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L'occupazione di Giarabub (Domenica del Corriere del 21 febbraio 1926) |
Una prima forte svolta a favore degli italiani avvenne però sotto il nuovo governatore della Cirenaica, il Generale Ernesto Mombelli, succeduto a Bongiovanni, rimasto seriamente ferito in un incidente aereo nei primi mesi del 1924.
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Ernesto Mombelli |
Il 7 febbraio 1926 una forte colonna motorizzata italiana, partita il primo giorno del mese da Amseat e guidata dal colonnello Ronchetti, forte di 822 nazionali e 1645 eritrei (il IX° e il X° battaglione eritreo condotti su 350 autocarri, uno squadrone di meharisti, una squadriglia di 12 autoblindomitragliatrici FIAT Terni, una batteria autoportata da montagna con pezzi da 65, una sezione di carri d'assalto FIAT 3000 mod.21, peraltro responsabili di notevoli ritardi nella marcia per la loro lentezza, i continui insabbiamenti ed i frequenti guasti, fonti di gigantesche arrabbiature di Graziani verso i poveri carristi) si presentò all'improvviso davanti agli sgomenti capi arabi locali ed occupò senza incontrare praticamente resistenza l'oasi di Giarabub, che in seguito agli accordi italo-egiziani dell'anno prima era stata ceduta all'Italia insieme con il suo vastissimo entroterra.
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Un carro armato italiano FIAT 3000 Mod. 21 raffigurato nel deserto libico |
Lo sceicco senussita Sciaref el Gariani, prontamente sottomessosi, venne designato nuovo custode dei luoghi santi dell'oasi: la moschea, la tomba del fondatore della confraternita e la locale zawiya.
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Il colonnello Ronchetti viene omaggiato dal capo senussita di Giarabub
(L'Illustrazione del popolo, 21.02.1926) |
Si trattò di una vittoria dal valore simbolico altissimo, perché insieme con Cufra (ceduta sin dal 1919 dall'Egitto ma tuttora inviolabile per gli italiani) il marabutto di Giarabub, concesso dal Sultano nel 1861 all'Emiro senusso di allora, era uno dei due più importanti luoghi sacri della Senussia, praticamente il suo quartier generale, quello da cui partivano da sempre i raid contro gli italiani sul versante libico e gli inglesi su quello egiziano, e la sua perdita senza colpo ferire apparve probabilmente quasi come un segno di abbandono divino.
Per favorire quest'audace spedizione tre colonne italiane, Garelli, Lo Cascio e Spernazzati, avevano impegnato in diversi combattimenti le tribù del Gebel cirenaico, al fine di non far affluire rinforzi al marabutto sotto attacco, e dopo la consueta pausa invernale altre quattro, Nicastro, Moramarco, Ferrari e Piatti, erano state impegnate in altre operazioni tese ad impedire infiltrazioni del nemico nei luoghi ora in mano agli italiani: in uno degli scontri, accaduto a fine giugno durante una ricognizione sullo Uadi el Ge Reich, venne colpito a morte il maggiore Ferrari, comandante di una delle colonne.
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Un'autoblinda Terni, usata per l'occupazione di Giarabub e Cufra |
13. LA SCONFITTA DI ER RAHEIBA ED IL TRIONFO DI HALUG EL GIR
I guerriglieri senussi di Al Mukhtar continuavano però imperterriti a compiere continue incursioni ai danni delle guarnigioni e delle carovane degli italiani e delle tribù loro alleate, attaccate persino nelle loro oasi, e questo non poteva essere tollerato dalle nostre Autorità, che vedevano in tal modo messa in grave pericolo la loro politica di pacificazione con i clan che accettavano di sottomettersi.
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Attilio Teruzzi |
Si giunse così all'ennesimo cambio al vertice, con la decisione di sostituire Mombelli con Attilio Teruzzi, stretto collaboratore del Duce, già ufficiale pluridecorato tra Libia e prima guerra mondiale e poi, una volta congedatosi da capitano, nominato nel '21 vicesegretario del P.N.F., a capo delle squadre dell'Emilia Romagna alla Marcia su Roma ed infine e fino a quel momento sottosegretario agli interni del nuovo governo fascista.
L'esordio di Teruzzi, deciso a non dare tregua ai ribelli, non fu però brillantissimo: nel corso di una più vasta operazione di rastrellamento tesa a liberare l'intero sud bengasino per assicurare le comunicazioni via terra tra Bengasi ed Agedabia e aprire la strada ad un ricongiungimento della Cirenaica con la Tripolitania il 28 marzo 1927 il VII° battaglione libico venne annientato dai mujahideen di Al Mukhtar a Er Raheiba: nel disastro di quella giornata morirono 310 soldati sui 756 che componevano il battaglione!
Tra i caduti di quella triste giornata non si può non ricordare, oltre al maggiore Bassi, il tenente Ettore Cantagalli Del Rosso, di San Miniato (allora in provincia di Firenze, ora di Pisa), primo e unico giornalista caduto in quella guerra, redattore de Il Corriere di Livorno, eroe dei bersaglieri nella Grande Guerra (premiato con la medaglia di bronzo al valor militare e con la Croce inglese per aver salvato un ufficiale pilota britannico abbattuto sul Piave, attraversando a nuoto per ben quattro volte le gelide acque del fiume): la sua è una storia molto particolare, basti pensare che solo poco tempo fa si è scoperto che era tra i caduti di Er Raheiba, perché fino a solo pochi anni addietro si pensava che fosse morto proprio nel corso della prima guerra mondiale (per chi volesse saperne di più consiglio di leggere qui).
Il Generale Ottorino Mezzetti, subentrato alla guida delle truppe coloniali italiane, si rese subito conto che il morale dei quadri era basso, che le cose andavano troppo per le lunghe al contrario di quanto accaduto in Tripolitania e le difficoltà ambientali, logistiche e burocratiche (i contrasti tra le autorità civili e quelle militari erano ormai all'ordine del giorno) non facevano che acuire i problemi.
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Ottorino Mezzetti |
Decise di dare subito una vigorosa sterzata alle operazioni: in capo a tre settimane, riorganizzate nuovamente le sfiduciate truppe ai suoi ordini, lanciò il 27 aprile due forti colonne al suo diretto comando contro il campo trincerato nemico di Halug El Gir, occupandolo e sistemandosi a difesa: qui attese il ritorno in massa delle mehalle ribelli alleate di Mukhtar, appartenenti alle tribù Door Hasa, Abid e Braasa, galvanizzate dal recente successo di Er Racheiba e quindi del tutto dimentiche di ogni più elementare norma di prudenza e buon senso.
Una vera e propria sfida, che le tribù libiche ebbero il torto di accettare.
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Savari della colonna Mezzetti caricano i ribelli a Halug El Gir (olio su faseite di Alberto Parducci), immagine pubblicata in b/n a pag. 10 dell'album "Ascari e Dubat" (Truppe Coloniali Italiane)- Ciarrapico Editore 1977 |
Il selvaggio combattimento che ne seguì si svolse così in campo aperto (classico errore delle truppe irregolari), traducendosi logicamente in una sonora lezione per le milizie ribelli, in poco tempo volte in fuga verso il loro tradizionale santuario difensivo, il poderoso massiccio montuoso del Gebel Achdar, la montagna verde, un altopiano dal profilo accidentato con un'altezza massima di poco meno di 900 metri.
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Il Gebel Achdar, la Montagna verde |
Ricco di boscaglie, anfratti e burroni nascosti, il Gebel Achdar, piovoso in inverno ed aridissimo d'estate, scendeva a picco sul mare degradando via via attraverso una serie di terrazzamenti: qui facile era la possibilità per i ribelli di condurre azioni di guerriglia ed al contempo di trovare un agevole riparo dalle ricognizioni offensive italiane.
14. PRIME DIVISIONI TRA LE FILA DI OMAR AL MUKHTAR
Ma stavolta Mezzetti era deciso ad andare fino in fondo e ordinò una serie di vaste operazioni di rastrellamento in tutta quell'area.
In piena estate, sfidando un caldo atroce che avrebbe portato addirittura alla morte per insolazione di due ascari eritrei, ordinò di mettersi in moto ad un imponente schieramento composto di dieci battaglioni libici ed eritrei, quattro squadroni di regolari e tre bande di irregolari a cavallo, cinque sezioni di artiglieria, oltre a reparti autoportati (alcuni di camicie nere, al loro battesimo del fuoco africano), autoblindo e alcuni squadroni meharisti.
Suddivisi in sei colonne (Mezzetti, Spernazzati, Montanari, Poli, Lorenzini e Piatti), ognuna munita di una sezione radiotelegrafica, con 5 giornate di acqua (3 litri per uomo e 20 per quadrupede) e 7 di viveri, tutti questi uomini si lanciarono su vari obiettivi in una sorta di manovra avvolgente tesa a pacificare una volta per tutte quel turbolento territorio e finalizzata ad estirpare definitivamente la guerriglia dall'altopiano cirenaico, attaccare in massa le tribù Mogarba nella Sirtica ed infine conseguire la definitiva sutura tra le due colonie, preordinata all'occupazione totale di tutte le oasi presenti all'altezza del 29° parallelo.
Col forte supporto dell'aviazione coloniale, ormai strutturata su velivoli previsti espressamente per quel teatro e basati a terra su un reticolo di aeroporti ben organizzati, i gruppi mobili sconfissero ripetutamente le milizie ribelli, la cui presenza veniva volta per volta segnalata in anticipo dagli aerei ricognitori, a Bir Zeitun, a Ras Giulaz e nelle oasi di Scebirca e del Cuf: sfidando condizioni ambientali e climatiche impossibili (vi furono altri morti per insolazione negli stessi reparti libici) le colonne italiane martellarono implacabilmente il nemico in fuga sino a settembre inoltrato, procedendo con velocità folle all'inseguimento dei ribelli (la colonna Canevari fece in due giorni ben 120 chilometri di marcia), catturandone anche parecchi (spesso fucilati sul posto).
Al termine delle operazioni estive, dopo ottanta giorni di operazioni, 1300 erano i caduti tra le tribù libiche, con la cattura di ingentissime quantità di bestiame, armi, munizioni, derrate e materiali vari, e la scoperta di molti depositi nascosti tra le caverne del Gebel: da parte italiana, i caduti sarebbero stati 68 (2 ufficiali) e 170 i feriti (5 gli ufficiali).
Vi fu una breve pausa solo tra ottobre a gennaio, quando si procedette all'occupazione della Sirtica, zona di confine con la Tripolitania, ma sin dai primissimi giorni del 1928 un'altra colonna, quella guidata dal maggiore Maletti, sarebbe ripartita all'attacco fino al limite estremo d'autonomia delle proprie autoblindo, penetrando in profondità nel Fezzan e tagliando la strada ai ribelli.
Cominciarono allora ad emergere le divisioni nel fronte libico.
Si arrese la tribù dei Braasa, fino a quel momento a fianco di Al Mukhtar: per tutta risposta, però, il 29 novembre 1927 quest'ultimo attaccò con 250 cavalieri il campo di Slonta, dove i Braasa erano acquartierati, e lo rase praticamente al suolo, infierendo crudelmente anche sulle donne e i bambini.
Soprattutto però un brutto colpo per le tribù libiche fu la resa del fratello di Idris, Saied Mohammed er-Reda, vicario dell'Emiro, che il 3 gennaio 1928 si presentava innanzi alle Autorità italiane ad Agedabia e veniva subito fatto partire per l'Italia, come comunicato dall'Agenzia Stefani (la mamma dell'attuale ANSA): si veda http://www.regioesercito.it/campagne/libia/camplibia2.htm.
Anche Graziani è della partita
L'ormai famoso Rodolfo Graziani, schieratosi apertamente col regime, era dal gennaio del 1928 al comando del gruppo A, operativo sul 29° parallelo col compito di creare una saldatura tra i settori di Tripolitania e Cirenaica.
Con il consueto slancio passò anche lui all'offensiva, in maniera terribilmente efficace, usando anche metodi "sporchi": il suo attacco infatti fu preparato da ben quattro bombardamenti aerei al fosgene che causarono morte e panico nella tribù ribelle dei Mogàrba Er Raedat (il fosgene è un aggressivo chimico estremamente tossico usato per la prima volta nel 1915 dai francesi e di cui pure gli italiani avevano fatto le spese ad opera dei tedeschi il mattino del 24 ottobre 1917 nella conca di Plezzo, durante la disfatta di Caporetto) e portò all'occupazione di Hon il 14 febbraio ed a quella di Zella il 22 febbraio.
La colonna italo-eritrea di Graziani, composta da 1500 uomini, riprese tre giorni dopo la marcia verso la conca di Tagrift, ove erano situati dei pozzi, ma qui fu affrontata con estrema decisione dai guerriglieri di varie cabile, tra cui preminente era quella degli Aulad Soliman al comando dei fratelli Sef en Nasser, il cui numero era perlomeno pari a quello dei soldati di Graziani.
Trovatosi ad un certo punto a rischio di accerchiamento, e con gli avversari che sparavano in via prioritaria sugli ufficiali, il generale italiano riuscì però alla fine a sventare la minaccia ed a vincere la battaglia, sia pure al caro prezzo di 59 morti (5 ufficiali) e 162 feriti (6 ufficiali): la mehalla nemica ebbe invece 247 morti sul campo di battaglia ed almeno un'altra cinquantina nel corso del successivo inseguimento da parte degli spahis.
15. PIETRO BADOGLIO NUOVO GOVERNATORE UNICO DELLA LIBIA
Era giunta l'ora di dare la spallata finale.
Fu così che Mussolini si giocò la sua carta migliore, chiamando il 18 dicembre 1928 all'incarico di governatore unico della Cirenaica e della Tripolitania il più prestigioso Generale italiano del momento (con Graziani), cioè il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate, con Emilio De Bono nominato nuovo ministro delle colonie e Attilio Teruzzi designato nuovo capo di Stato Maggiore della Milizia.
In seguito al nuovo assetto Cirenaica e Tripolitania restavano formalmente separate sul piano amministrativo, ma rette comunque da un unico governatore, quello della Tripolitania, con la Cirenaica assoggettata ad un Vicegovernatore sottoposto al primo.
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Pietro Badoglio nel 1934, foto con dedica autografa
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Nato il 28 settembre 1871 a Grazzano Monferrato (AT), ora Grazzano Badoglio, figlio di un modesto proprietario terriero e di una donna dell'agiata borghesia piemontese, Pietro Badoglio era un militare con un curriculum lungo così apparentemente pieno di successi.
Dopo aver frequentato l'Accademia Reale di Torino uscendone come sottotenente, una volta promosso al grado superiore era stato inviato in Abissinia nel febbraio 1896 al seguito del Generale Antonio Baldissera, destinato nei piani degli Alti Comandi a sostituire il pari grado Oreste Baratieri, partecipando alla vittoriosa spedizione per liberare il maggiore Marcello Prestinari ed i suoi 2000 uomini assediati da due mesi ad Adigrat in Eritrea dalle truppe del Ras Mangascià.
Nella guerra di Libia era stato decorato e promosso maggiore per il suo comportamento nelle battaglie di Ain Zara e di Zanzur, per le quali aveva partecipato alla stesura dei relativi piani di battaglia, ma la sua fama si doveva soprattutto alla Grande Guerra, iniziata da tenente colonnello presso lo Stato Maggiore dell'esercito e terminata come sottocapo di Stato Maggiore (vicecomandante unico).
In tale veste era secondo solo ad
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Armando Diaz |
Armando Diaz, divenuto Capo Supremo dell'esercito dopo il disastro di Caporetto (in cui il suo XXIII° corpo d'armata non era stato direttamente implicato), al posto del giubilato Luigi Cadorna, la cui testa era stata espressamente chiesta in cambio dei rinforzi loro richiesti dai generali alleati Ferdinand Foch (francese) e William Robertson (inglese), ormai stufi delle sue vetuste idee strategiche e della sua ostinata non volontà di collaborare appieno con loro in nome di un'orgogliosa e stizzita difesa delle proprie prerogative di comando.
Ma anche Badoglio aveva un buco nero che l'avrebbe sempre perseguitato nella sua carriera.
Il fantasma di Caporetto sulla carriera di Badoglio
Da anni su Badoglio gravava un pesante fardello: era infatti uscito piuttosto inspiegabilmente indenne dalla indagine svolta dalla commissione d'inchiesta di prima istanza istituita il 12 gennaio 1918 col Regio Decreto n. 35 sulla tragica disfatta di Caporetto.
Il crollo del suo XXVII° corpo d'armata, che insieme al IV° componeva il fianco sinistro della II° armata dell'Isonzo al comando di Luigi Capello (che presidiava il lato settentrionale dell'intero schieramento italiano al confine, tra il Monte Rombon ed il fiume Frigido) ed era schierato sulla riva destra del fiume tra Tolmino e Gabrije, aveva infatti determinato quello appunto del confinante IV° corpo di Alberto Cavaciocchi che presidiava la riva sinistra, e successivamente quello del VII° di Luigi Bongiovanni, posto immediatamente alle spalle dei primi due, a cavallo di entrambi i settori: proprio da lì si era aperta la breccia verso l'allora sconosciuto paese di Caporetto, porta d'ingresso verso la pianura friulano-veneta.
Ne era derivato il collasso dell'intera II° armata e di conseguenza quello dell'intero fronte italiano, con tutto quello che ne era conseguito, cioè lo straripamento delle truppe austro-tedesche nel Friuli e nel Veneto, col terribile rischio per l'Italia di vedersi occupata l'intera pianura padana e quindi di perdere in brevissimo tempo tutto il nord industriale: un pericolo che sarebbe stato fortunatamente scongiurato grazie all'eroismo dei nostri fanti sul Piave (per i particolari della battaglia v. QUI).
La relazione finale della commissione, consegnata a guerra finita (e vinta) il 13 agosto del 1919, avrebbe portato alla condanna dei Generali Cavaciocchi, Bongiovanni, Capello e anche dell'ex Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna, ma senza nemmeno un accenno nemmeno assolutorio ed incidentale contro il comandante del XXVII° corpo d'armata, cioè appunto Badoglio, e tutto questo nonostante costui fosse rimasto persino del tutto ignaro del tracollo delle sue truppe fino almeno alle 12,00 del giorno dell'attacco austro-tedesco, cioè ben dieci ore dal suo inizio, alle 2,00 di mattina del 24 ottobre 1917, con quel famoso bombardamento al fosgene sulla conca di Plezzo di cui si è parlato poc'anzi.
Badoglio quindi il 2 dicembre del 1919 era potuto serenamente subentrare ad Armando Diaz come Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, dopo essere stato addirittura nominato senatore il 24 febbraio 1919 (a commissione d'inchiesta appena insediatasi!!!) e commissario militare straordinario per la Venezia Giulia (proprio durante la vicenda fiumana di D'Annunzio) il 23 settembre dello stesso anno (esattamente un mese dopo la chiusura dell'indagine).
Al momento della marcia su Roma aveva chiesto senza risultato poteri straordinari al Re per disperdere le colonne fasciste (che a suo dire si sarebbero volatilizzate al primo sparo), tanto che con l'avvento del Duce al governo aveva lasciato il comando dell'esercito al generale Giuseppe F. Ferrari, chiedendo ed ottenendo di essere inviato come ambasciatore in Brasile, salvo poi ritornare in Italia dopo la nomina a nuovo Capo di Stato Maggiore Generale (con la riconferma temporanea a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, incarico poi lasciato al solito Ferrari nel 1927), col grado nuovo di pacca di Maresciallo d'Italia conferitogli il 25 giugno 1926.
Un ultimo appunto.
Badoglio non fu l'unico ad essere insignito di tale esclusivo grado, destinato a premiare quegli alti ufficiali distintisi nel corso della Grande Guerra: tra i meritevoli vi fu anche il Generale Enrico Caviglia, il quale però così si esprimeva, alla data del 26 maggio 1925, nel suo Diario (aprile 1925-marzo 1945), edito da Gherardini Casini Editore, Roma, 1952 (pagg. 4-5):
"Oggi tutti restano silenziosi davanti alla nomina di Badoglio a capo di Stato Maggiore dell’Esercito, con l’incarico di organizzare la difesa della nazione. Nulla di più burlesco che preporre alla difesa della Nazione l’eroe di Caporetto, il quale, essendo stato sfondato il suo corpo di armata, fuggì abbandonando prima tre divisioni, poi ancora una quarta, e portò il panico nelle retrovie. La sua fuga, indipendentemente dalla sconfitta, causò la perdita di quarantamila soldati italiani fra morti, feriti e prigionieri, da lui abbandonati il 24 ottobre 1917 al di là dell’Isonzo. Tutti lo sanno e fanno finta di non saperlo. Che cosa debbono pensare gli ufficiali italiani che lo hanno visto fuggire o quelli che ne hanno sentito parlare? Essi non possono che diventare scettici sull’onor militare, sulla giustizia militare, sulle leggi militari, sulla serietà del governo e della Dinastia"
Evidentemente tutti i riconoscimenti militari e politici ricevuti non preservarono Badoglio dai sospetti di aver avuto una carriera un po', diciamo così, "aiutata" (rimando per quanto attiene questo specifico punto a questo link).
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L'attuale Kobarid (Caporetto), ora in territorio sloveno, vicinissima al confine italiano. Sullo sfondo il fiume Isonzo |
16. LA RICONQUISTA DEL FEZZAN
Appena sbarcato a Tripoli insieme col fedelissimo vice Domenico Siciliani, posto a capo della Cirenaica, già suo collaboratore allo Stato Maggiore e poi suo addetto militare a Rio De Janeiro, il neo nominato governatore unico emise subito un durissimo proclama rivolto verso tutta la popolazione locale:
"Se mi obbligate alla guerra la farò con criteri e mezzi potenti di cui rimarrà il ricordo. Nessun ribelle avrà pace: non lui, né la sua famiglia, né i suoi arredi, né i suoi armenti. Distruggerò tutto, uomini e cose. Questa è la mia prima parola, ma è anche l'ultima".
Dopo la solita stasi della stagione delle piogge nella primavera del 1929 Badoglio passò decisamente all'offensiva nel Fezzan, nel quale le truppe italiane dopo i successi dell'anno precedente avevano ormai stabilito solidi punti d'appoggio ben collegati tra loro dai quali fare partire un'azione combinata, rapida e letale.
La parte occidentale di quello sterminato deserto era dominata dalle bande di Salem el Ateusc, di Abd en Nebi Belcher e Mohammed ben Hassel, quella orientale dalle tribù dei due fratelli Ahmed e Suleiman Sef en Nasser, quelli già battuti con bravura e tanta fortuna da Graziani a Tagrift poco più di un anno prima.
Lo scopo dell'azione per Badoglio era l'occupazione dell'intero Fezzan, sulla base di una ben precisa strategia:
"Affrontare e liquidare successivamente, uno alla volta, sempre quando possibile, i vari nuclei in cui appariva frazionato l'avversario, e sempre in condizioni di avere il sopravvento anche nel caso sfavorevole che il nemico riuscisse ad opporci una massa unica".
Per far questo vennero mobilitate in totale segretezza sin dalla fine di novembre del 1928 tre poderose colonne al comando del solito Rodolfo Graziani, che dovevano agire con la copertura aerea dei caccia Ro.1 e dei bombardieri Caproni Ca. 73 basati ad Hon, Sirte e Tripoli.
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Cacciabombardieri Caproni Ca.73 basati a terra
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La colonna mobile dello Sciuref, posta agli ordini di S.A.R. il Duca delle Puglie Amedeo di Savoia-Aosta, era composta di due raggruppamenti sahariani (entrambi su due gruppi più una sezione di artiglieria, al comando rispettivamente del tenente colonnello Ferrari Orsi e del tenente colonnello Amato), con al seguito una carovana di 700 dromedari con aliquote dei servizi, due mesi di viveri e 17 giornate di acqua, utili a superare la marcia lungo 260 chilometri di deserto.
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S.A.R. Amedeo di Savoia-Aosta |
Quella orientale del colonnello Cubeddu era costituita da un battaglione eritreo autoportato, una squadriglia di autoblindomitragliatrici ed un autogruppo di manovra su 286 carri, per costituire la futura base di Brach.
Quella di Derg, comandata dal tenente colonnello Moramarco, infine, si componeva di un gruppo sahariano, uno squadrone di meharisti ed una sezione di artiglieria sahariana con idonei nuclei logistici (sul suo stendardo campeggiava il motto: "Usque ad finem").
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Una scena del film "Il Leone del deserto" |
Sin dal 5 dicembre successivo la colonna del Duca d'Aosta giunse, praticamente senza incontrare alcuna resistenza, nella città di Brach, dove venne anche ritrovata e rimessa in ordine la tomba della MOVM capitano De Dominicis, caduto durante la spedizione Miani di quindici anni prima, la cui salma sarebbe poi stata traslata nel Mausoleo delle Medaglie d'oro di Tripoli: dopo l'immediato atto di sottomissione dei notabili locali venne allestito un nuovo presidio al comando del tenente colonnello Natale.
Dopo la successiva occupazione del 13 dicembre successivo, incruenta anch'essa, pure della capitale storica del Fezzan, Sebha, da parte stavolta della colonna orientale di Cabeddu insieme col gruppo irregolare Ghibla al comando di Chalifa Zaui, Graziani raggiunse il Duca d'Aosta in aereo da Tripoli con l'ordine per le tre colonne concordato con Badoglio di incalzare risolutamente i ribelli in fuga: ecco perché, anziché proseguire direttamente verso Murzuch, l'attuale capitale della regione, Graziani comandò una improvvisa svolta a sinistra per sconfiggere una volta per tutte i due fratelli Seif en Nasser.
Comandò quindi l'avanzata prima sull'oasi di Umm el Araneb, occupata l'8 gennaio, e poi su Uao el Kebir, distante da Sebha ben 360 chilometri, in cui il 1° raggruppamento sahariano di Ferrari Orsi con l'aiuto di un gruppo di zaptiè e l'appoggio aereo di tre RO.1 della 89° squadriglia al comando del capitano Mazzini sconfisse il 13 gennaio le orde dei due fratelli ribelli, costretti a rifugiarsi nella lontana oasi di Cufra.
Solo allora Graziani fece finalmente convergere le sue truppe su Murzuch, tornata italiana il 21 gennaio 1929, sedici anni dopo l'abbandono delle forze di Miani, grazie alle colonne avanzanti del Duca delle Puglie.
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La bandiera italiana garrisce a Murzuch
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La campagna nel Fezzan orientale si concluse così dopo otto settimane con solo 15 feriti nelle file italiane, tutti a seguito del combattimento di Uao el Kebir, mentre si ebbero 110 morti nel campo nemico, oltre alla cattura di 400 prigionieri (la maggior parte donne), 148 fucili, 20.000 cartucce, 302 animali, 1400 tende e 1000 quintali di derrate.
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Badoglio ed il Duca d'Aosta a colloquio a Murzuch |
Restava ormai solo il Fezzan occidentale da pacificare, con le residue forze di Abd en Nebi Belcher, Mohammed ben Hassel e soprattutto dei due fratelli Sef en Nasser impegnate in una disperata fuga verso il confine algerino, con gli italiani alle calcagna.
Quattro giorni dopo la conquista di Murzuch le truppe di Amedeo d'Aosta partirono alla volta dell'oasi di Ubari, che occuparono il 28 gennaio apprestandovi subito un campo per l'aviazione in vista delle imminenti operazioni nella parte occidentale della regione.
Graziani ordinò al gruppo irregolare indigeno Ghibla, forte di 370 uomini, di lanciarsi il 2 febbraio da Murzuch verso Ghat, in un'infernale corsa di circa 400 chilometri all'inseguimento dei 200 Orfella di Abd en Nebi Belcher, cui si erano aggiunti nel frattempo circa 800 altri armati di varie tribù, i Misciascia di Mohamed ben Haag Hassen, gli Aulad Bu Sef di Mohamed ben Hassel ed altre poche centinaia di vari gruppi probabilmente riconducibili ai due fratelli Sef en Nasser fuggiti a Cufra.
Solo dopo altri due giorni, una volta ricevuti rifornimenti da Hon, inviò i raggruppamenti sahariani, in direzione di El Auenat.
Il clima torrido e le frequentissime tempeste di sabbia impedirono però a questi ultimi di prendere contatto una volta per tutte con il nemico, peraltro assai appesantito dalla presenza delle famiglie e degli armenti e ormai tallonato da presso dagli irregolari della colonna Ghibla.
Tra il 13 ed il 14 febbraio vi fu un ultimo tentativo delle colonne mobili di agganciare i ribelli in fuga, incalzati peraltro costantemente dai Caproni Ca. 73 della Regia Aeronautica decollati da Ubari, i primi velivoli italiani interamente di struttura metallica, che più volte li attaccarono con le loro bombe, l'ultima delle quali all'altezza dei pozzi di Tachiomet, ma quando venne da parte francese comunicato agli italiani che Abd en Nebi Belcher coi suoi Orfella aveva ormai passato il confine algerino e si era spontaneamente consegnato ai militari francesi di Fort Charlet, che avevano proceduto al suo immediato disarmo, Graziani ordinò di cessare l'inseguimento e ritornare ad El Auenat.
L'intero Fezzan era ormai sotto controllo italiano.
Giunti a quel punto parte dei Mogarba e degli Auaghir, pure ostili fino ad allora, decisero di sottomettersi anch'essi, tutti tranne l'indomabile capo Mogarba, Salem El Ateusc, fuggito con i suoi 100 fedelissimi a Cufra, ritornando pacificamente nelle loro terre e lasciando spontaneamente agli italiani tutte le loro armi e munizioni.
Pure Suleiman Sef en Nasser, uno dei due fratelli, avrebbe continuato la lotta ad oltranza contro gli italiani, trovando la morte insieme col figlio in un piccolo conflitto a fuoco nei pressi di Zella il 26 marzo 1930.
Proseguendo verso sud intorno al 20 febbraio le colonne mobili italiane sarebbero tuttavia giunte quasi fino ai confini col Ciad francese, ed il 28 aprile 1930 una pattuglia di sahariani al comando del tenente Predieri si sarebbe addirittura spinta fino a Bir el Uaar (il passo difficile), fra i monti di Tummi al confine con l'Africa occidentale francese, cioè a ben 1500 chilometri dalla costa mediterranea di partenza!!!
La Revue Militaire Francaise nel 1931 avrebbe scritto su quest'impresa:
"(...) è stata eseguita con modesti effettivi, 2500 uomini, e con un minimo di perdite. L'importanza dell'organizzazione messa in opera, la rapidità della concezione ed esecuzione hanno impedito che il nemico opponesse una resistenza seria".
17. IL FALLIMENTO DELLE TRATTATIVE CON IL GRAN SENUSSO
Pacificato finalmente il Fezzan non restava che una cosa da fare a questo punto: conquistare una volta per tutte la Cirenaica.
A dir la verità, qui si era preferito per lungo tempo adottare una strategia ben più prudente e Badoglio aveva incaricato il fido Siciliani di avviare con gli emissari senussiti delle trattative per arrivare ad una soluzione pacifica dell'ormai lunga guerra.
Ad esse venne ovviamente chiamato a partecipare anche Omar Al Mukhtar, che in tal modo ottenne di fatto una sorta di legittimazione non più solo morale, ma proprio politica della sua figura.
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Omar Al Mukhtar invitato a partecipare con altri notabili senussiti ai colloqui di pace nel giugno 1929
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I colloqui sembravano procedere abbastanza speditamente verso la sospirata pacificazione, tanto che nel giugno di quello stesso anno si giunse alla stipulazione di una tregua di due mesi, ma improvvisamente il successivo 20 ottobre lo stesso indomabile imam senussita, che accusava gli italiani di doppiogioco per l'intento di mettergli contro Mohammed er Reda, dichiarò unilateralmente il fallimento delle trattative e passò risolutamente di nuovo all'offensiva, ordinando ai suoi l'8 novembre 1929 di attaccare una pattuglia di sei carabinieri italiani usciti nel deserto a riparare una linea telegrafica a Gasr Benigdem, e causando la morte di quattro di essi, ed il giorno successivo di razziare il bestiame di una tribù sottomessasi agli italiani.
A quel punto da parte di Badoglio si decise di "rompere qualunque forma di trattativa o di tolleranza verso i ribelli" e si diede immediatamente il via ad una serie di imponenti rastrellamenti in forze, mentre lo stesso Omar Al Mukhtar veniva ufficialmente definito il 10 gennaio 1930 da Siciliani come "traditore", con la promessa di una "lotta senza quartiere".
Rodolfo Graziani promosso Vicegovernatore di Cirenaica
Ma non sarebbe stato Domenico Siciliani a condurre questa lotta.
Due mesi dopo, a marzo, il vicegovernatore venne infatti avvicendato dall'ormai celeberrimo Rodolfo Graziani, imposto a Badoglio da De Bono in persona, nel frattempo promosso Ministro delle Colonie, in quanto ritenuto "più energico".
Una scelta accolta con grande scorno dal generale piemontese, che non amava assolutamente il nuovo sottoposto e riteneva il più giovane Graziani una sorta di "parvenu", non alla sua altezza, ma soprattutto era gelosissimo della sua popolarità presso Mussolini e gli italiani tutti.
Tra i due generali ci sarebbe stata sempre una convivenza difficile, che le vicende degli anni successivi non avrebbero fatto altro che aggravare trasformando quella che all'inizio era una reciproca insofferenza in vero e proprio odio, in un crescendo rossiniano giunto fino al punto in cui i due si sarebbero trovati di fatto nemici dopo l'8 settembre, con Badoglio capo del governo monarchico italiano legittimo filo alleato e Graziani al comando delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana rimasta fedele (e di fatto in ostaggio) alla Germania.
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Graziani durante la rivolta senussita |
Ma ci siamo spostati troppo in là.
In quel momento Badoglio e Graziani erano costretti a collaborare insieme contro il nemico comune.
Ed ancora una volta Rodolfo Graziani, il piccolo borghese divenuto celebrato generale, ed Omar Al Mukhtar, l'imam senussita trasformatosi nel nemico pubblico numero uno, si sarebbero affrontati con le armi, in quello che sarebbe stato l'ultimo loro scontro.
Quello decisivo.
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Un intenso primo piano di Omar Al Mukhtar |
Cambio di strategia
Occorreva a quel punto un radicale cambio di strategia.
Badoglio, il 20 giugno 1930, l'avrebbe teorizzato così:
"Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguire anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica".
Era ormai la guerra totale, spietata, ingiusta.
E Graziani era stato chiamato proprio per questo.
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Mussolini (Rod Steiger) e Graziani (Oliver Reed) a Palazzo Venezia, in una scena tratta dal film Il Leone del Deserto |
18. L'ARRESTO DEI CAPI SENUSSITI ED IL SEQUESTRO DEI LORO BENI
L'arrivo di Graziani sulla scena libica fu sin da subito impetuoso.
Già il 29 maggio 1930 il generale italiano decise di fare arrestare i capi delle zawaya senussite della Cirenaica e di far incamerare i beni delle strutture religiose dal demanio.
Trenta furono i capi senussiti arrestati, e tutti vennero trasferiti in Italia.
Era una decisione assolutamente dirompente, da almeno un paio d'anni minacciata ma mai attuata dagli italiani per paura delle ripercussioni sulla popolazione libica, ma aveva una serie di validi scopi, tutti va detto effettivamente conseguiti:
1) abbattere il potere carismatico dei capi senussiti;
2) prosciugare le loro principali fonti di finanziamento;
3) restituire le zawaya, quasi tutte appartenenti in origine al demanio ottomano o sottratte dai Senussi ai legittimi proprietari autoctoni durante il ripiegamento degli italiani sulla costa, agli originari titolari, destinando formalmente le somme incamerate alla costruzione di nuove moschee a favore della popolazione;
4) favorire pertanto la creazione di un cuneo sempre più grosso tra i ribelli e le tribù che al contrario accettavano la dominazione italiana.
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L'oasi di Giarabub vista da un ricognitore italiano |
Il provvedimento di sequestro, all'inizio limitato ai soli beni religiosi proprio per evidenziare l'intento di voler colpire l'Istituzione Senussita e non le persone, venne nel giro di poco tempo esteso per espressa volontà di Badoglio anche alla Tripolitania ed ai beni personali dei capi rivoltosi, che si videro così di punto in bianco franare sotto i piedi del tutto quel retroterra di rapporti, ma anche ricatti, omertà, amicizie, patti di sangue, flussi di denaro, complicità diffuse, possibilità di nascondigli, di appoggi, di forniture clandestine continue di armi, bestiame e materiali che ne aveva fino a quel momento indiscutibilmente favorito la lotta armata su tutto il territorio.
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Graziani (Anthony Quinn) e Amedeo D'Aosta (Sky Dumont) , in un fotogramma tratto dal film Il Leone del Deserto. |
Il Leone del deserto ne fu profondamente danneggiato, in maniera probabilmente irreparabile.
Ma era solo l'inizio.
19. LE DEPORTAZIONI DELLE POPOLAZIONI DEL GEBEL ACHBAR
Nell'intento di chiudere una volta per tutte i conti con i ribelli e le tribù che li fiancheggiavano, Badoglio in persona, come abbiamo visto fautore della linea dura come e più di Graziani, in stretta connessione con Mussolini, e strenuo sostenitore della teoria tradizionale romana del divide et impera, decise di procedere alla deportazione coatta di tutta la popolazione (vecchi, donne e bambini compresi) residente nel Gebel al Akhdar, la "famigerata" Montagna Verde, presso cui Omar al Mukhtar aveva sempre trovato ricovero, assistenza e protezione nelle sue razzie contro gli italiani e i clan ad essi vicini.
Costretta a trasferirsi a tappe forzate con una marcia di ben mille chilometri sulla costa desertica della Sirte, tutta questa povera massa di disgraziati morti di fame e con le pezze al culo, circa 100000 persone, venne internata per intero in 13 appositi ed invivibili campi di concentramento, nei dintorni di Bengasi, a Marsa Brega, Soluch, Agedabia, El Agheila, Sidi Ahmed, Ain Gazala, Al Magrun, El Abiar, mentre solo pochi tra essi riuscivano in qualche modo a scappare verso il confine egiziano.
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Il campo di Al Abiar |
Nonostante la propaganda del regime descrivesse quelle strutture come ottimo esempio di moderna civilizzazione gestita con criteri ineccepibili di efficienza e igiene, la promiscuità e le condizioni di vita miserevoli di quei tristissimi campi, dove regnavano sovraffollamento, sottoalimentazione e totale mancanza di igiene ed in cui era assente una vera assistenza medica (in campi con migliaia di deportati spesso il medico era uno solo!), ovviamente favorivano l'insorgere di malattie infettive che portavano ad una estrema mortalità, sia degli uomini che degli animali che questi si erano portati con loro nel corso di quella tristissima anabasi, e mentre la fame e la sete regnavano sovrane ogni minima violazione delle regole portava ad una immediata e spietata punizione (spesso la fucilazione sul posto, tante volte persino l'abbandono nel deserto senza viveri e senza acqua, anche a danni di donne e bambini).
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La distribuzione del rancio al El Magrun
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Decine di migliaia di persone sarebbero morte in quell'inferno dantesco, e assieme ad esse la gran parte dei loro armenti (oltre il 90% degli ovini e circa l'80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica andò perso), che costituivano peraltro la loro unica forma di sostentamento.
Solo nel settembre 1933 quei campi sarebbero stati chiusi.
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Il "campo sportivo" di El Magrun |
Non facemmo decisamente una bella figura, noi italiani, con quei campi.
Anni fa, lo dico come annotazione strettamente personale, non credevo alle denunce di Gheddafi sulla nostra spietatezza di colonizzatori: ebbene approfondendo certi argomenti mi sono dovuto ricredere, anche se resto convinto che, probabilmente, nell'ottica dell'epoca un certo modo di agire fosse in qualche modo "normale" e comunque, al di fuori degli aspetti puramente legati alle vicende belliche, il nostro colonialismo sia stato assai più compassionevole e "costruttivo" degli altri, azzarderei a dire persino senza quei connotati decisamente razzisti che hanno contraddistinto altre esperienze similari.
Al di là di queste considerazioni, tuttavia, è innegabile come questa decisione inumana, che sconvolse l'intero mondo arabo e non solo, per bocca dello stesso Omar Al Mukhtar ebbe un ruolo assolutamente decisivo nella sconfitta dell'indomabile guerriero senussita.
20. LA BARRIERA DI FILO SPINATO AL CONFINE CON L'EGITTO
Infine, il terzo colpo di maglio, quello che costituì il vero e proprio colpo di grazia alle speranze di Omar, fu inferto ancora una volta da Rodolfo Graziani quando prese la decisione di far costruire un imponente reticolato di filo spinato lungo ben 270 chilometri ai confini con l'Egitto tra la piazzaforte portuale di Bardia e l'oasi di Giarabub, capitale della confraternita senussita.
Allestita tra aprile e settembre del 1931, grazie al lavoro di 2500 indigeni guardati a vista da 1200 carabinieri, l'enorme barriera spinata, su cui vigilavano sette compagnie di ascari, un gruppo sahariano e persino una intera squadriglia aerea dedicata, con altri forti reparti armati posti tutti a presidio dei vitali pozzi d'acqua che punteggiavano quell'aridissima regione, portò al vero e proprio blocco terrestre delle comunicazioni tra l'entroterra libico e le vicine basi senussite egiziane, causando l'immediato collasso della guerriglia, non più alimentabile con continuità in denaro, uomini, mezzi e materiali dal formidabile retroterra egiziano fino a quel momento libero di agire pressoché indisturbato, nella porosa fluidità di confini tracciati di fatto solo sulla carta e che certo non trovavano facile identificazione su quel terreno desertico, che solo dieci anni dopo sarebbe stato scosso dalle terribili battaglie della seconda guerra mondiale.
In un censimento fatto nell'aprile 1931 risultarono mancare all'appello in Cirenaica circa 60000 indigeni: il frutto crudele di un anno di deportazioni, condanne a morte, decessi per fame, sete e malattie, scontri a fuoco sempre più impari soprattutto nel tentativo vano dei ribelli di violare la barriera di filo spinato tra Cirenaica ed Egitto (si veda L'Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa, di Antonella Randazzo, Edizioni Arterigere, pag. 125).
A questo punto Omar Al Mukhtar era ormai solo nella sua lotta disperata, con poche centinaia di guerriglieri al suo fianco (Badoglio li valutava in non più di sei/settecento).
E destinato inevitabilmente alla sconfitta.
Probabilmente se ne rendeva perfettamente conto ma questo non gli impedì comunque di continuare a combattere.
21. LA GUERRA SPORCA DEGLI ITALIANI IN CIRENAICA
Ormai gli italiani avevano il controllo totale della situazione e subito ne approfittarono, lanciando imponenti operazioni di rastrellamento verso le oasi, fino a quel momento santuari pressoché imprendibili, usando anche l'aeronautica e purtroppo la pur vietata arma chimica, proibita dalle convenzioni internazionali e pur tuttavia usata con larghezza di mezzi, su input diretto di Roma.
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Graziani (Oliver Reed) nel deserto libico, in una scena tratta dal film Il Leone del Deserto |
Il bombardamento aereo di Taizerbo
Il 31 luglio 1930 quattro biplani Romeo Ro. 1 decollati da Gialo al comando del tenente colonnello Roberto Lordi sganciarono sull'oasi di Taizerbo, a nord-ovest di Cufra, 24 bombe da 21 chili, 12 da 12 e ben 320 da 2, tutte caricate ad iprite, nell'intento di colpire la banda di Omar Al Mukhtar, che era stata erroneamente segnalata in zona, una delle preferite da cui era usa lanciare le sue feroci incursioni.
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Un cacciabombardiere ricognitore IMAM Romeo Ro.1 in volo |
Graziani avrebbe così riferito in un rapporto inviato al Ministero:
"Il bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull'oasi di Giululat e di El Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace".
Ma quel giorno i ribelli non c'erano, c'erano solo pastori e contadini.
Forse gli italiani non lo sapevano, forse non se ne resero conto, molto probabilmente non si posero nemmeno il problema. Uno degli scopi dell'incursione era infatti anche quello di verificare concretamente l'effetto dell'iprite sugli esseri umani.
Esiste infatti al riguardo un rapporto del comandante della tenenza dei carabinieri, sopraggiunto sul posto da Cufra molto tempo dopo i fatti su incarico presumibilmente dello stesso colonnello Lordi, che sottoposto ad interrogatorio il ribelle Mohammed Bu Alì Zueia riferì quanto segue:
"(...) Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti.
Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo coperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoriuscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata.
Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano".
L'impatto dei bombardamenti dall'alto sulle oasi ribelli fu devastante.
Da novembre del 1929 al maggio del 1930 furono sganciate dall'aria 43.500 bombe in 1605 ore di volo, non si sa quante effettivamente caricate a gas.
In un telegramma, Badoglio così confermava la tenuta rigorosa della linea della spietatezza a De Bono e Siciliani:
"Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite".
Graziani dal canto suo affermava, in un altro telegramma:
"Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo (...) Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico".
(Ancora L'Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa, di Antonella Randazzo, cit., pagg. 126 ss.)
22. ULTIMO OBIETTIVO: CUFRA
A quel punto tutto era pronto da parte italiana per l'affondo finale, diretto nell'estate 1930 sull'oasi di Cufra, la città santa per eccellenza della Senussia, ormai ultimo bastione rimasto in mano ai ribelli (Graziani la definiva "centro di raccolta di tutto il fuoruscitismo libico"), fino a quel momento assolutamente inviolata dagli italiani, pur essendo stata loro formalmente ceduta sin dal 1919 dall'Egitto come premio per la partecipazione vittoriosa alla Grande Guerra (ovviamente su ordine britannico, di cui l'Egitto era di fatto una sorta di protettorato).
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Manifesto di propaganda italiana durante la riconquista della Libia: come si vede, l'uso del gas era abbastanza scopertamente esibito |
Sulla direttrice Gialo-Bir Zighem, ad opera principalmente di un'autocolonna di 132 macchine e 120 uomini al comando del maggiore Orlando Lorenzini, gli aerei che procedevano in avanscoperta innanzi alla colonna rilevarono la presenza di numerosi pozzi proprio a Bir Zighem, località situata a 400 chilometri da Gialo ed a 200 da Cufra.
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Orlando Lorenzini |
Il 26 agosto 1930 i velivoli ebbero così l'ordine di dirigersi su Cufra e di andare a colpire gli obiettivi di El Giof ed El Tag, dov'erano asserragliati gli uomini di Omar Al Mukhtar.
Questa la viva testimonianza di uno dei piloti coinvolti nell'azione, V. Biano:
"Partiti all'alba (...) gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono finché giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perché il bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono (...) Il gioco continua per tutta la giornata (...) Le carovaniere della speranza diventano un cimitero di morti".
L'autocolonna Lorenzini si lanciò all'inseguimento dei ribelli fino ai confini con l'Egitto, uccidendo al termine di una serie di scontri a fuoco, a detta dello stesso Graziani, 100 ribelli, catturandone 250, tra cui donne e bambini, e passandone per le armi altri 14.
Ma questa prima azione non bastò, perché nuove insurrezioni resero necessaria un'operazione di più vasto respiro contro l'indomabile Cufra.
Stavolta di proporzioni veramente imponenti.
Possiamo immaginarlo vedendo queste due tavole, disegnate da Alberto Parducci, che mostrano plasticamente quale fosse la consistenza di un gruppo sahariano e più in generale delle forze messe a disposizione del Regio Corpo Truppe Coloniali Italiane.
Al comando del Generale Riccardo Ronchetti, che aveva come suo vice S.A.R. il Duca delle Puglie Amedeo Dì Savoia-Aosta, si mosse l'intero Regio Corpo delle Truppe Coloniali di Cirenaica, col concorso anche di elementi del RCTC della Tripolitania:
- le forze cammellate della Cirenaica al comando del tenente colonnello Pietro Maletti, per un totale di 3000 cammelli, composte da un raggruppamento sahariano su due gruppi, con una sezione di artiglieria cammellata con 20 ufficiali e 20 pezzi, più il supporto di un gruppo sahariano della Tripolitania su 3 plotoni di 100 uomini e di un gruppo di 100 irregolari Mogarba, tutti quanti con 40 giornate di viveri e 8 di acqua;
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Pietro Maletti |
- l'autocolonna Lorenzini, con un reparto speciale "FIAT" di 220 autocarri con materiali vari, integrata da una squadriglia di autoblindomitragliatrici del RCTC Tripolitania, un totale di circa 300 tra automezzi, blindati e sembra persino qualche carro armato FIAT 3000.
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Attendamento delle autoblindo sul Seir |
Dall'aria vigilavano i venti apparecchi Romeo del comando Tripolitania agli ordini del tenente colonnello Lordi, con un rifornimento completo per otto giornate di volo a 100 ore giornaliere ed una dotazione di 1400 bombe da lancio, oltre ovviamente al normale armamento di bordo (una mitragliatrice Vickers da 7,7 mm fissa in caccia ed una Lewis sempre da 7,7 mm brandeggiabile per l'osservatore posto dietro al pilota).
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Graziani ed Amedeo d'Aosta entrano a Cufra
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Partiti il 20 dicembre 1930 dalla lontana base di Agedabia, affidata al comando del colonnello Marinoni, le due colonne mobili, per un totale di circa 3000 uomini, marciando col caratteristico sistema a losanga tipico del deserto, preceduti dalle autoblinde e sotto la costante protezione aerea assicurata dai biplani di Lordi, dopo aver superato non senza difficoltà due giorni di furiosa tempesta di pioggia e di sabbia giunsero a Gialo la sera del 1° gennaio 1931, per poi ricongiungersi tutte il 9 gennaio a Bir Zighen: le truppe cammellate addirittura dopo un percorso di ben 850 chilometri nel deserto.
Qui giunte le due colonne si fermarono per riposare e vennero raggiunte tre giorni dopo da Rodolfo Graziani, arrivato in aereo da Bengasi insieme con molti degli aerei messi a disposizione per l'operazione e deciso a dirigere le operazioni in prima persona.
Il giorno 18 le prime ricognizioni aeree su Cufra rilevarono la presenza di gruppi nomadi, accampamenti e cammelli nella zona di El Giof, senza però particolari attività ostili: i circa 500 ribelli ancora presenti nell'oasi in effetti non erano particolarmente in allarme, in quanto non sapevano dell'imponente spedizione italiana e ritenevano di poter respingere agevolmente il gruppo sahariano tripolitano, l'unico che avevano avvistato.
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Il Generale Domenico Siciliani sul castello di El Tag insieme col Governatore della Somalia Maurizio Rava |
Alle 10 di mattina del 19 gennaio circa 400 ribelli vennero avvistati dall'aria mentre si accingevano ad attaccare, superato il margine nord dell'oasi di El-Hauuari, la sopravveniente colonna Canapini, che venne avvertita e si dispose quindi prontamente al combattimento.
Mentre i ribelli si scagliavano risolutamente all'attacco contro gli italiani vennero però presi d'infilata tra due fuochi, in quanto sopraggiunse alle loro spalle a sua volta di sorpresa il raggruppamento cammellato di Maletti che li caricò, costringendoli a tentare una impossibile manovra divergente su entrambe le ali per sfuggire al totale annientamento, senza successo.
La ritirata della mehalla ribelle si trasformò in rovinosa rotta verso i rifugi di El Giof e di El Tag, che vennero però raggiunti verso le 12,30 da otto aerei italiani che li martellarono per una buona mezz'ora, soprattutto il primo, bombardando e spezzonando senza pietà le posizioni nemiche.
Alla fine della battaglia, durata tre ore, restarono sul terreno un centinaio di mujahedeen, tra cui diversi capi, 13 furono fatti prigionieri, e si catturarono un centinaio di fucili e molte casse di munizioni. Tutto questo al prezzo di quattro morti da parte italiana (due ascari e due ufficiali italiani, i tenenti Helzel e Pipitene) e 16 feriti.
La battaglia per Cufra era vinta.
Il giorno dopo, il 20 gennaio 1931, le truppe italiane occupavano ufficialmente l'oasi, mentre circa 500 beduini, riferì il britannico The Times, si dirigevano disperatamente, senza viveri ed acqua e sotto il martellamento continuo ad ondate dell'aviazione, verso l'Egitto e verso il Tibesti, inseguiti senza tregua da tre plotoni del 3° gruppo sahariano della Tripolitania: almeno 200, secondo le fonti ufficiali italiane, furono i morti rinvenuti tra i fuggitivi dai plotoni inseguitori.
Nei tre giorni successivi all'occupazione furono rinvenuti a El Tag ed El Giof circa 150 fucili, depositi di armi e munizioni, 3 mitragliatrici e 3 cannoni.
Tre giorni di violenze e atrocità a Cufra
Purtroppo diverse fonti riferiscono anche di violenze e atrocità impressionanti causate in quei tre giorni dalle truppe coloniali italiane ai danni dei residenti dell'oasi: si parla di circa 180/200 morti, tra cui 17 capi senussi impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate e sodomizzate, 50 fucilazioni, 40 esecuzioni con accette, baionette e sciabole, teste e genitali mozzati esposti in pubblico a mo' di trofeo, violenze inenarrabili ai danni di donne gravide e dei loro feti, torture bestiali su bambini e vecchi che faccio fatica francamente a scrivere qui...
E' assai probabile che la stragrande maggioranza se non tutte queste orrende infamità, che avvennero di sicuro anche se la loro reale dimensione probabilmente resterà sempre sconosciuta e forse è stata anche un po' esagerata, si dovesse alle truppe indigene ed agli irregolari presenti in gran massa tra le fila italiane, ma di sicuro le autorità italiane poco o nulla fecero probabilmente per impedirle: è vero, purtroppo entravano in gioco questioni di etnia, religiose, sgarbi o veri e propri odii magari anche personali o familiari, lunghi pure di anni, tra clan rivali su fronti opposti, e certo gli italiani non avevano voglia né interesse ad entrarvi in mezzo, tuttavia è anche vero che poteva essere utile per loro alimentare tali contrasti per motivi politici, e comunque gente come Badoglio, De Bono o Graziani certo non si facevano particolari scrupoli a strumentalizzare certe rivalità intertribali.
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La repressione italiana della rivolta libica secondo la visione del film Il Leone del Deserto |
Il mondo islamico fu sconvolto da queste notizie e non poche furono le voci nei principali giornali arabi che condannarono fermamente e con sdegno queste condotte vergognose.
Il giornale di Gerusalemme Al Jamia Al Arabia pubblicò il 28 aprile 1931 un manifesto in cui si ricordavano:
"(...)alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo (...) senza avere pietà dei bambini, né dei vecchi (...)"
La Nation Arabe scrisse:
"Noi chiediamo ai signori italiani (...) i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante:"Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"
Una domanda che resta ancora adesso attuale in tutta la sua drammaticissima verità.
Noi in Italia, qualche anno dopo, Cufra l'avremmo ricordata così, in un fumetto.
23. LA CIRENAICA RITORNA TUTTA ITALIANA
Ormai la sorte di Omar Al Mukhtar era segnata.
Se la perdita di Cufra era stata messa nel preventivo e debitamente metabolizzata, micidiali per lui si erano rivelati sia l'impossibilità di contatti con l'Egitto dopo la costruzione del muro di filo spinato, con la conseguente pratica impossibilità di alimentare la guerriglia con denaro, uomini e mezzi, che ancor di più il vulnus psicologico inferto al suo prestigio di leader praticamente invitto fino a quel momento, che aveva portato ad un drastico crollo dei favori della popolazione locale nei suoi confronti, stremata dalla spietatissima cura del duo Badoglio-Graziani suggerita direttamente da Roma e vogliosa ormai solo di pace e tranquillità.
La cattura ed il processo di Omar Al Mukhtar
Inseguito ormai da presso per tutta la regione dalle trionfanti truppe coloniali italiane, che alternavano a bella posta sia le taglie sulla sua testa che vaghi propositi di amnistia in caso di resa, il settantatreenne Leone del deserto con qualche centinaio dei suoi venne alla fine localizzato dall'aviazione italiana nella piana di Got-Ilfù l'11 settembre 1931.
Dopo aver ordinato ai suoi di disperdersi per sfuggire alla cattura venne alla fine preso di mira da uno squadrone di savari libici durante gli scontri di Uadi Bu Taga: dopo la breve scaramuccia, ferito ad un braccio e perso il cavallo, fu alla fine individuato ed arrestato, trasferito in catene a Bardia e da lì trasportato a bordo del cacciatorpediniere Orsini a Bengasi, dove sarebbe stato sottoposto a processo.
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La stessa scena dell'arresto di Omar Al Mukhtar nel film "Il Leone del deserto" (sopra) e nella realtà (sotto)
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Un processo segnato, come dimostra la lettura del telegramma inviato il 14 settembre da Badoglio per ordinare a Graziani di "fare regolare processo e conseguente sentenza, che sarà senza dubbio pena di morte, farla eseguire in uno dei grandi concentramenti popolazione indigena".
Il processo sommario, secondo lo storico italiano Giorgio Candeloro comunque irregolare perché il vecchio combattente avrebbe avuto diritto allo status di prigioniero di guerra, avvenne nel Palazzo Littorio di Bengasi e fu condotto molto per le spicce dal p.m., il colonnello Giuseppe Bedendo.
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Una fase del processo contro Omar Al Mukhtar a Bengasi |
L'accusa di alto tradimento a danno di Omar Al Mukhtar si fondava sulla rottura degli accordi di pace del 1929 e il successivo eccidio di Gasr Benigdem ai danni di quattro militari italiani, oltre che sulle sevizie inflitte nel corso della sua ribellione contro altri prigionieri, ma il vecchio imam contestò sempre in modo orgoglioso e a suo modo sereno di essersi sottomesso agli italiani e negò quindi di essere un traditore, affidandosi per il resto ad Allah.
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L'arringa del capitano Lontano (Luciano Bartolo) (scena tratta dal film Il Leone del Deserto) |
Il difensore d'ufficio di Al Mukhtar, il capitano Roberto Lontano, cercò coraggiosamente di cavalcare questa linea di difesa e chiese le attenuanti generiche per lui, fondate sulla sua età avanzata e sul suo fanatismo religioso, sostenendo il diritto del suo assistito ad essere tutelato dalle norme sul diritto di guerra, non essendosi egli mai sottomesso agli italiani né avendone mai accettato le promesse prebende, ma semmai avendo egli combattuto per la libertà della sua Patria, ma fu tutto inutile.
L'impiccagione del Leone del Deserto
Dopo un solo giorno di dibattimento, il 15 settembre, Omar Al Mukhtar venne riconosciuto colpevole di alto tradimento e condannato a morte mediante impiccagione.
Qui sotto possiamo vedere due distinte fotografie da diversa angolazione dell'impiccagione del Leone del Deserto.
L'esecuzione avvenne alle 9 di mattina del 16 settembre 1931 nel campo di Soluch, a 56 chilometri a sud di Bengasi, affinché fosse visibile a tutti i 20000 internati di quel campo, il più grande di tutti quelli in cui erano stati deportati i beduini del Gebel Al Akhdar, e fosse da monito per il futuro.
Le ultime parole del grande vecchio furono quelle di un tradizionale versetto coranico: "Innā li-llāhi wa innā ilayHi rāgiʿūna" ("A Dio apparteniamo ed a Lui ritorniamo").
Mentre tutto questo dramma si svolgeva innanzi agli occhi attoniti di mezza Libia, il capitano Roberto Lontano giaceva in una cella di rigore e con la carriera irrimediabilmente compromessa, dopo essere stato arrestato e condannato a dieci giorni dalla stessa corte che aveva condannato Omar Al Mukhtar per aver pronunciato la sua arringa "con tono apologetico in contrasto con la figura del reo e colle particolari condizioni di luogo e di ambiente in cui si svolgeva il dibattito".
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L'ultimo discendente di Omar Al Mukhtar |
Nella sua ultima visita di Stato in Italia, prima della sua caduta, Muhammar Gheddafi, indossando una sgargiantissima (e pacchianissima) divisa, con appuntata provocatoriamente sul petto la foto dell'arresto di Omar Al Mukhtar, portò in aereo con sé quello che disse essere l'ultimo anzianissimo discendente vivente del grande patriota libico, ormai costretto alla sedia a rotelle.
Il film su Al Mukhtar finanziato da Gheddafi
La rivolta di Al Mukhtar sarebbe stata narrata nel film "Il Leone del deserto" del 1981, voluto da Muhammar Gheddafi a fini palesemente propagandistici (ed anche ovviamente volutamente esagerati, oltre che in diverse circostanze storicamente inattendibili, sia su certi comportamenti degli italiani e dello stesso Al Mukhtar che nei confronti della dinastia senussita, detronizzata col colpo di Stato del 1969).
Questo film molto impegnativo e a tratti epico, prodotto con gran dispendio di mezzi, con Anthony Quinn nella parte di Al Mukhtar, Oliver Reed in quella di Graziani e Rod Steiger nel ruolo di Mussolini, non fu mai visto in Italia fino al 2009, cioè proprio al momento dell'ultima visita ufficiale del dittatore libico in Italia, quando venne trasmesso da SKY, perché ritenuto "lesivo dell'onore dell'esercito italiano", come disse l'allora sottosegretario alla Difesa Raffaele Costa (si veda QUI).