemal Ataturk dall'altra portò alla definitiva accettazione turca del fatto compiuto, col Trattato di Losanna del 1923 stipulato per regolamentare una volta per tutte le questioni pendenti tra l'ex Impero Ottomano e le Potenze vincitrici della prima guerra mondiale: l'arcipelago sarebbe pertanto figurato da quell'anno fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando sarebbe passato definitivamente nella sovranità della Grecia, come una nuova provincia italiana, con capoluogo Rodi (e targa automobilistica RD).


24. IL FORZAMENTO DEI DARDANELLI

Mentre languivano mestamente le trattative diplomatiche tra Italia e Turchia mediate dalle altre Potenze europee, sempre più preoccupate che il proseguo delle ostilità potesse far deflagrare la "polveriera balcanica", con gravissime ripercussioni sulla stabilità dell'intera Europa, finalmente l'Italia ottenne la Grande Impresa, quella che da mesi andava disperatamente cercando, progettata ormai da mesi nella più totale segretezza da Paolo Emilio Thaon di Revel, comandante della nostra flotta dell'Egeo. 

Paolo Emilio Thaon di Revel

Nella notte tra il 18 ed il 19 luglio del 1912 infatti, cinque unità della 3° squadriglia torpediniere d'alto mare basate sull'isola di Straticon l'importante appoggio dell'incrociatore Vittor Pisani e dei cacciatorpediniere Borea e Nembo, attaccarono la flotta turca 
alla fonda della rada di Costantinopoli, alla quale da tempo si erano aggiunte le navi provenienti da Beirut. 


Le torpediniere SpicaCentauroPerseoAstore e Climene, al comando del capitano di vascello Enrico Millo, a bordo della Spica, portatesi alle 22,30 del 18 luglio all'imbocco dello stretto dei Dardanelli alla velocità di 12 nodi, riuscirono a penetrare fino alla velocità massima di 23 nodi per ben 15 km all'interno del munitissimo canale fin davanti agli sbarramenti di Costantinopoli, nella baia di Chanak, ove era alla fonda l'intera flotta turca, illuminate a giorno dalla luce dei potentissimi riflettori turchi e sotto il fuoco incessante delle batterie costiere dei forti di Capo Helles e Kum Kalè, per poi ritornare alla base di partenza, dopo un periplo di circa 22 chilometri complessivi, pressoché indenni, nonostante un momentaneo incagliamento della Spica, che avrebbe riportato alcuni danni non gravi allo scafo forse a causa di una rete antisiluri, ne avesse rallentato e quasi compromesso l'azione.
 
L'azione nei Dardanelli
raffigurata dalla Domenica del Corriere del 28.07.1912


Sarebbero risultate colpite infatti solo la Spica, da alcuni colpi di medio calibro al fumaiolo, l'Astore, da un colpo da 50 mm alle sovrastrutture e due di piccolo calibro allo scafo, e la Perseo, crivellata da una decina di colpi da 25 mm in coperta e allo scafo. 
Enrico Millo
Millo, premiato con la medaglia d'oro al valore insieme con gli stendardi di tutte e cinque le unità, sarebbe successivamente diventato senatore del Regno, ministro e poi Ammiraglio comandante della flotta in Adriatico durante la Grande Guerra.
Le nostre cinque torpediniere, nonostante tutto, non riuscirono com'era nelle intenzioni a colpire alcuna unità nemica, né di grosso né di piccolo tonnellaggio, ma la loro impresa ai limiti dell'impossibile ebbe una clamorosa eco in tutto il mondo e destò moltissima preoccupazione nelle autorità ottomane, che capirono all'improvviso che la stessa capitale era diventata a questo punto un possibilissimo obiettivo per l'ormai dilagante flotta italiana, padrona dell'Egeo e anche del Mar Rosso, e decisero a quel punto finalmente di chiedere la resa.
Se non l'avessero fatto, le navi italiane si stavano già preparando ad un'azione se possibile ancor più clamorosamente dirompente contro le ormai indifese coste di Costantinopoli, con la quasi certa capitolazione immediata nonché l'impossibilità per la Turchia di potersi a quel punto difendere se, come gli avvenimenti successivi avrebbero ampiamente dimostrato, fosse stata attaccata dalle forze di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria.


 


25. LA VITTORIA ITALIANA

La vittoria italiana sul terreno libico, ottenuta in poco più di un anno, richiese alla fine il tributo di 3431 morti (di cui ben 1948 per malattia) e 4220 feriti, mentre da parte turca si ebbero circa 14.000 morti e 5370 feriti, imprecisate ovviamente restando le perdite accusate dalle forze irregolari arabe.
Essa non fu in realtà mai ragionevolmente in discussione, ma lo sforzo richiesto alle nostre forze armate fu veramente immane sul piano organizzativo, logistico ed economico, assai superiore a quello preventivato e sicuramente troppo per le nostre forze, tanto da costituire il principale motivo per cui Giovanni Giolitti, al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, cercò in tutti i modi di tenerne fuori l'Italia facendo moltissime pressioni sul capo del governo in carica, Antonio Salandra.

Il pozzo dei bersaglieri a Sciara Sciat




















Tuttavia la firma del trattato di pace, sotto tanti profili, si rivelò solo un atto meramente formale.
E' vero che subito dopo la firma furono avviate le pratiche per il rimpatrio delle truppe turche in Patria ed è vero che formalmente la sovranità sulla Libia passava al Regno d'Italia, ma in verità l'Impero Ottomano accettò solo la perdita della sola Tripolitania, mentre molto meno condiscendente fu verso la situazione della Cirenaica, tanto che molti ufficiali turchi, tra cui proprio i due più importanti, Enver Bey e Nesciat Bey, preferirono imboscarsi in incognito tra le genti senussite di questa regione, tuttora nient'affatto pacificate, sicuri che ben presto, approssimandosi all'orizzonte la tempesta che avrebbe condotto dritto dritto alla prima guerra mondiale, ci sarebbe stata l'occasione per loro di una rivincita sull'Italia.

26. L'ISTITUZIONE DEI DUE GOVERNATORATI LIBICI DI TRIPOLITANIA E CIRENAICA

Ottavio Ragni
Passati pochi mesi dalla fine della guerra il primo passo di Giolitti fu, sulla stessa falsariga della precedente amministrazione ottomana, la costituzione il 9 gennaio 1913 dei due governatorati indipendenti:


Lo stemma araldico
della Tripolitania italiana


















- di Tripolitania, a ovest, con capitale Tripoli, al cui capo venne riconfermato il Maggiore Generale Ottavio Ragni, successore di Carlo Caneva, designato per il comando di un corpo d'armata in guerra;

- e di Cirenaica a est, con capitale Bengasi, a capo del generale Ottavio Briccola, già distintosi al comando della 2° divisione speciale durante le operazioni belliche contro i Turchi
Lo stemma araldico della
Cirenaica italiana


Con gli sviluppi della situazione in Libia i due governatorati restarono però essenzialmente sulla carta, soprattutto a partire dal 1915 e fino al 1920, tant'è vero che vennero sempre affidati sin da subito come visto ai generali temprati dalla guerra in Africa, perché di fatto solo il ferreo controllo del Regio Esercito, per quanto sin da subito si avviasse un'intensa smobilitazione delle truppe, poteva essere in grado di mantenere l'ordine, anche se in realtà non si sarebbe mai spinto per anni molto oltre la fascia costiera, dove erano  localizzate le principali città delle due colonie.

Il Palazzo della Consulta
I due governatorati libici erano posti alle dirette dipendenze del neocostituito Ministero delle Colonie, affidato all'inizio a Pietro Bertolini, uno dei plenipotenziari italiani di Losanna, introdotto il 20 novembre 1912 col regio decreto n. 1205 attraverso la trasformazione in ministero della precedente Direzione Generale degli Affari coloniali facente parte organicamente del Ministero degli Affari esteri, con sede a Roma 
presso la sede dell'attuale Palazzo della Consulta, ove ora opera la Corte Costituzionale

Successivamente la conquista nel 1937 dell'Etiopia con la nascita dell'Africa Orientale Italiana (A.O.I.) avrebbe portato alla nascita del Ministero dell'Africa Italiana, istituito col regio decreto n. 431 dell'8 aprile 1937, di cui negli intendimenti avrebbe dovuto essere sede l'attuale palazzo della F.A.O., in Viale delle Terme di Caracalla, progettato alla fine degli anni '30.

Il Palazzo della F.A.O.
Istituito da Giovanni Giolitti nel 1912, il Ministero sarebbe stato definitivamente soppresso da Alcide De Gasperi con la legge n. 430 del 29 aprile 1953. 


ALCUNE NOTE
Alcune note sono doverose da parte mia. 
Come sempre in questi casi il mio è un work in progress, se qualcuno mi segnala qualche inesattezza o anche, perché no, qualche vera e propria castroneria, me lo dica e cercherò di porvi rimedio.
In questa come nelle altre "puntate" di questa breve serie di post sulle colonie italiane mi affido ai ricordi delle mie letture e lezioni scolastiche avute nel passato, a saggi vari che ho avuto occasione di leggere anche in questo periodo, ad aneddoti raccontatimi da persone con cui mi sono trovato a parlare ed ovviamente all'ormai incredibile patrimonio di notizie che si ricava dalla rete, su Wikipedia ed altri supporti informativi, tra cui voglio citare, per la parte sulle imprese dei primi aviatori, anche il link http://jacopogiliberto.blog.ilsole24ore.com/2011/03/25/libia-primati-italiani-venezia-1849-e-tripoli-1911-i-primi-bombardamenti-al-mondo/.
Non riesco a ricordare tutte le fonti a cui ho attinto o attingo per scrivere queste storie, e se citassi solo quelle che ricordo farei un torto a quelle che invece non ricordo: di sicuro su alcune  questioni rimando a link specifici, o indico delle fonti in corso di narrazionecui prego i lettori di andare ove volessero maggiori informazioni, ma mi piace ricordare, e faccio un'eccezione al discorso in generale appena fatto, che sulla vicenda dei rapporti tra Italia, Francia e le altre Potenze europee degli anni a cavallo tra la fine dell'800  e l'inizio del '900 molto devo alla lettura sempre godibilissima e fruttuosa dell'apposito capitolo presente nel volume L'Italia di Giolitti di Indro Montanelli, parte della sua monumentale e fantastica Storia d'Italia, che ho la fortuna di avere per intero nella mia libreria.
E che vi auguro di poter avere il privilegio di leggere prima o poi, se già non l'avete fatto.
  
- SEGUE -
















3 commenti:

  1. Interessante la storia del paese in cui sono nato, nel 1956, in Tripolitania.
    I miei genitori provenivano dal Friuli, nel 1938, e se ne andarono dalla Libia nel 1962. Personalmente sono nato a Zawia, nei pressi del Villaggio Olivetti. Cara Libia italiana.

    RispondiElimina
  2. Scusami, leggo solo adesso.
    Sono contento che ti sia piaciuto.
    Continua a leggermi e, se puoi e vuoi, metti MI PIACE alla mia pagina Facebook:
    Grazie ancora, ciao.

    RispondiElimina
  3. Ciao, mi chiamo Hamid, sono la città di Zawiya vicino al villaggio di Olivetti, vorrei scusarmi a nome di tutti i libici per tutti gli insulti che sono stati detti sulla grande Italia, sono libico e auguro alla Libia di tornare alle braccia dell'Italia, la Libia è figlia dell'Italia, il villaggio Olivetti produce ancora molti frutti grazie ai contadini italiani, la chiesa del villaggio è ancora bella e la visito ogni tanto, ti voglio bene e spero che torni

    RispondiElimina