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Diavolo che scrive al pc

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Tic tic tic tic tic tic

domenica 24 maggio 2015

Quando il Piave mormorava



Questo ragazzo della fotografia si chiamava Riccardo Di Giusto (anche se sembra dalle ultime ricerche che il Di nel cognome fosse di troppo), era nato a Udine il 10 febbraio 1895 e prima di essere chiamato alle armi faceva il ferroviere, dopo essere rimasto orfano in giovanissima età.
Era stato arruolato negli alpini e militava nella 16° compagnia del battaglione CIVIDALE, inquadrato nell'8° reggimento, che insieme ad altre unità della II Armata era schierato ai nostri confini nordorientali, nell'area della catena del Monte Colovrat, estremo lembo di terra italiano attaccato all'attuale Slovenia.
Nella notte del 24 maggio 1915 insieme ai suoi commilitoni cercava in silenzio di oltrepassare il passo Zagradan per arrivare in cima al Monte Natpriciar, a 1042 metri di altezza, nel comune di Drenchia (UD), di fronte a Tolmino, in territorio austriaco.
Vennero sorpresi da una pattuglia di 14 guardie confinarie nemiche, che aprirono il fuoco contro di loro.
Riccardo fu sfortunato, una pallottola nemica sembra che rimbalzò sulla vanga metallica che aveva appesa allo zaino e lo prese in pieno dietro la nuca, ferendolo a morte.
Morì in pochi minuti, invocando la madre.
La sua salma venne pietosamente composta da Don Giovanni Guion, cappellano della chiesa di San Volfango, e tumulata nel cimitero locale.
Dal 1923 riposa nel Cimitero Monumentale di Udine.






Riccardo (Di) Giusto è il primo caduto italiano della Grande Guerra. L'Italia aveva dichiarato guerra all'Austria solo poche ore prima.
Nel corso dei successivi tre anni e mezzo, tanti altri Riccardi, Franceschi, Nicola, Paoli, Antoni, Vincenzi, si sarebbero aggiunti al conto complessivo: i soldati italiani caduti sarebbero stati alla fine 651000, e 589000 le vittime civili. 
Uno spaventoso salasso complessivo di un milione e duecentomila morti, superiore a quello che l'Italia avrebbe sopportato nella seconda guerra mondiale, cui sono razionalmente da aggiungersi anche le tante vittime che immediatamente dopo il conflitto funestarono la penisola a causa dell'influenza cosiddetta "spagnola", rapidamente diffusasi in tutto il mondo tra il 1918 e il 1920 (tra 350000 e 500000 le vittime italiane, 60 milioni di morti in tutto il mondo), probabilmente portata in Europa dalle truppe statunitensi e diffusasi grazie alle condizioni di povertà, carestia, promiscuità, alla mancanza di medicinali e cibo dovute alla devastazioni portate dalla guerra.


Mentre noi, a cent'anni di distanza, pasciuti e satolli come tanti maiali mandati all'ingrasso, ci crogioliamo nel nostro apparente e cieco benessere, senza accorgerci che stiamo perdendo la nostra anima.
Mentre buttiamo a mare le nostre tradizioni, i nostri valori di sempre in cambio dell'Effimero, novello Vitello d'oro che prima o poi finiremo per pagare caro.
Mentre alla cerimonia inaugurale dell'EXPO una bizzarra, ma preferisco dire oscena scelta non si sa di chi (in Italia le puttanate non hanno mai un colpevole) sostituisce nel sacro inno nazionale la frase "Siam pronti alla vita" all'originaria "Siam pronti alla morte", privilegiando il buonismo conformista e flaccido che tanto placa le coscienze delle anime belle di oggi al senso del dovere e del sacrificio che animava comunque tutte le plebi contadine e operaie mandate al macello nel '15-'18, offendendo la memoria anche di Goffredo Mameli, morto a 21 anni durante la disperata difesa della Repubblica Romana, il 6 luglio 1849, combattendo nelle fila garibaldine.


Goffredo Mameli (Genova, 5 settembre 1827- Roma, 6 luglio 1849)

Mentre nel giorno della Pentecoste si preferisce festeggiare anche nei social networks nazionali la suicida scelta irlandese di dare pari dignità all'unione tra maschio e maschio e femmina e femmina rispetto al ben diverso, importante, razionale istituto del matrimonio tra uomo e donna, con un calcio a millenni di storia e tradizioni cattoliche (San Patrizio si rivolterà nella tomba), come se le due cose fossero uguali e il diritto debba per forza regolare anche la semplice affettività e non le conseguenze "naturali" di un'unione potenzialmente fertile (a meno che il fine non sia quello di consentire la possibilità di adottare, visto che ormai l'ideologia gender parla apertamente a proposito della differenziazione maschio-femmina di una semplice questione culturale, e non di natura come indiscutibilmente è...)
Ecco, mentre tutto questo avviene mi fa piacere ricordare invece il sacrificio di quel milione e duecentomila persone di cent'anni fa, la maggior parte non alfabetizzate, povere, senza grilli per la testa, persone abituate a lavorare per pochi spicci da mane a sera, con pochi diritti e tantissimi doveri.
Quelle stesse persone che pure, in nome di ideali o magari semplicemente perché costrette dalla chiamata alle armi, persero la vita in una guerra immane di cui ormai pochi sanno e pochissimi parlano, dimenticando quanto tanto loro dobbiamo per ciò che noi siamo ora.

Caporetto

Il discorso di Peppone che vedete sopra non è così inverosimile come si potrebbe pensare.
In un'epoca di profonde contraddizioni e acerrime rivalità politiche e ideologiche come l'immediato ultimo dopoguerra, non di rado sfociate in gravi fatti di sangue (per non citare le stragi a guerra finita), c'era tuttavia un grandissimo rispetto per chi nel '15-'18 aveva combattuto: lo stesso Palmiro Togliatti, interventista convinto e volontario negli alpini, si commuoveva al ricordo di quei giorni, tragici ed eroici insieme.
Quando il Piave mormorava.

(Dal profilo fb di Fabio De Maio, che ringrazio)



Oggi il Piave non mormora più.
Il bello è che non si può nemmeno dire che non ci sia rispetto.
C'è qualcosa di peggio: indifferenza, dimenticanza, se non addirittura fastidio.
Eppure con quel tragico conflitto si concluse la nostra epopea risorgimentale e acquisimmo finalmente all'Italia anche il Trentino irridento di Cesare Battisti e Damiano Chiesa (che ora, immemore e più satollo di altri, per pure ragioni di opportunismo politico schifa e offende questo Sacro Ricordo ammainando vergognosamente il Tricolore a mezz'asta) e l'indomita Venezia Giulia di Nazario Sauro e Fabio Filzi, di Scipio Slataper e di Guglielmo Oberdan, di Francesco Rismondo e Gianni e Carlo Stuparich...
Quel tragico conflitto c'introdusse nella maniera più drammatica alla Modernità ma ci fece anche sentire finalmente Popolo, Uno, come sempre accade quando si deve combattere per la propria sopravvivenza e solo l'unione e la condivisione degli intenti porta alla salvezza, e tutto questo dopo le contraddittorietà del Risorgimento, dai finti Plebisciti alla guerra civile derubricata ipocritamente a guerra al brigantaggio, dalla famigerata legge Pica all'emigrazione di massa verso America e Australia, dai cannoni di Bava Beccaris all'ostilità della Chiesa, dalle disuguaglianze sociali e territoriali alle avventure coloniali, che a prezzo di così tanti lutti, devastazioni e dolore portò tuttavia al compimento dell'Italia unita sotto un unico Tricolore ed un unico Sentimento nazionale.



Bene o male, l'Italia si fece lì, nelle trincee del Carso, sotto le bombe del San Michele, scambiandosi le sigarette e la grappa prima di partire nei tanti, dissennati assalti all'arma bianca sull'Isonzo, con ordini urlati in italiano e obbediti in dialetto, sotto il crepitio delle mitragliatrici austro-ungariche sull'Ortigara.
L'Italia si fece anche e purtroppo persino nelle ignobili, troppe decimazioni sopportate dai tanti che non reggevano lo stress dei troppi assalti senza senso, o che un senso magari l'avevano, a capire solo quale fosse...
L'Italia si fece nella spontanea complicità dei casini di guerra, nel passo lento e malinconico della gente costretta a sfollare dai paesi occupati e distrutti, negli ospedali militari in cui le prime crocerossine alleviavano le sofferenze dei tanti feriti, con l'opera immane svolta dalle donne che presero il posto dei mariti, dei fratelli, dei figli, dei padri per portare avanti le famiglie, i campi, il lavoro durante l'assenza dei loro cari impegnati sotto le armi.
L'Italia si fece persino con la nascita dei primi prestiti di guerra, pubblicizzati da manifesti come quello qui sotto.


 
L'Italia si fece pure col generosissimo contributo, morale, spirituale, ma anche bellico in tanti casi, corredato da tanti morti, feriti, dispersi, dei Cappellani impegnati sul fronte, nonostante permanesse tra Santa Sede e Casa Savoia il gelo nato con la caduta di Porta Pia, un gelo che solo nel 1929 sarebbe stato sanato, con la solenne stipulazione dei Patti Lateranensi.

Monte San Michele: soldati italiani uccisi dai gas asfissianti



L'Italia finalmente unificata la si deve ai morti dell'Isonzo e del Grappa, dell'Ortigara e dell'Adamello, del Carso, del Sabotino e del San Michele.
Ai morti di Caporetto, sul Piave e nella piana di Vittorio Veneto.
Ma di tutto questo cosa resta, nella memoria immemore di questi tempi decadenti?




Cosa resta, dell'Isonzo e del Grappa, dell'Ortigara e dell'Adamello, del Carso e del Sabotino?
Cosa resta del San Michele e di Caporetto?
Cosa resta del Piave e di Vittorio Veneto?
Cosa resta di tutto questo immane sforzo collettivo, che per la prima volta, a poco più di cinquant'anni dalla Proclamazione del Regno d'Italia, diede effettivo valore al sentimento di una comune Patria?
Resta che sembra non gliene freghi niente proprio più a nessuno.

Museo all'aperto di Redipuglia



Scusaci, Riccardo, se siamo diventati questi.
Non ti abbiamo meritato.
Non abbiamo meritato Battisti, e Filzi, e Sauro, e Chiesa...
Non VI abbiamo meritato, caduti che riposate a Redipuglia, a Oslavia, in mille altri loculi senza nome che ancora adesso punteggiano le zone dove si è combattuto cent'anni fa e che nessuno sa più dove siano, poveri resti sconosciuti a noi.
Ma per fortuna non a Dio.

(Sempre dal profilo fb di Fabio De Maio)

« Cara Nina,
non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque bimbi ancora col latte sulle labbra; e so quanto dovrai lottare e patire per portarli e lasciarli sulla buona strada, che li farà proseguire su quella di suo padre: ma non mi resta a dir altro, che io muoio contento di aver fatto soltanto il mio dovere d’italiano. Siate pur felici, che la mia felicità è soltanto quella che gli italiani hanno saputo e voluto fare il loro dovere. Cara consorte, insegna ai nostri figli che il loro padre fu prima italiano, poi padre e poi uomo. Nazario. »
(Nazario Sauro, Venezia, 20 maggio 1915 - Lettera testamento alla moglie Nina)


Nazario Sauro (Capodistria, 20 settembre 1880- Pola, 10 agosto 1916)


3 commenti:

  1. Vello d'Oro non Vitello... E non sono la stessa cosa...

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    1. L'episodio del Vello d'oro appartiene alla mitologia greca.
      Quello del Vitello d'oro è narrato nella Bibbia: si trattava di un idolo che secondo il racconto gli ebrei avevano cominciato ad adorare al posto del vero e unico Dio, con somma collera di quest'ultimo.
      Hai sbagliato episodio, mi dispiace.

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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