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domenica 4 novembre 2018

Noi che abbiamo vinto a Vittorio Veneto


"SOLO I MORTI HANNO VISTO LA FINE DELLA GUERRA" (Platone)

Sono passati cento anni dal Giorno della Vittoria, il 4 novembre 1918.
Quando ero bambino, tanti anni fa ormai, questo era giorno festivo pieno, si stava a casa da scuola, le caserma "Pisacane", come quelle di tutta Italia, era aperta, si mettevano in mostra i mezzi e la gente sciamava felice tra i viali e i piazzali di quell'immensa struttura militare che in tutti gli altri giorni era sempre chiusa alla cittadinanza: curiosa di vedere tutto, chiedeva informazioni agli ufficiali che si mettevano pazienti a disposizione..
Ma non era una perdita di tempo, non un mero atto dovuto, neppure una scocciatura, vi assicuro, allora era ancora IL GIORNO DELLA VITTORIA, sì, proprio così, tutto maiuscolo e in grassetto: non c'era alcuna vergogna di dirlo, anzi c'erano ancora Rispetto di noi stessi, della nostra Storia, della divisa, e se non c'era magari Amore di Patria c'era comunque sempre il Ricordo di quello che avevano fatto i nostri Padri e Nonni, e io da figlio di ufficiale ricordo bene come quel giorno fosse evidente l'Orgoglio di mio padre e persino dei suoi artiglieri (allora tutti di leva) quando indossando la sciarpa azzurra andava a portare me e tutti gli altri a visitare i mezzi, gli equipaggiamenti, i canoni da 155, tutti sistemati a lustro per la giornata...

Ora non è più così, ora non si parla più di Giorno della Vittoria, si preferisce l'anodina, ipocrita, vuota espressione di Giornata delle Forze Armate e dell'Unità nazionale, non è più giorno festivo, purtroppo non c'è più mio padre e la preferenza politica e ideologica della gente che piace alla gente che piace va per ricorrenze assai più divisive e comunque controverse come il 25 aprile, la Festa della Liberazione (vabbè), e il 2 giugno, la Festa della Repubblica...
Quella che era la Grande Parata dei Fori Imperiali è diventata ormai un confuso affastellamento di reparti militari e civili, e persino di sindaci, presidenti di provincia e prefetti, senza mezzi, senza carri armati, senza niente che potesse offendere le anime belle che odiano, si vergognano o nella migliore delle ipotesi tengono in non cale uno strumento di punta del nostro sistema civile e democratico, di altissimo valore spirituale e morale, di enorme significato professionale come le nostre forze armate, con in prima fila certi presidenti della Camera, esponenti politici in cerca di consenso elettorale e supposti intellettuali di discutibile talento.
Anzi, quasi quasi dobbiamo ringraziare pure che una parata ci sia ancora, dopo anni di incredibile negazione con la ridicola scusa dei costi (figurarsi, con tutti gli sprechi, le regalie e i magna magna di Lor Signori) e dei supposti danni che si farebbero alle strade della Capitale (problemaccio che in effetti, a vedere come sono conciate le strade di Roma nell'epoca della Raggi, potrebbe avere un qualche fondamento, anche se uno potrebbe pensare che, se tanto mi dà tanto, magari una spianata delle buche sotto i cingoli dei carri armati non potrebbe che fare bene...)
Eppure, i Bersaglieri, gli Alpini, gli stupendi "Dimonios" della Brigata Sassari, i Lancieri di Montebello, i Granatieri di Sardegna, gli uomini del San Marco sono sempre, costantemente, permanentemente tra le truppe più applaudite della sfilata.
Il perché c'è.
E risale alla Vittoria del 1918.
Una impresa che è stata, è e sempre sarà un merito esclusivo delle nostre armi e del nostro cuore.
Uno dei pochi, autentici Eventi nazionali di cui andare incondizionatamente Fieri ma che stiamo mandando sempre più nell'oblio.

E allora mi dico tra me e me che forse non è un caso se proprio in questi giorni funestati dalle alluvioni che hanno colpito un po' tutta Italia, causando anche decine di vittime, tra le principali regioni interessate da questa tragedia ci sia stato anche il Veneto, che ha visto proprio i suoi fiumi, la Livenza, il Tagliamento, il Piave gonfiarsi e straripare sotto la pioggia incessante esattamente come accadeva nei medesimi giorni di cento anni fa.
A cent'anni di distanza, forse si sono incazzati anche loro della nostra mancanza di memoria storica.


PARTE PRIMA


LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO 
(13-25 GIUGNO)

1. DOPO LA PRIMA BATTAGLIA DEL PIAVE

Dopo la vittoria della "Prima battaglia del Piave", la cosiddetta "Battaglia d'arresto", combattuta tra il 13 ed il 26 novembre 1917 (con una lunga propaggine fino a fine anno) tra le scalcagnate ma alla fine vittoriose armate italiane apprestatesi a difesa della Pianura Padana sulla direttrice est-ovest Piave-Grappa-Altopiano di Asiago-Trentino e le apparentemente trionfanti truppe austro-ungariche appoggiate da un corposo contingente tedesco (comunque ridotto dopo lo sforzo bellico sostenuto nei venti giorni precedenti), l'onda lunga di Caporetto era stata definitivamente arrestata.
Il ritiro delle truppe tedesche, inviate sul contesissimo fronte francese dove nel frattempo stavano giungendo in massa anche gli americani, aveva bloccato ogni ipotesi di nuovo attacco su grande scala da parte dei soli austro-ungarici, che nel frattempo tra febbraio e marzo erano caduti vittime di una gravissima crisi di vettovagliamento a seguito della fine delle scorte, alla quale nemmeno i tedeschi potevano in qualche modo porre rimedio, visto che ne cominciavano a soffrire pure loro, a causa del blocco navale britannico in Atlantico e del prolungarsi inaspettato del conflitto sul fronte occidentale: sia in Austria che in Germania, peraltro, a causa della drammatica crisi economica che si riverberava sulla gente comune cominciavano ad esserci anche le prime manifestazioni di dissenso, i primi scioperi, i primi ammutinamenti, non di rado accompagnati dalle prime, aperte rivendicazioni di tipo social-comunista rivoluzionario, sia dei militari che delle fasce più popolari, che soprattutto nel caso di Vienna venivano alimentate ancor di più dalle aspirazioni d'indipendenza delle singole Nazioni che componevano il multietnico Impero degli Asburgo.



Di contro, l'afflusso anche sul fronte italiano delle fino allora quasi assenti truppe alleate franco-britanniche, e soprattutto l'invio da parte di Parigi e Londra di materiali, armi, cannoni ed equipaggiamenti moderni, coi quali rimpiazzare almeno in parte tutto ciò che era andato perso dopo Caporetto, aveva consentito di affrontare al meglio quella emergenza, nella quale tutti gli italiani erano riusciti a dare il meglio di loro stessi, compresa l'industria bellica, salita a quasi un milione di addetti anche con l'apporto notevolissimo di personale femminile fino a quel momento quasi escluso dal mondo del lavoro: ben 3.700 stabilimenti sarebbero stati in funzione a giugno del 1918, di cui 1.900 ausiliari per decreto ministeriale, cioè civili ma col personale militarizzato!
In breve tempo, mettendo insieme i soldati già sbandati di Caporetto riuniti negli appositi centri di raccolta, quelli di leva appena arrivati, tra cui i giovanissimi delle classi '98 e '99,  e persino i soggetti già riformati nel recente passato, sarebbero stati ricostituiti ed ampliati addirittura gli organici del Regio Esercito, consentendo così di formare ex novo o ricostituire diverse decine di battaglioni alpini e bersaglieri e soprattutto 104 reggimenti di fanteria, 47 battaglioni complementari e 812 compagnie mitraglieri, portando sotto le armi quasi sei milioni di uomini.
L'artiglieria, uscita distrutta da Caporetto, quando le restavano solo 3.986 pezzi in tutto (di cui 500 arrivati dalla Francia e 300 dall'Inghilterra), si era anch'essa oramai ripresa, con la costituzione di 22 nuovi reggimenti da campagna (188 batterie), 80 batterie pesanti campali, 91 da assedio, 93 da montagna e 75 di bombarde, che portavano ad un numero complessivo di circa 6.000 pezzi, e così pure l'aeronautica, ridotta a 198 velivoli subito dopo il disastro dell'autunno 1917 ed ormai tornata a circa 600 aerei e completamente riorganizzata, con l'avvenuto accorpamento degli idrovolanti della Regia Marina con gli aerei terrestri, i dirigibili e gli aerostati del Corpo Aeronautico dell'Esercito (di cui l'aviazione costituiva originariamente una branca inquadrata nelle specialità Artiglieria e Genio) in un unico organismo autonomo, il neonato Comando Superiore Aeronautica, posto alle dipendenze esclusive del Comando Supremo ed affidato al Maggior Generale Luigi Bongiovanni, ex comandante del VII° C.A. sconfitto a Caporetto, succeduto al Tenente Generale Giovan Battista Morieni, il vero inventore dell'aeronautica militare italiana, passato alla testa del Comando Genio, sua specialità di provenienza.


Di pari passo con tutto questo lavoro, erano poi stati sensibilmente migliorati gli equipaggiamenti, l'addestramento e il vitto, e tutto ciò, unito all'aumento delle paghe (sempre misere, ma almeno paragonabili a quelle che si avevano nella precedente vita civile), ad un aumento degli esoneri per i lavori agricoli, all'introduzione di specifiche assicurazioni ad hoc per i combattenti, ad una più razionale turnazione degli uomini in prima linea ottenuta semplicemente con una più sapiente gestione delle licenze, ad un sempre minor ricorso alla disciplina militare indiscriminata e ad un uso finalmente efficace di quello strumento importantissimo che è la propaganda, ad esempio con la nascita di una decina di giornali di trincea, tanto osteggiati da Cadorna (tra i più famosi La giberna, La tradotta, La ghirba, Signor sì), tutti affidati alla penna di insigni giornalisti e scrittori quali Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Ugo Ojetti e altri, aveva rasserenato i soldati e le loro famiglie e riportato il Regio Esercito ad una condizione migliore rispetto a quella precedente il disastro di ottobre.

Tuttavia, per gli Imperi Centrali quella guerra stava diventando una corsa contro il tempo ed i tedeschi per primi insistevano ogni giorno di più con l'Austria-Ungheria perché la facesse finita con noi, per potersi concentrare poi insieme, tolto finalmente il fastidioso impiccio del fronte italiano, a battere gli anglo-francesi prima che gli americani fossero pronti a intervenire in Europa.
A febbraio, proprio mentre il Consiglio Interalleato di Versailles decideva per un atteggiamento attendista sia sul fronte francese che su quello italiano in vista di un'offensiva generale alleata nella primavera del 1919, quando le truppe americane si sarebbero ormai ben dispiegate in Europa, i due Stati Maggiori tedesco e austro-ungarico concordavano a loro volta invece di lanciare un'offensiva congiunta delle loro truppe sia in Francia che in Italia proprio quella primavera: un impegno solenne che non poteva che essere rafforzato ancor di più dopo la resa ufficiale della Russia, caduta nel gorgo della Rivoluzione bolscevica d'ottobre (ben finanziata dai tedeschi, bisogna dire) che aveva portato alla detronizzazione dello Zar (e poi in seguito allo sterminio suo e della sua famiglia), e firmataria il 3 marzo 1918 dell'armistizio di Brest-Litovsk.
Con la Russia eliminata dalla guerra, l'Austria aveva solo il problema dell'Italia reduce dalla batosta di Caporetto e la Turchia poteva gestire al meglio la lotta contro gli inglesi e gli alleati arabi in Siria e Mesopotamia.
Quanto alla Germania, il Capo di Stato Maggiore tedesco, il Feldmaresciallo Paul von Hindenburg, avrebbe scritto:

"Per la prima volta con il recupero delle grandi unità tedesche dalla Russia si poteva avere una preponderanza delle nostre forze sul fronte francese".

Peppino Garibaldi
(Melbourne, Australia, 29/7/1879- Roma, 19/5/1950)
 qui tenente colonnello della Legione nel 1915
Ecco perché da quel momento in poi tutto sarebbe accelerato verso l'inevitabile scontro finale, anche sul nostro fronte, costretto tra il 23 marzo e l'11 aprile a fare a meno di 15 gruppi di artiglieria pesante e 6 su 11 divisioni alleate in Italia, 4 francesi (le due 64° e 65° del XXXI° C.A. del Generale di Divisione Marie Sixte Francois Rozée d'Infreville, e le due autonome Chasseurs des Alpes 46° e 47°e 2 britanniche (la 5° e la 41° dell'XI° C.A. di Lord Douglas Hewitt Hacking), tutte e sei rimandate in Francia insieme a due nostre, la 3° del Maggior Generale Vittorio Emanuele Pittaluga (brigate Napoli e Salerno) e l'8° del Tenente Generale Giovanni Beruto (Brescia e Alpi), entrambe inquadrate, insieme con il 2° e 3° squadrone del 15° Cavalleggeri di Lodi, il 64° reggimento di marcia ed il II° reparto d'assalto del maggiore Ettore Guasco, nel II° C.A. del Tenente Generale Alberico Albricci.
Oltre agli oltre 32.000 uomini del II° C.A. l'Italia avrebbe inviato in Francia anche circa 60.000 lavoratori inquadrati nel T.A.I.F. (Truppe Ausiliarie Italiane in Francia) e reparti del Genio pontieri e ferrovieri.

[Nota a margine sulla brigata Alpi]
La brigata Alpi era la legittima erede della brigata "Cacciatori delle Alpi" formata nel 1859 dai tre reggimenti di volontari garibaldini in previsione della seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria: proprio per questo essa era posta al comando del colonnello brigadiere Peppino Garibaldi, figlio di Menotti, primogenito dell'omonimo "Eroe dei Due Mondi".

2. LE OFFENSIVE DI LUDENDORFF 







Erich Friedrich Wilhelm Ludendorff
(Kruszewnia, Polonia, 9/4/1865-
Tutzing, Baviera, 20/12/1937)
L'improvvisa partenza di tutte quelle divisioni si era necessaria a seguito delle nuove offensive che i tedeschi, ormai liberi da preoccupazioni sul fronte orientale, avevano scatenato su quello occidentale, dove disponevano ora di ben 180 divisioni!
Frutto ancora una volta dell'ingegno di quell'autentico "genio della guerra" che era Erich Ludendorff, Primo Intendente Generale dello Stato Maggiore Imperiale, ispiratore unico di tutta la strategia germanica e fautore dello scontro frontale con unico obiettivo l'annientamento del nemico, se ne contano da fine marzo a metà giugno almeno quattro, tutte riunificate sotto il termine onnicomprensivo di "Offensiva di primavera", conosciuta anche col nome tedesco di "Kaiserschlacht" (in italiano "Battaglia per l'Imperatore").*

*V. https://it.wikipedia.org/wiki/Offensiva_di_primaverahttp://pochestorie.corriere.it/2018/03/21/grande-guerra-cento-anni-oggi-lultima-scommessa-tedesca-in-occidente/?refresh_ce-cphttps://storiestoria.wordpress.com/tag/le-offensive-tedesche-della-primavera-1918/.  

ARCANGELI, SANTI E DEI


Georg Wetzell
(Nieder-Erlenbach, 5/3/1869-
Augusta, 3/1/1947)
Allo studio erano diverse opzioni offensive, che coprivano un po' tutto l'arco di fronte che andava dalla Piccardia fino alle coste settentrionali davanti alla Manica nei pressi del confine belga e avevano nomi in codice che evocavano arcangeli, santi e dei:

- a nord, a cavallo del confine franco-belga, il piano "Georg", che richiamava il nome del santo vincitore del drago (o forse si chiamava così solo perché elaborato dal principale consigliere strategico di Ludendorff, il tenente colonnello Georg Wetzell?), che prevedeva il passaggio in massa del fiume Lys e la formazione di due distinte punte di penetrazione, una più a sud verso la cittadina francese di Armentières (G. I) ed una seconda diretta più a nord sul Belgio, con obiettivi Ypres e l'ostica altura del Kemmelberg (G. II);

- al centro il piano "Mars", il nome del dio della guerra e delle armi, con obiettivo Arras e Bapaume;

- a sud "Michael", il nome dell'arcangelo protettore della Germania, puntata contro San Quentin.



(Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963, tratto da
https://storiestoria.wordpress.com/tag/le-offensive-tedesche-della-primavera-1918/)
Si trattava di scegliere esattamente il punto focale sul quale dirigere l'attacco, che doveva essere rapido, letale e soprattutto decisivo, visto che l'ormai incombente impiego delle truppe americane obbligava a chiudere la partita sul fronte occidentale con una battaglia definitiva che sancisse la vittoria tedesca o comunque mettesse talmente in difficoltà le forze alleate anglo-francesi da indurre i loro capi a chiedere la pace senza che le truppe statunitensi potessero più intervenire a sparigliare i giochi.
Dopo aver lungamente ponderato i pro e i contro insieme col suo capo Paul von Hindenburg e l'Imperatore in persona, il prussiano Guglielmo II° di Hohenzollern, Erich Ludendorff prese la sua decisione.


Paul Hindenburg, il Kaiser Guglielmo II° ed Erich  Ludendorff studiano sulla mappa le opzioni offensive



















PARTE LA PRIMA OFFENSIVA, "MICHAEL" (21 MARZO- 5 APRILE)


(Fonte: https://www.bergamonews.it/fotogallery/kaiserschlacht-dalloperazione-michael-a-compiegne/3/)



Georg Bruchmueller
(Berlino, 11/12/1863-
Garmisch-Partenkirchen, 26/1/1948)
Alle 04,40 di mattina del 21 marzo 1918 un intensissimo bombardamento di cinque ore tra l'Oise e Saint Quentin, in Piccardia, da parte di più di 6.000 pezzi d'artiglieria e 3.000 mortai condotto con bombe dirompenti e a gas sui centri di comando, le linee di comunicazione, le postazioni d'artiglieria e le linee avanzate delle fanterie del nemico, secondo lo schema tattico introdotto dal colonnello Georg Bruchmueller sul fronte orientale, la "Feuerwalze", la barriera di fuoco (un totale di 3.500.000 di granate, cioè 200 al secondo!), aveva annunciato l'inizio della prima delle offensive imperiali prescelta da Ludendorff, l'Operazione "Michael", ad onta del nome in realtà assai contaminata da elementi dei piani "Georg I" e, soprattutto, "Mars"focalizzata in particolare sul tratto al centro del fronte tra Arras e La Fère, in direzione di Amiens sul saliente della Somme, settore tenuto da due armate britanniche, la III° del Feldmaresciallo canadese Sir Julian Byng e la ex Reserve Army del Tenente Generale irlandese Sir Hubert Gough, ora ridenominata V°, rispettivamente a nord e a sud di Saint Quentin.

Un totale di 42 divisioni, da sud a nord la XVIII° armata del General der Infanterie Oskar von Hutier, tra Saint Quentin e l'Oise, la II° del General der Kavallerie Georg von Marwitz davanti a Peronne e la XVII° del General der Infanterie Otto von Below (il vincitore di Caporetto) in direzione di Arras, avevano il compito di sfondare  nell'esatto punto di congiunzione tra quelle truppe e gli alleati francesi più a sud, nel tratto di fronte tra Bapaume e Saint Simon, nel Pas de Calais.


(Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963, tratto da
https://storiestoria.wordpress.com/tag/le-offensive-tedesche-della-primavera-1918/)

In quella che sarebbe stata chiamata la "Seconda battaglia di Piccardia", mentre la III° armata di Byng più a nord opponeva fino a tutto il 22 una fierissima resistenza a von Below sul saliente di Flesquieres, conquistato un anno prima durante il terribile scontro di Cambrai, la V° di Gough, reduce da una marcia di ben 42 chilometri nei giorni precedenti per venire a prestare soccorso alle stanche e demoralizzate truppe francesi, al contrario sin dal pomeriggio del 21 perdeva Peronne sotto la spinta di von Marwitz e, senza riserve (erano quelle truppe LA riserva!) e quindi con nessuna difesa apprestata nelle sue retrovie, veniva letteralmente travolta da von Hutier più a sud e costretta ad una precipitosa fuga nella seconda linea apprestata oltre il Canale Crozat.





Henri Philippe Benoni Omer Joseph Pétain
(Cauchy à la Tour, 24/4/1856-
Fort de Pierre-LevéeIle d'Yeu, 23/7/1951)
All'avanguardia di ben 18 divisioni tedesche, le temutissime truppe d'assalto, le SturmTruppen o StossTruppen, piccoli reparti scelti spesso non più grandi di un plotone e suddivisi in squadre guidate spesso da un sottufficiale esperto, armate per lo più di lanciafiamme, mitragliatrici e bombe a mano e con sul viso apposite maschere antigas, dopo essersi infiltrate sui lati dello schieramento nemico in più punti erano potute avanzare impunemente nella nebbia fittissima, aggredendo con inaudita efficacia le posizioni più delicate del nemico (centri di comando, postazioni di artiglieria, nidi di mitragliatrice, linee radio-telegrafiche, depositi, reticolati, trincee particolarmente esposte).
C
osì facendo avevano aperto la strada alle fanterie che le seguivano e tagliato completamente fuori  al centro quasi per intero le 15 divisioni di Gough (che contavano già quasi 50.000 perdite, la maggior parte prigionieri), costringendole ad una disastrosa fuga che non le avrebbe però preservate dal finire inevitabilmente circondate in una sacca creata dalla manovra tedesca che andava a chiudersi a tenaglia. 
Era un'azione del tutto simile a quelle compiute a Riga contro i russi e a Caporetto contro gli italiani, ed avveniva senza che il Quartier Generale francese retto dal fino allora idolatrato Philippe Pétain, l'eroe di Verdun, rimasto completamente all'oscuro di tutto per un paio di giorni, adottasse le opportune contromisure!


Douglas Haig, I° Conte (Earl) di Haig
(Charlotte Square, Edimburgo, 19/6/1861-
Londra, 29/1/1928)
Tra il 24 ed il 26 marzo, mentre la V° armata anglo-irlandese combatteva ormai semplicemente per la sua sopravvivenza con mere azioni di retroguardia nel tentativo disperato di evitare il totale collasso del fronte, la confusione ed il malanimo avrebbero regnato tra i capi alleati, ormai impelagatisi nella classica situazione conosciuta come "tutti contro tutti".

Infatti il disperato comandante del corpo di spedizione inglese (B.E.F., British Expeditionary Force), il Feldmaresciallo Sir Douglas Haig, già in urto col suo Premier Sir David Lloyd George per aver avuto nei mesi precedenti solo 100.000 uomini di rinforzo sui 600.000 richiesti, si era visto respingere da Pétain il soccorso delle 20 divisioni francesi del Gruppo Armate di Riserva del Generale Marie Èmilie Fayolle, che il vincitore di Verdun, temendo un tracollo stile Caporetto della V° armata di Gough, intendeva invece ritirare tutte a difesa di Parigi e della Champagne col resto delle sue truppe!


John Joseph Pershing
(Laclede, Missouri, 13/9/1860-
Washington, 15/7/1948)
Poiché anche il Tenente Generale John Pershing, comandante del corpo di spedizione americano (A.E.F., American Expeditionary Forces) si rifiutava a sua volta di inquadrare le sue divisioni appena arrivate agli ordini degli anglo-francesi ("Obstinated, stupid, ridicolous", l'avrebbe apostrofato Haig), il comandante inglese si vedeva costretto a ordinare a Byng di serrare a destra la sua combattiva III° armata verso la provatissima V° di Gough per salvare quest'ultima dall'annientamento: paventando il crollo, Haig scriveva al suo omologo francese Ferdinand Foch, comandante in capo del Fronte occidentale, che lo scollamento definitivo tra le armate britanniche e francesi era ormai "solo questione di tempo", tanto da preconizzare gravemente un possibile ritiro nella Madre Patria del suo esercito, che, continuava testualmente la lettera, "dovrà ritirarsi lentamente combattendo, a coprire i porti della Manica".
Sostanzialmente, l'annuncio di una Dunkerque con 22 anni di anticipo!
Nonostante l'incombente disastro sembrasse ormai a un passo, tanto da indurre il Kaiser Guglielmo II°, presente fino a quel momento al fronte, a ritornare a Berlino assolutamente soddisfatto e convinto della vittoria ormai prossima, tutto questo però non sarebbe avvenuto a causa di un grave errore tattico di Ludendorff.

Ferdinand Foch
(Tarbes, 2/10/1851- Parigi, 20/3/1929)
L'accelerazione imposta dalle sue truppe d'assalto nei primi due giorni dell'offensiva aveva messo in gravissima crisi i servizi logistici ed allungato tremendamente le linee di comunicazione dei tedeschi, impedendo loro di alimentarla con regolarità con nuove riserve, munizioni e vettovaglie e costringendo gli attaccanti, ormai stanchi ed affamati, a uccidere e mangiare i loro stessi quadrupedi, smunti e a pezzi come loro, ed a saccheggiare tutto il saccheggiabile incontrato per strada.
Posto di fronte ad una scelta secca su quale settore a quel punto privilegiare per inviare il poco che gli arrivava, lo stratega tedesco, sbagliando, il 23 marzo aveva deciso di non decidere, continuando a tenere sparpagliate le sue armate in tre distinte direzioni, e così invece che colpire il settore nemico più debole, quello francese più a sud dove la II° armata di von Marwitz e la XVIII° di von Hutier stavano penetrando come un coltello nel burro, focalizzarsi sullo sterile assalto della XVII° di von Below in direzione di Arras, dove ormai gli inglesi della III° armata di Byng e di ciò che restava della V° di Gough (che al termine della battaglia si sarebbe dimesso) si erano asserragliati su posizioni già prestabilite e di fatto quasi insuperabili!
D'altronde, prima dell'inizio dell'offensiva Ludendorff aveva detto al Principe (Kronprinz) Rupprecht di Baviera, uno dei suoi migliori generali:

"Aprite una breccia, il resto verrà di conseguenza!"

Aveva ordinato così alla XVII° armata di von Below sulla destra marciante di muovere a sud di Arras, con la sua ala destra in direzione di St. Pol e quella sinistra verso Abbeville, alla II° di von Marwitz al centro dello schieramento di puntare su Amiens e alla XVIII° di von Hutier a sinistra di dirigersi su  NoyonMontdidier  ancora più a sud, quando invece con gli inglesi ormai praticamente sotto assedio ad Arras un forte cuneo offensivo a sud che facesse perno sulla quasi indifesa Amiens avrebbe potuto provocare dapprima il crollo del dispositivo francese ormai già quasi in tilt e con una conversione a destra verso nord anche l'accerchiamento del corpo di spedizione britannico.
Eppure, nonostante le gravissime difficoltà logistiche e la penuria di riserve e approvvigionamenti le truppe di von Below e von Marwitz avanzavano comunque ancora nella Somme devastata da quattro anni di guerra, ma sempre più ferraginosamente, anche se il secondo era arrivato a Bapaume e poi ad Albert, dove però i suoi uomini, trovati grossi depositi intatti di cibo lasciati dagli inglesi, si erano rifiutati di proseguire: inevitabilmente, arrivati a questo punto l'avanzata tedesca non poteva che cominciare visibilmente a rallentare, col risultato di ottenere risultati sempre più scarsi, concentrati ora soprattutto nel settore sud sotto attacco della XVIII° di von Hutier.

Ludendorff, accortosi dell'errore fatto, aveva così ordinato finalmente alla II° ed alla XVII° armata, con la XVIII° ormai ferma davanti ad Arras, di puntare dritto per dritto su Amiens, ma le sue truppe erano ormai sull'orlo dello sfinimento fisico, soprattutto quelle di von Marwitz che meno aveva adottato la consueta tattica dell'infiltrazione preferendo quella più tradizionale dello scontro frontale, il che oltre a procurargli più perdite l'aveva rallentato e stancato di più, ma ormai era troppo tardi, anche perché nel frattempo, l'insostenibile situazione di anarchia tattica degli alleati si era finalmente risolta.

FOCH POSTO A CAPO DELLE TRUPPE ALLEATE (26 MARZO)

Nella Conferenza di Doullen del 26 marzo, infatti, in seguito ad un accordo politico-militare raggiunto ai più alti livelli proprio Ferdinand Foch, appositamente neopromosso all'altisonante grado di Generalissimo (in italiano!), era stato nominato coordinatore unico delle truppe alleate: un ruolo che forse sarebbe spettato di diritto a Philippe Pétain, se non fosse che quest'ultimo, presentatosi di fronte a quel consesso, come avrebbe riferito in seguito proprio Haig,  con "un aspetto terribile, quello di un comandante che avesse perso il coraggio" ( "... a terrible look. He had the appearance of a commander who have lost his nerve"), a margine di quell'incontro si lasciò sfuggire in un breve colloquio col suo Primo ministro George Clemenceau una frase molto pessimista, "Les Allemands battront les Anglais en rase campagne, après quoi ils nous battront aussi" ("I tedeschi batteranno gli inglesi in campo aperto, poi batteranno anche noi"), tanto che il premier francese avrebbe retoricamente chiesto al Presidente Raymond Poincarè: "Sicuramente un generale non dovrebbe parlare o pensare in questo modo?" 
(V. https://en.wikipedia.org/wiki/Philippe_P%C3%A9tain).





Com'è come non è, senza più impedimenti di alcun genere, Foch ebbe buon gioco a dedicarsi solamente alla difesa di Amiens, facendovi immediatamente affluire 7 divisioni del G.A.R. di Fayolle, mandate subito a tappare la falla che si stava andando a creare tra il settore francese e quello inglese, con una e una sola direttiva:
"Contendere il terreno all'avversario palmo a palmo".


(Fonte: https://www.bergamonews.it/fotogallery/kaiserschlacht-dalloperazione-michael-a-compiegne/12/)
Grazie alla fortissima resistenza di attrito opposta ora dalle truppe alleate, l'Operazione "Michael" , ormai persa completamente la clamorosa inerzia iniziale, andò così spegnendosi ogni giorno di più quasi di morte naturale, fino ad esaurirsi completamente il 5 aprile, quando l'ultima offensiva di von Hutier si arenò a Villers Bretonneaux
Nonostante lo stop imposto dagli alleati e la perdita complessiva di ben 105.000 tedeschi tra caduti, feriti, dispersi e prigionieri (molti veterani del fronte orientale), Ludendorff era comunque riuscito ad avanzare di ben 65 chilometri su un fronte largo 80, e le truppe dell'Intesa avevano perso ben 254.000 uomini (90.000 presi prigionieri), di cui circa 177.000 inglesi e 77.000 francesi, più 1.300 cannoni, 200 carri armati e 2.000 mitragliatrici.



Tuttavia, nonostante la stessa Parigi fosse finita persino sotto tiro della terribile "Grossa Bertha" (Bertha era il nome della moglie del costruttore Krupp), un enorme supercannone ferroviario che la colpiva impunemente da oltre 100 chilometri di distanza, si può dire che il grande colpo di maglio che doveva servire a spaccare in due il fronte unico anglo-francese ed a ricacciare in Inghilterra le forze di Haig era fallito.
Col senno di poi, nonostante i ripetuti tentativi successivi di sfondare e chiudere il lavoro, si può dire che probabilmente la Germania perse la guerra proprio qui!


(Fonte: Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963, tratto da
https://storiestoria.wordpress.com/tag/le-offensive-tedesche-della-primavera-1918/)

TOCCA A "GEORGETTE" (9 APRILE- 29 APRILE)
Solo pochi giorni dopo, il 9 aprile, i tedeschi diedero infatti avvio a una nuova offensiva, la seconda, uno sviluppo in chiave più ridotta del piano "Georg" e che pertanto era stata designata col nome femminile di "Georgette".
Ad onta del nome così leggiadramente gentile, non c'era proprio nulla da scherzare, visto che ben due formidabili armate, per un totale di 61 divisioni, la VI° del General der Infanterie Ferdinand von Quast, con 28, e la IV° del parigrado Friedrich Sixt von Armin, con 33, dovevano stavolta puntare in direzione del fiume Lys nelle Fiandre contro il formidabile saliente di Ypres, autentico bastione da sempre spina nel fianco dei tedeschi, con l'obiettivo finale di aggirare gli inglesi di Haig e spingerli sui porti della Manica, una volta catturato lo strategico nodo ferroviario di Hazebrouck.
A tal fine, dopo il solito "Feuerwalze" di Bruchmueller, iniziato nella notte del 9 aprile, la VI° armata di von Quast si dispiegava lungo l'intera valle del Lys, mentre la IV° di Arnim puntava più a nord dritto per dritto su Armentières.


Alberto I° del Belgio di Sassonia-Coburgo-Gotha
(Bruxelles, 8/4/1875- Marche les Dames, 17/2/1934)
Ad aspettarli trovavano, a nord, gli eroici soldati belgi al diretto comando del loro Re, Alberto I° (padre della nostra ultima regina, Maria Josè del Belgio, andata sposa al "Re di Maggio" Umberto II° di Savoia), al centro la II° armata britannica del Generale Sir Herbert Plumer (13 divisioni), ex comandante delle truppe britanniche in Italia subito dopo Caporetto, a sud la I° armata britannica del parigrado Sir Henry Sinclair Horne (16 divisioni), al cui interno erano inquadrate anche due divisioni lusitane piuttosto stanche e male in arnese, la 1° e la 2° del corpo di spedizione portoghese (C.E.P., Corpo Expedicionario Portugues) del Tenente Generale Fernando Tamagnini de Abreu e Silva, un totale di 55.000 uomini totalmente armati ed equipaggiati con materiale inglese, non sempre di primissima qualità.

Fernando Tamagnini de Abreu e Silva
(Tomar, 13/5/1856- Lisbona, 24/11/1924)
Proprio nel settore tenuto dai portoghesi risiedeva il buco nero del dispositivo alleato: colta nel pieno del suo avvicendamento con altre unità britanniche, la 2° divisione del Generale Josè Augusto de Simas Machado, con la 1° del parigrado Manuel Gomes da Costa ormai passata quasi tutta in retrovia, venne attaccata in massa da 8 divisioni della VI° armata.
Una sproporzione terribile: un totale di 100.000 tedeschi addestrati, motivati e armatissimi contro 20.000 portoghesi stanchi, addestrati un tanto al chilo, disillusi e decisamente meno armati!

Serventi portoghesi di un mortaio tipo Stokes
Nonostante molti episodi di eroismo e l'aiuto immediatamente portato dalla 55° divisione inglese "West Lancashire",  i portoghesi venivano letteralmente travolti in poche ore, con la perdita di un terzo dei loro effettivi (400 caduti e 6.500 prigionieri), e già alle 13,00 del 9 aprile i tedeschi sfondavano per circa 20 chilometri, aprendosi un'autentica autostrada verso Hazenbrouck, ormai a non più di 10 chilometri di distanza.

La breccia nella quale le 11 divisioni tedesche di prima linea stavano penetrando copriva l'intero fronte da Ypres a nord a Loos più a sud, un buco nero di ben 148 chilometri!
Haig, che disponeva di pochissime riserve per il rifiuto persistente di Foch di dargliene altre, terrorizzato di sguarnire i suoi fronti tutti sotto attacco, fece un discorso infiammato alle sue truppe, incitandole all'estrema resistenza:

"(...) Non esistono alternative, non ci resta che combattere fino in fondo. Manterremo le nostre posizioni fino all'ultimo uomo. Non ci sarà ritirata. Con le spalle al muro, convinto della giustezza della nostra causa, ognuno di noi combatterà sino alla fine!"

In quella che ora è conosciuta come la "Quarta battaglia di Ypres" le cose sarebbero già cominciate a cambiare sin dal giorno dopo, quando un coraggioso contrattacco da parte di due divisioni del sopravvenuto XI° C.A. britannico con l'appoggio anche di due battaglioni portoghesi della riserva sarebbero riuscite almeno a rallentare l'impeto nemico nei pressi di Armentières, anche se ben presto anche questa città cadeva.
Da quel momento in poi l'avanzata nemica anche per la fermissima ed impavida resistenza degli inglesi avrebbe conosciuto i soliti problemi già visti con l'offensiva "Michael": una progressiva ed inarrestabile carenza di slancio, aggravata dall'allungamento dalle linee di partenza e dalla scarsità di collegamenti, con la conseguenza di un'alimentazione dell'attacco veramente col contagocce, di saccheggi continui in cerca di cibo fatti da soldati ridotti a macilenti fantasmi con le uniformi ridotte a brandelli, e di una disciplina ridotta per l'incapacità degli ufficiali di tenerli a bada...


Nella battaglia di Kemmel nelle Fiandre, orig. Am Kemmel Schlacht in Flandren, (15-29 aprile 1918), opera di  Wilhelm von Schreuer (1866-1933), a Berlino, presso il Deutsches Historisches Museum




Mentre l'offensiva di von Quast nel versante sud difeso da Horne perdeva progressivamente vigore, pur arrivando i tedeschi ad Estaire, Merville e Bethune, punta più avanzata di penetrazione, in quello più a nord attaccato da von Arnim le truppe di Plumer e quelle belghe del re Alberto, al riparo di sicuri apprestamenti difensivi, non si schiodavano dalle loro posizioni, e pur cedendo, ma a carissimo prezzo, alcuni capisaldi di forte impatto simbolico a sud e a est di Ypres come la cittadina di Bailleul,  il saliente del Kemmelberg, le colline di Messines e da ultimo il villaggio di Passchendaele, tutte località famose dopo essere passate continuamente di mano nelle precedenti tre battaglie, riuscivano però a tenere l'ambitissima cittadina belga.
Alla fine, dopo venti inutili giorni di scontri sanguinosissimi, l'impossibilità di giungere alla linea ferroviaria che collegava  Hazenbrouck a Ypres e quindi di tagliare fuori gli inglesi e buttarli letteralmente in mare convinse Ludendorff il 29 aprile a dichiarare la fine dell'offensiva.

Era un altro nulla di fatto, ma si traduceva in una nuova sconfitta strategica tedesca, la seconda di seguito: questo significava non solo che nel frattempo le linee dei rifornimenti si allungavano ancora, ed aumentavano quindi i problemi logistici, tutto questo senza intaccare le difese nemiche e a prezzi altissimi, che ammontavano a 110.000 perdite per entrambe le parti.
Ma anche che i tedeschi erano al limite, mentre gli anglo-francesi attendevano da un momento all'altro gli americani...


(Fonte: https://www.bergamonews.it/fotogallery/kaiserschlacht-dalloperazione-michael-a-compiegne/8/)
L'OPERAZIONE "BLUCHER-YORCK" (27 MAGGIO-11 GIUGNO)
Mentre tutto questo accadeva, Ferdinand Foch, divenuto nel frattempo Comandante Supremo di tutte le forze dell'Intesa, sin dai primissimi giorni di maggio aveva cominciato a tempestare Armando Diaz di richieste scritte affinché predisponesse nel più breve tempo possibile un attacco in grande stile sugli Altipiani per tenere impegnati gli austro-ungarici, che lui riteneva tuttora in condizioni di inferiorità rispetto a noi, ed impedire loro di soccorrere gli alleati sul fronte occidentale, ma il nostro comandante in capo da quest'orecchio non ci sentiva proprio.
Proprio nel bel mezzo di  questo dialogo tra sordi, però, alle 04,00 di mattina del 27 maggio scattava la terza offensiva di Ludendorff, l'Operazione "Blucher-Yorck", così chiamata in onore di due grandi generali prussiani dell'epoca napoleonica, stavolta diretta verso la Marna e la stessa capitale Parigi con lo scopo di attirare lì tutte le riserve francesi davanti ad Amiens per poterle sconfiggere una volta per tutte e dedicarsi a finire il lavoro contro gli inglesi.

Un terrificante bombardamento di tre ore da parte di 4.000 bocche da fuoco nello stesso stile dei precedenti, condotto con l'utilizzo ancor più massiccio di proietti a gas e diretto sul settore dell'Aisne a sud del saliente formatosi a seguito dell'offensiva di marzo introdusse l'attacco di 42 divisioni tedesche a partire dallo Chemins de Dames, 38 appartenenti alla VII° armata del Generaloberst  Max von Boehn e 4 sull'ala sinistra alla I° del General der Infanterie Bruno von Mudra, poste tutte agli ordini del primo nonostante il formale comando del Principe Ereditario Guglielmo, primogenito dell'Imperatore, e in pochi giorni aumentate di altre 5, per un totale di 47 equivalenti a 60 francesi.
A farne clamorosamente le spese fu la VI° armata francese del Generale di divisione Denis Auguste Duchène (reduce dal comando delle forze alleate in Italia inviate subito dopo Caporetto), integrata da quattro divisioni del IX° C.A. britannico del Tenente Generale Sir Alexander Hamilton Gordon reduci da "Michael" ed inviate con i francesi sullo Chemin de Dames, ritenuto settore tranquillo.

Prendendo troppo alla lettera il proclama di Foch il povero Duchéne aveva però schierato tutte intere le sue forze su una linea di resistenza molto alta, deciso a fare da argine ai tedeschi fino all'ultimo uomo, ma il suo si era rivelato un gravissimo errore.
Colta troppo allo scoperto su una stretta testa di ponte a nord del fiume Aisne e non a sud di esso, e con tutte le sue riserve ammassate tutte insieme e non in profondità, contrariamente in entrambi i casi agli ordini di Pétain, ligio alla più moderna teoria della "difesa elastica", la VI° armata francese venne facilmente aggirata da 12 divisioni tedesche di prima linea, che precedute dalle truppe d'assalto esattamente con lo stesso schema visto sulla Somme sorpresero ed annientarono ben 7 divisioni anglo-francesi di prima linea e 4 di seconda.
A quel punto il generale francese, preso dal panico, ordinò il ripiegamento generale, in una confusione indescrivibile che ricordava clamorosamente quella nella quale era incorsa la V° armata britannica di Gough due mesi prima.
In tal modo le truppe di von Boehn, superato agevolmente in circa sei ore il fiume Aisne, poterono sfondare in meno di 20 tutte le difese avversarie al centro, penetrando per oltre 18 chilometri in profondità, e in pochi giorni travolgevano altre otto divisioni di Duchéne schierate tra Reims e Soissons, ricacciandole indietro fino al fiume Veisne, avanzando per altri 40 chilometri. 
Il 30 maggio 60.000 soldati alleati erano loro prigionieri, con 830 cannoni e 2.000 mitragliatrici catturati, ma l'avanzata continuava.
Per i suoi errori Duchène sarebbe stato immediatamente sostituito alla testa della VI° armata dal parigrado Jean Marie Joseph Degoutte per volontà di Clemenceau, messo in disponibilità a settembre e sottoposto a fine guerra ad un'inchiesta militare da cui sarebbe però uscito pulito, anche per le pressioni dell'amico Foch e dello stesso Pétain, tanto da essere riabilitato in seguito.

Il 3 giugno Parigi era a 56 chilometri di distanza, ma ora la difesa delle truppe dell'Intesa era decisamente più asperrima ed ancora una volta i tedeschi erano costretti a rallentare, tanto più che per la prima volta entravano in azione anche gli americani, con una brigata di marines e due divisioni di fanteria, la 2° e la 3°, che al loro battesimo del fuoco sconfiggevano sulla Marna, all'altezza del Bosco di Belleau, forti elementi di ben cinque divisioni tedesche, la 237°, la 10°, la 197°, la 87° e la 28°.
Ormai il peggio per gli alleati era passato.
L'11 giugno l'avanzata tedesca si fermava definitivamente sulle rive della Marna, Chateau-Thierry, circa 60 chilometri a nord-est di Parigi, al termine di una penetrazione di circa 70 chilometri!
Le perdite complessive erano state ancora una volta terribili: 137.000 tra gli alleati (98.000 francesi, 29.000 inglesi, 9.777 americani, di cui 1.811 caduti), e 130.000 tra i tedeschi.
Ludendorff, ormai sull'orlo dello scoramento, preparava però già nuove offensive.

Armando Diaz
(Napoli, 5/12/1861- Roma, 28/2/1928)
Con l'intero mondo politico francese ormai in subbuglio e giunto fino al punto di mettere letteralmente sotto accusa i tre generali francesi ritenuti colpevoli del disastro, Foch, Pétain e Duchéne, con i primi due soprattutto strenuamente difesi davanti alla Camera nell'infuocata seduta del 4 giugno da George Clemenceau in persona, proprio quest'ultimo si lamentava pesantemente col Primo Ministro italiano Vittorio Emanuele Orlando per l'ultima risposta di Diaz a Foch, peraltro arrivata solo il 30 maggio, due giorni dopo l'inizio del nuovo attacco tedesco, che recitava più o meno così:

"Guardate, come vi avevamo promesso il 15 maggio i piani per l'attacco sugli Altipiani sono praticamente pronti, ma chiediamo un rinvio perché ci sono giunte voci di una prossima offensiva austro-ungarica proprio sull'intera linea dagli Altipiani al Grappa fino al Piave, non appena le condizioni atmosferiche lo consentiranno"...
Operazione "Gneisenau"

L'OPERAZIONE "GNEISENAU" (9-12 GIUGNO)
Non si trattava di una bufala, di un modo per costringere a tenere in Italia le restanti divisioni inglesi e francesi non ancora partite, come sospettava Clemenceau, ma era la verità, come d'altronde probabilmente credeva lo stesso Foch, che al contrario del primo aveva accettato la tesi di Diaz.
Il premier francese se ne sarebbe accorto immediatamente dopo aver inviato l'ennesima lettera di fuoco al suo omologo italiano, il 12 giugno, proprio nello stesso momento in cui l'ennesima offensiva tedesca, la quarta, l'Operazione "Gneisenau", ideata con lo scopo di accerchiare definitivamente le truppe anglo-francesi sui salienti di Amiens e Arras con un poderoso avanzamento di 12 divisioni iniziato il 9 giugno tra le cittadine di Noyon e Montdidier lungo il corso del fiume Matz, veniva definitivamente sventata da 4 divisioni francesi e 150 carri armati al comando del Generale Charles Mangin, con un primo apporto dei contingenti italiano e americano, con un bilancio finale di 35.000 alleati e 30.000 tedeschi fuori combattimento, in una località destinata a diventare famosa, Compiegne.

BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO OPPURE OFFENSIVA DELLA FAME?
A questo punto il quadro era ormai delineato, e a completarne il complesso disegno mancavano solo i due protagonisti finora mancati, i soliti nemici storici.
Ormai l'Austria-Ungheria non poteva più tirarsi indietro, anche lei doveva attaccare a questo punto.
Tutti gli esperti militari di tutto il mondo avrebbero chiamato e chiamano tuttora quella in progetto col nome di "Seconda battaglia del Piave", noi italiani la conosciamo anche con un secondo, immaginifico nome, quasi delicato, quello di "Battaglia del Solstizio", datole dal solito Gabriele D'Annunzio, ma per gli austriaci e le altre popolazioni del multietnico Impero d'Asburgo quella sarebbe stata sempre l' "Offensiva della fame": il peso medio dei soldati austro-ungarici non superava i 48 chili, quindi ogni risorsa alimentare, ogni energia fisica, ogni manufatto o materia prima presenti nell'Impero (essendosi ormai prosciugate tutte le fonti di sostentamento prese dai territori catturati in Veneto e Friuli), sarebbero stati dedicati a quello sforzo sovrumano, prosciugando del tutto le residue possibilità della Madre Patria, ben consapevoli, tutti, Vienna, Roma, ma anche tutti gli altri, che quella sarebbe stata anche l'ultima possibilità concessa all'Armee


Arciduca Giuseppe Augusto d'Asburgo-Lorena
(Alcsùtdoboz, Ungheria, 9/8/1872-
Rain, Germania, 6/7/1962)
Eppure, nonostante tutto questo enorme sforzo, la preparazione dell'offensiva sarebbe stata veramente difficilissima, mancando all'appello viveri, quadrupedi, automezzi, materiale da ponte, di traghettamento e munizioni a gas: leggiamo sull'amarissimo memoriale dell'Arciduca Giuseppe d'Asburgo-Lorena (cit. in Bibliografia, pagg. 5-6) che per quanto atteneva in particolare ai viveri, solo all'inizio dell'offensiva la razione giornaliera di ogni soldato sarebbe stata portata a mezzo chilo di pane e 120 grammi di carne, e circa invece i proietti a gas, quelli forniti dai tedeschi erano solo del tipo vecchio, da cui il nemico si poteva facilmente difendere utilizzando le nuove maschere protettive ("Occorre chiedere ai tedeschi granate a gas di nuovo tipo, e, se ciò non è possibile, diano all'armata granate ordinarie. Basare l'offensiva sulla supposizione che il nemico non abbia ancora la nuova maschera tipo inglese è grave leggerezza").
Purtroppo per le aspettative austro-tedesche, gli italiani ne erano stati riforniti in quantità, come vedremo.

C'era tuttavia molto ottimismo, tra le file austro-ungariche. 
Arthur Arz von Straussenburg, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Imperial-Regio, nell'annunciargli il prossimo scatenamento dell'offensiva, così scriveva a von Hindenburg:

"Come risultato di quest'operazione, che ci deve portare sino all'Adige, mi riprometto lo sfacelo militare dell'Italia".

Ancora una volta il terreno di battaglia sarebbe stato il Piave, ma anche stavolta, come sei mesi prima, quella gigantesca spallata, iniziata in contemporanea con l'analoga offensiva tedesca sul fronte occidentale a metà giugno 1918si sarebbe risolta in un fallimento per la Kaiserliche und Koenigliche (K.u.K.) Armee, l'Imperial-Regio Esercito austro-ungarico.

Cartolina di propaganda col soldato italiano con la sigaretta in bocca che caccia via a calci quello austriaco beone e ladro di vino
3. DUE GALLI NELLO STESSO POLLAIO IN QUEL DI VIENNA

In preparazione dell'offensiva sin dall'inizio gli austro-ungarici avevano dovuto far fronte a un grave problema, più psicologico che militare, cioè l'incompatibilità caratteriale tra le forti personalità dei comandanti dei due Gruppi d'Armate presenti sul fronte italiano, il Feldmaresciallo Franz Conrad Freiherr (Barone) von Hotzendorfcomandante del Gruppo Armate del Tirolo (X° e XI° armata), e il Feldmaresciallo Svetozar Boroevic von Bojna, comandante del Gruppo d'Armate dell'Isonzo (V° e VI° armata).

FRANZ CONRAD VON HOTZENDORF, IL NEMICO GIURATO DEGLI ITALIANI
Franz Conrad Freiherr von Hotzendorf
(Penzing, Vienna, 1/11/1852-
Bad Mergentheim, Germania, 25/8/1925)
Conrad era un figlio della piccola nobiltà viennese, ateo, razionalista e fautore del darwinismo sociale, tanto da essere un fiero sostenitore dell'identità tedesca dell'Impero, razzista e nemico storico degli italiani e dei serbi, che considerava le principali cause del declino imperiale asburgico.
Pur essendo un fedelissimo del vecchio Imperatore Francesco Giuseppe, granitico esponente dell'unitarietà dell'Impero nella sua augusta persona, lo era decisamente meno del suo successore Carlo I°, che considerava debole, bigotto e poco tedesco a causa delle sue aperture verso le altre Nazioni del suo impero. 
Già ex Comandante Supremo dell'Esercito, sostituito dall'attuale e debolissimo Arthur Arz von Straussenburg prima di Caporetto anche a causa dell'antipatia che provava per lui il diversissimo Carlo I° (uomo pio, casto e quasi santo, tanto da essere fatto Beato da Giovanni Paolo II°, il cui padre aveva combattuto in Galizia nelle file austro-ungariche), Conrad era un numero uno sin dall'Accademia, ed a lui si dovevano tutti i piani d'attacco più ambiziosi ideati dallo Stato Maggiore per cancellare dalla faccia della terra con un unico e inesorabile colpo di maglio l'odiato nemico italiano: piani spesso ai limiti del visionario e tante volte finiti male, come nel 1916, o mai messi in atto per la loro estrosità (fosse stato per lui avrebbe attaccato l'allora alleata Italia sia nel 1908 in occasione del Terremoto di Messina sia nel 1911 sfruttando il nostro impegno in Libia!), tutti però con la caratteristica di partire sempre dalle montagne del suo amato Tirolo, visto come patrimonio ineliminabile dell'identità austriaca di lingua tedesca, in direzione della Pianura Padana, vero punto nevralgico dell'odiata Italia.

SVETOZAR BOROEVIC VON BOJNA, IL LEONE DELL'ISONZO
Svetozar Boroevic von Bojna
(Umetic, Croazia, 13/12/1856-
Klagenfurt, Austria, 23/5/1920)
Boroevic, nato da un'assai più modesta famiglia di provincia in un oscuro paesino di poche anime in Croazia, ma serbo di etnia e cristiano ortodosso, si era dovuto costruire la carriera un passo alla volta, in tutta umiltà, fino a diventare col tempo uno dei più importanti generali della K.u.K. Armee e da vedersi affidare proprio la difesa dei sacri confini della Patria finita all'improvviso sotto attacco della traditrice Italia, in un settore difficilissimo come quello dell'Isonzo, con il grosso delle truppe imperial-regie strenuamente impegnato con alterni e comunque sanguinosi risultati tra Balcani e Galizia.

Eppure, a capo della raffazzonata V° armata, l'Isonzo Armee, composta (come le truppe schierate in Trentino, d'altronde) da truppe per un buon 40% almeno formate dai Landsturm, reparti di territoriali ultratrentenni, per tre anni e mezzo aveva valorosamente resistito alle ben undici "spallate" frontali che il Generalissimo Luigi Cadorna aveva tentato contro di lui, le "undici battaglie dell'Isonzo" appunto, tanto da essere soprannominato dalla stampa nazionale "Der Lowe des Isonzo", il Leone dell'Isonzo, e da essere gratificato del titolo nobiliare di Barone, prima ancora di partecipare al trionfo di Caporetto, tecnicamente la dodicesima di quella serie, quella in cui però erano stati gli italiani a prenderle.
Lui in verità aveva avuto un ruolo secondario in quella vittoria (ed un po' se ne sarebbe a bassa voce lamentato, ritenendosi l'unico vero titolare del fronte sulle Alpi Orientali, accettandolo solo per spirito di servizio visto che a comandare non potevano che essere i tedeschi), ma le sue divisioni si erano disimpegnate assai bene, e ancor meglio avevano fatto nella Prima battaglia del Piave, quando solo il mancato sostegno delle artiglierie tedesche di medio e grosso calibro, ritirate sin dai primi giorni da quel fronte per essere dirottate in Francia, aveva impedito lo sfondamento verso Venezia.
Così, anche se è vero che la III° armata del Duca di Savoia-Aosta sua diretta avversaria sarebbe passata alla Storia come "Invitta", per la sua capacità di ripiegare in buon ordine e quasi senza perdite dal disastro di Caporetto (a differenza della II° di Luigi Capello uscita praticamente annientata) e di resistergli poi sul Piave, i suoi indubbi meriti erano stati premiati con la promozione a Feldmaresciallo, nel febbraio 1918, che gli permetteva ora di trattare praticamente da pari a pari col suo interlocutore, che fino a pochi mesi prima lo guardava dall'alto in basso.

(Fonte: Pressreader.com)


IL PIANO DEFINITIVO 
Nella stesura dei piani per la prossima offensiva finale, quella che doveva secondo Vienna mettere fine alla guerra, ovviamente Conrad aveva subito messo le mani avanti, pretendendo che si partisse dal suo solito piano, quello che con modifiche più o meno simboliche era sempre lo stesso di sempre: l'attacco dalle montagne del Tirolo in direzione della pianura veneta.
Boroevic, che pure in cuor suo presentiva il disastro e avrebbe preferito mille volte conservare l'esercito per preservare la Monarchia e non per perderla in quella che considerava un'offensiva impossibile, date le condizioni dell'esercito e della stessa Madre Patria, aveva comunque insistito, se offensiva doveva essere, per farla partire dal Piave, sia per motivi strettamente militari (le sue divisioni erano in netta superiorità numerica in quel settore perché gli italiani non si aspettavano un nuovo attacco proprio da lì), sia perché riteneva giusto che l'auspicata vittoria provenisse dalle sue armate, che avevano fino all'ottobre 1917 tenuto in piedi da sole l'Austria-Ungheria.
Quando il 23 marzo 1918 Arthur Arz aveva presentato la prima versione del piano si notò subito come di fatto esso non fosse che la somma di entrambi i progetti, quello di partenza di Conrad e quello proposto da Boroevic, che il Capo di Stato Maggiore aveva deciso salomonicamente di mettere in atto contemporaneamente, giusto per salvare capra e cavoli.

Ma così non poteva andare, era stato il concorde giudizio degli altri ufficiali dello Stato Maggiore, perché non solo tra i due fronti d'attacco non c'era alcuna comunicazione diretta, ma addirittura in mezzo a loro si ergeva come una fortezza inespugnabile il massiccio del Grappa, che gli italiani tenevano in gran parte e poteva tranquillamente essere utilizzato per fare affluire rinforzi a favore delle loro divisioni sia contro le truppe di Conrad che contro quelle di Boroevic.
Di più, fu l'ulteriore obiezione dell'Arciduca Giuseppe di Asburgo-Lorena, che col grado di Colonnello Generale comandava la VI° armata del Gruppo Boroevic, a questo punto perché non attaccare frontalmente il Montello, il complesso collinare alle spalle dell'ansa del Piave subito a ovest del Ponte della Priula? Si trattava infatti del punto più debolmente presidiato dalle truppe italiane ed una volta preso avrebbe consentito di esondare nella pianura immediatamente alle sue spalle, senza che né dalla sua sinistra, cioè dal Grappa e dall'Altopiano di Asiago, né dalla sua destra, cioè dal Medio e Basso Piave, le armate di Diaz, già impegnate a sostenere gli attacchi nei loro settori, potessero a quel punto intervenire in soccorso.

Quando ad aprile Conrad, Arz e Boroevic si incontrarono a Bolzano alla presenza dello stesso Imperatore Carlo per mettere a punto il piano definitivo, tuttavia, Conrad insistette affinché il centro gravitazionale dell'attacco fosse ancora il suo piano, con la sola importante variante che l'attacco principale non si sarebbe più dovuto svolgere lungo la valle del Brenta, ma più a ovest sull'Altopiano di Asiago, attraverso un vasto territorio boschivo, anche se l'ala sinistra dell'offensiva si sarebbe diretta a est del Brenta, contro il Grappa: questo perché sulle alte montagne sarebbe stato impossibile trovare lo spazio necessario per lo schieramento di tutte le truppe impiegate.

In tal modo dell'idea propugnata da Boroevic sarebbe rimasto solo l'attacco attraverso il Piave a cavallo della ferrovia Oderzo-Treviso, ma il generale serbo-croato a questo punto aggiunse che il passaggio attraverso il fiume avrebbe dovuto essere facilitato da azioni dimostrative sul Basso Piave, in particolare nel settore di San Donà (Piave Vecchia), ed in più come richiesto dall'Arciduca Giuseppe sarebbe stato meglio che all'azione in direzione di Treviso e sul Grappa partecipasse appunto la VI° armata di quest'ultimo sul Montello.
Tutto questo fu pienamente recepito alla fine nella stesura finale, con in più l'aggiunta finale di un'ulteriore modifica, suggerita anch'essa dal Comando Supremo, cioè un'azione dimostrativa a occidente del Garda in cui una divisione, posta all'ala destra del Gruppo del Tirolo, attaccasse sul Passo del Tonale in direzione di Edolo e lungo la Valle dell'Oglio.

4. LA SOMMA NON FA IL TOTALE 


Il risultato di tutto questo era stato che l'originario piano di Conrad che partiva dal solo Tirolo verso la Valle del Brenta con direzione Vicenza e Verona si era trasformato in un attacco molto più complesso su un fronte assai più ampio di 170 chilometri, con più corpi d'armata impegnati, diretto anche su Edolo, Treviso, Mestre, Venezia e Padova, tanto che alla fine avrebbe finito per gravitare di fatto assai di più sul fronte del Piave, con grande scorno del barone di Vienna.
Il progetto definitivo, così, messo a punto il 21 aprile 1918, dopo mesi di rimaneggiamenti, modifiche e limature fatte all'ultimo prevedeva addirittura tre operazioni distinte, che secondo gli auspici di tutti dovevano portare in pochissimi giorni al collasso dell'esercito italiano ed alla perdita non solo del Trentino e del Veneto, ma persino della intera Pianura Padana:

1) OPERAZIONE "LAWINE".
La X° armata del Feldmaresciallo Alexander von Krobatin (Gruppo Conrad) doveva il 13 giugno sferrare un primo attacco di carattere diversivo contro la VII° armata italiana del Tenente Generale Giulio Cesare Tassoni e la I° del Tenente Generale Guglielmo Pecori Giraldi sul Passo del Tonale (1.882 m) e verso la Valcamonica e l'Aprica (1.181 m), a cavallo con la Valtellina, con l'obiettivo di scendere lungo la valle dell'Oglio in pianura, sulle sponde del Lago d'Iseo, e arrivare a Vicenza già nelle prime 24 ore, con lo scopo di distrarre gli italiani dai preparativi dell'azione contro il Veneto ed attrarre su quel versante il maggior numero di forze di riserva a difesa di Brescia e Milano.

2) OPERAZIONE"RADESZKY".
A questo attacco doveva far seguito due giorni dopo l'attacco principale dell'XI° armata del Colonnello Generale Viktor Graf von Scheuchestel, sempre del Gruppo Conrad, sull'Altopiano di Asiago e il Monte Grappa difesi dalla VI° armata del Tenente Generale Luca Montuori e dal fianco sinistro della IV° armata del Tenente Generale Gaetano Giardino, con obiettivo la linea del Bacchiglione in direzione di Vicenza.

3) OPERAZIONE "ALBRECHT".
In contemporanea, le truppe del Gruppo Boroevic dovevano sfondare sul Medio e Basso Piave: la VI° armata del Feldmaresciallo Giuseppe d'Asburgo-Lorena doveva attaccare nel settore difeso dal fianco destro della IV° armata di Giardino sul Grappa e dall'intera VIII° del Tenente Generale Giuseppe Pennella sul Montello, con obiettivi Castelfranco Veneto e Treviso da prendere in sole 24 ore,  mentre la V° del Colonnello Generale Wenzel von Wurm doveva attaccare sul Medio e Basso Piave nei settori difesi dalla "invitta" III° armata del Tenente Generale Emanuele Filiberto Duca di Savoia-Aosta e puntare risolutamente su Venezia e Mestre.


Fonte: http://www.elevamentealcubo.it/crocedipiave/1918_battagliadelsolstizio.htm










A quel punto le due colonne principali avrebbero dovuto convergere su Padova con una manovra a tenaglia e da lì, con il contemporaneo arrivo della colonna Lawine in Lombardia, puntare sulla Pianura Padana, Verona e Milano.

L'APPARENTE NETTA SUPERIORITÀ AUSTRO-UNGARICA SUL TERRENO
Il primo a preconizzare un esito favorevolissimo dell'attacco era ovviamente il bellicoso e vendicativo Conrad, tanto più alla luce dei numeri in gioco, visto che gli austro-ungarici mettevano in campo ben 59 divisioni per un totale di circa 946.000 uomini, appoggiate da 5.473 cannoni e 540 aerei  (con altre 7 divisioni tenute di riserva in Austria, con quasi 2.000 cannoni): un numero di uomini, divisioni e pezzi d'artiglieria assai superiore a quanto fosse stato messo in campo a Caporetto (si parla di circa 680 battaglioni e 7.000 cannoni in totale, quando all'epoca i battaglioni erano 574, e 5.255 i cannoni), di sicuro la più grossa forza offensiva mai affrontata fino ad ora dagli italiani.
Ad un simile sfoggio di potenza si contrapponevano formalmente 58 divisioni nostre, di cui 52 italiane, 1 cecoslovacca (a guida italiana), 3 britanniche e 2 francesi (per un totale di 965.000 uomini), con 5.104  cannoni e 676 aerei (100 dei quali anglo-francesi), ma se si scendeva nei particolari si constatava come in realtà ad affrontarsi in prima linea si trovavano ben 42 divisioni austro-ungariche, con 5.000 cannoni ed un'imbarazzante superiorità nelle mitragliatrici, soprattutto di quelle portatili, contro solo 25 divisioni nostre (comprese le 5 anglo-francesi), con 4.000 bocche da fuoco.
Mille pezzi d'artiglieria e 17 divisioni in meno: una differenza assai sensibile a favore del nemico!

L'IRRAZIONALE OTTIMISMO DEGLI AUSTRO-UNGARICI
Ormai il morale della truppa tra gli Imperiali era tornato alto dopo i patemi dei primi tre mesi del 1918, la sconfitta dei russi aveva finalmente pacificato quel fronte e consentito il ritorno a casa di tanti uomini e tante divisioni, che si sarebbero così potute utilizzare nell'offensiva, e per di più anche la crisi degli approvvigionamenti era finita: gli austro-ungarici si sentivano forti, e al di là del loro tradizionale disprezzo per le qualità militari e morali dei soldati italiani erano proprio convinti che fosse finalmente venuta l'ora, quella tanto desiderata del trionfo sull'odiato nemico secolare, per di più tutta loro, senza che i tedeschi ci si mettessero in mezzo.
Perché non ci fossero dubbi, i nomi assegnati alle tre operazioni previste dal piano d'attacco già da soli facevano capire con che animo l'Austria-Ungheria avrebbe affrontato la battaglia decisiva.
La prima, quella sul Tonale, chiamata Lawine, cioè valanga, come quella che avrebbe dovuto travolgere gli italiani.
La seconda sugli Altipiani e il Grappa, Radezky, in ricordo del famosissimo governatore del Lombardo-Veneto, il boemo Johann Josef Graf (Conte) Radezky von Radetz, repressore dei moti di Milano e vincitore a Novara nel 1848.
La terza, quella lungo la linea del Piave, Albrecht, cioè il nome tedesco dell'Arciduca Alberto d'Asburgo-Teschen, il comandante dell'Armata Imperiale del Sud vincitrice a Custoza nel 1866.
Non erano semplici nomi, erano urli di battaglia, ed i primi a gridarli erano proprio i Generaloni di Carlo I°!
Ad esempio il Tenente Generale Theodor Ritter von Soretic, comandante della forte 42° divisione territoriale ungherese K.u. (Koeniglische-ungarische) Honved:

"Fate tutto il vostro dovere! Non risparmiate il nemico maledetto e con l'aiuto di Dio sopportate quest'ultimo sacrificio per il Sovrano e per la libertà della nostra bella Patria!"

Per non parlare del Tenente Generale Rudolf Seide, comandante di un'altra divisione ungherese, la 64° K.u. Honvedche in un suo bollettino scrisse:

"Tocca ora a noi vibrare il colpo mortale a questo nemico italiano, falso e fedifrago. Avanti! Avanti figlioli! Con noi è la Giustizia, con noi il Dio della Guerra dei Magiari!"

I toni e le parole adottati erano proprio quelli caratteristici di un Redde Rationem, di un'ordalia  finale prettamente teutonica, al termine della quale quei traditori di italiani sarebbero stati puniti da Dio e spazzati via.
Ma in realtà le cose, a vederle bene bene, non erano così facili per loro.

5. LE CARENZE DEL PIANO D'ATTACCO AUSTRO-UNGARICO


Al di là dei trionfalismi apparenti degli Alti Comandi austro-ungarici, il piano uscito fuori dall'ufficio operazioni, come tutte le soluzioni mezzo e mezzo di compromesso, aveva diversi difetti, di cui almeno due enormi.

IL PROBLEMA LOGISTICO E DEI TRASPORTI
Innanzi tutto, rilevava l'Arciduca Giuseppe nel suo memoriale, la carenza del sistema dei trasporti, perché il gruppo principale d'attacco, quello Conrad, poteva usufruire solo della ferrovia della Valsugana: questo avrebbe impedito una veloce, efficiente e regolare alimentazione dell'attacco sia all'interno dello stesso Gruppo Conrad, sia proveniente dalla Madre Patria, essendo quel settore l'unico che conservasse una linea di continuità con l'Austria.
Sarebbe stato facile, per l'artiglieria pesante e l'aviazione italiane, colpire quel facile obiettivo strategico, e se non si fosse verificato subito l'auspicato sfondamento tutto l'attacco su quel fronte sarebbe stato a fortissimo rischio, con tutte le conseguenze del caso.


L'Imperatore Carlo durante una parata nel 1918 a Pergine Valsugana si intrattiene con un vecchio volontario Kaiserschutze
(Fonte: http://www.moesslang.net/truppenbesichtigung_pergine_valsugana.htm)


Ma se questo problema si sarebbe potuto non dico risolvere ma quanto meno gestire in qualche modo, ce n'era un altro assai più grave, diremmo strutturale, che inficiava alla base il piano e le cui conseguenze sarebbero state enormemente sottovalutate.

La distribuzione degli schieramenti opposti al 13 giugno 1918
(Fonte: http://www.arsbellica.it/pagine/contemporanea/Piave/Piave.html)








UNA GRAVISSIMA DISPERSIONE DELLE FORZE
Per quanto le truppe asburgiche di prima linea fossero decisamente di più rispetto a quelle italiane, la loro suddivisione in tre distinti fronti d'attacco portava ad un'inevitabile dispersione degli uomini e dei cannoni disponibili, senza che nei singoli settori vi fosse a quel punto alcuna loro significativa superiorità nei nostri confronti.
Salta subito all'occhio, per esempio, guardando la cartina qui sopra, come mentre l'XI° armata austro-ungarica di Viktor von Scheuchestel schierasse quasi senza soluzione di continuità ben 23 divisioni tra l'Altipiano d'Asiago e il Monte Grappa contro le 16 italiane (9 della VI° armata italiana di Luca Montuori sul primo, 7 della IV° di  Gaetano Giardino sul secondo), nel settore meno importante ai fini dell'attacco, cioè quello delle Valli Giudicarie, di fronte alle sole 4 divisioni della VII° armata italiana di Giulio Cesare Tassoni ve ne fossero ben 10 della X° austro-ungarica di Alexander von Krobatin, di cui solo 2 sarebbero state effettivamente impiegate nell'attacco al Tonale previsto dall'Operazione Lawine.
Si trattava di uno spreco enorme di risorse, senza alcuna motivazione logica che non fosse l'enorme sopravvalutazione dell'idea strategica di Conrad: al lordo di eventuali esigenze difensive in Trentino che potevano essere soddisfatte con 2 o 3 divisioni di presidio, le restanti 5 o 6 disponibili potevano infatti essere tranquillamente assegnate ad altro settore più carente, il che significava darle a Boroevic.







Ad esempio un fronte che ne avrebbe avuto proprio bisogno era quello del Montello, che come abbiamo già detto era assai poco difeso dagli italiani, che l'attacco se l'aspettavano sugli Altipiani e sul Grappa, non certo lì.
Al riguardo non si può non annotare come il Tenente Generale Giuseppe Pennella, il comandante dell'VIII° armata che ne aveva la responsabilità, quando Badoglio gli avrebbe telefonato il giorno prima dell'attacco per preavvisarlo del suo imminente inizio gli avrebbe risposto incredulo, dicendogli qualcosa del tipo:

"Ma chi è quel pazzo che va ad attaccare un obiettivo così complicato e difficile come il Montello, quando ci sono al di qua e al di là ben altri punti nei quali forzare il Piave???"

Ebbene, sebbene a difesa di quel piccolo ma strategico complesso collinare, vero e proprio lucchetto davanti alla pianura veneta e immediatamente a ridosso del corso del Piave, ci fossero non più di 3 divisioni in prima linea, il nemico di fronte schierava solo le 5 della VI° armata dell'Arciduca Giuseppe: veramente troppo poche, considerando che per difendersi ne bastano comunque meno, mentre per attaccare la cosa è assai diversa, visto che si deve agire pensando sempre alle ipotesi peggiori e tenendo conto che l'attacco va alimentato con costanza perché non si trasformi in un semplice tentativo fallito.

Eppure, si sarebbe ripetutamente lamentato col Comando Supremo per giorni fino all'immediata vigilia l'Arciduca Giuseppe, se sul Montello le divisioni invece che 5 o 6 fossero state 10 o 12, allora sì che avrebbero potuto con facilità incunearsi sulla riva destra del Piave ed esondare nel bel mezzo dello schieramento difensivo italiano, trovando a quel punto la strada spianata per la pianura veneta.
Proseguendo in questa divagazione ucronica, in tal modo anche la confinante IV° armata italiana sul Grappa sarebbe stata verosimilmente costretta a intervenire per tappare il buco, esponendosi però a questo punto all'attacco nemico anche sul suo settore, mentre in contemporanea avrebbero potuto dilagare in direzione di Venezia anche le 15 divisioni della V° armata di von Wurm, che si trovavano di fronte tra le Grave di Papadopoli e Capo Sile le sole 6 della III° armata del Duca di Savoia-Aosta...

Nonostante tutto questo, un minimo di speranza c'era lo stesso, se così scriveva proprio il pur scettico Arciduca:

"Se l'offensiva fosse stata ben preparata e il piano relativo non fosse stato un assurdo strategico, il successo non sarebbe mancato, poiché, per quanto concerne le forze, la Monarchia non si era mai trovata in tutta la durata della guerra in condizioni così favorevoli come nel giugno 1918".

Un pensiero che riecheggiava quello che il Generale Ludwig Goiginger, il comandante del suo XXIV° C.A., gli avrebbe detto alla vigilia dell'attacco, che "nell'esercito austro-ungarico non aveva mai visto preparare così accuratamente un'offensiva".

6. GLI ITALIANI NON SONO PIÙ QUELLI DI CAPORETTO

Certo, in certi settori dopo gli scontri della fine del '17 e dell'inizio del '18 eravamo particolarmente esposti all'azione del nemico, e ad esempio sul Grappa per Conrad la nostra situazione era "quella del naufrago aggrappato ad una tavola di salvataggio, per cui sarebbe bastato mozzargli le dita per vederlo annegare", visto che eravamo praticamente rimasti attaccati con le unghie e coi denti alle estreme propaggini occidentali del massiccio, quelle che, collegate attraverso la valle del Brenta all'Altopiano di Asiago, subito dopo praticamente precipitano in pianura, con gli austro-ungarici invece in possesso di tutte le altre cime attorno e pronti a ributtarci giù.
Ma gli italiani avevano imparato la lezione di Caporetto.

In quei mesi in cui gli era stato dato relativamente un po' più di respiro essi avevano per prima cosa suddiviso le divisioni su più armate ben più piccole, agili e manovriere di quelle poche, enormi e macchinosissime travolte a ottobre (e che invece gli austro-ungarici continuavano ad avere), poi si erano coperti più e meglio sui lati introducendo a tal fine anche riserve tattiche di non più di 2 divisioni a disposizione delle singole armate da poter inviare subito ove necessario, così da impedire deleteri aggiramenti come successo sei mesi prima, e per di più erano riusciti a mettere su una forte armata di riserva con 10 divisioni, la IX° del Tenente Generale Paolo Morrone, persino sin troppo consistente, avendola riempita anche con divisioni che sarebbero state più utili in prima linea (da qui la nostra inferiorità numerica), posizionandola a protezione della pianura padana, in profondità ma non troppo, così da poter inviare rapidamente nelle zone d'operazioni le unità che servissero in quel momento.

Come vedremo, era una scelta ben precisa, anche se poteva sembrare un azzardo, dettata però da una forte fiducia nei nostri soldati e negli apprestamenti difensivi che nel frattempo i nostri genieri avevano costruito sulle loro linee, con modalità diverse tra il fronte del Piave e quello montuoso degli Altipiani e soprattutto del Grappa, e che consentivano in pratica di mettere in atto almeno in parte quei principi di "difesa elastica" tanto cari al Generale Luigi Capello, lo sfortunato comandante della II° armata annientata a Caporetto: non per niente colui che più di tutti aveva spinto nel 1916 per l'introduzione nell'esercito della nuova specialità degli Arditi, le frecce nere della fanteria, le frecce cremisi dei bersaglieri, le frecce verdi degli alpini, che dei colpi di mano tipici di questa tattica sarebbero stati i più grandi protagonisti, sia sul Piave che sul Grappa.

LA DIFESA DEL MONTELLO
Le difese italiane sul Montello erano state predisposte appena in tempo, poco prima di giugno.
Ad una prima linea, detta "di osservazione" sulla riva del Piave e "marginale" lungo il ciglione sul fiume, con postazioni di mitragliatrici anche nascoste (diverse in caverna o all'interno di piccoli bunker in calcestruzzo, spesso mimetizzati), collegate da camminamenti ed elementi di trincea, seguiva la seconda, detta "della corda", che da Nervesa a est, passando da Collesel delle Zorle (Quota 207) e Collesel della Zotta (Quota 192), si ricollegava al presidio di Casa Serena in prima linea, allo sbocco nord della strada (presa) n. 10, formando così quella che di fatto sembrava una corda tesa tra gli estremi dell'ansa formata dal Piave.
Una terza linea, detta "di corpo d'armata", attraversava da est a ovest tutto l'asse mediano del Montello a partire da Nervesa, con un ridotto circolare all'altezza di Collesel dell'Acqua (Quota 371), il punto più alto del Montello, tra le strade nn. 13 e 16.
Non era finita qui, perché esisteva anche una quarta linea, detta "di Giavera", che con un andamento fortemente sinusoidale si stendeva inizialmente da est lungo il ciglio dell'intero complesso collinare per poi reinoltrarsi nuovamente più a ovest all'interno dello stesso, formando una sorta di esteso saliente a difesa dell'intero settore meridionale del Montello, seguendo una direttrice Nervesa-Bavaria-Giavera-San Martino, e si collegava alla linea di corpo d'armata mediante altre due che attraversavano trasversalmente il Montello, una più a est che partiva da Casa Carpenedo, presso la strada n. 9, ed arrivava sino alla rientranza più avanzata della linea di Giavera, e l'altra più a ovest che, biforcatasi inizialmente in due per seguire i due margini laterali opposti del ridotto di Collesel dell'Acqua, una volta tornata unitaria alle pendici meridionali dello stesso si spiegava fino a sud.
A completare il tutto, da Giavera, San Martino e Biadene ulteriori linee difensive scendevano verso sud per ricollegarsi al campo trincerato di Treviso, che come d'altronde le difese sul Montello faceva parte integrante del più esteso sistema difensivo approntato sul Piave.

LE LINEE DIFENSIVE ITALIANE SUL PIAVE 

Fonte: http://www.elevamentealcubo.it/crocedipiave/1918_battagliadelsolstizio.htm



Sul Piave si erano approntate da Palazzon a Capo Sile ben cinque linee di difesa continue, ognuna delle quali più a sud della precedente, con un orientamento tendenziale a ovest più o meno parallelo al corso d'acqua (con numerose diramazioni e collegamenti tra di loro):

1) la prima di esse partiva dai trinceramenti davanti al nemico sulla riva destra del fiume nel tratto della cosiddetta Piave Vecchia, quella dell'alveo originale, fino all'Ansa di Zenson (era la cosiddetta linea di osservazione o marginale);

2) la seconda partivda Capo Sile e attraverso via via Intestadura, Musile, Croce, Fossalta di Piave, Campolongo e Premuda arrivava sino a Maserada (dov'era previsto un ampio trinceramento circolare che inglobava anche i Ronchi);

3) la terza linea partiva da circa 1,5 Km a ovest della precedente, si diramava all'altezza di  Campolongo parte verso il fosso Mille Pertiche e parte verso Capo d'Argine, dove si collegava alla successiva;

4) questa, la quarta, da 2 a 4 Km più a ovest, seguiva la direttrice Vascon-Breda-Pero-San Biagio di Callalta, sfociava a Monastier e a Meolo (entrambe protette come Maserada da trinceramenti circolari) per poi finire anch'essa al Mille Pertiche e da qui alla palude del Sile;

5) infine, la quinta, partita 2 km più a ovest della precedente, terminava anch'essa nella palude del Sile.

Tutte queste linee erano destinate però ad essere presidiate non stabilmente ma in maniera leggera, discontinua e saltuaria da reparti inviati volta per volta, dandosi frequentemente il cambio tra di loro, per ingannare l'osservazione aerea del nemico in maniera tale da far disperdere lungo tutto l'arco del fronte il tiro delle sue artiglierie, senza consentirne la concentrazione sulle posizioni attive in quel momento, e sfociavano al termine della quinta e ultima in una serie di capisaldi autonomi, in genere anche recintati e muniti di piazzole per i cannoni e i nidi di mitragliatrice, tutti dislocati a scacchiera in profondità: si trattava in genere di casolari isolati, fienili, cascinali protetti da muri di cinta, siepi o rilevati naturali e manufatti stradali di qualunque tipo, dai ponticelli in cemento ai grossi tombini, purché fossero difendibili da ogni lato, mimetizzabili in qualche modo e con la visuale libera, in modo da tenersi sempre reciprocamente in vista e darsi reciproco supporto se assaliti, senza però dipendere l'uno dall'altro.
A completare il tutto, nel settore del Basso Piave presidiato dalla III° armata si era predisposto proprio tutt'attorno a Treviso un ulteriore, esteso e solidissimo campo trincerato.


Fonte: http://www.frontedelpiave.info


Lo scopo di tutto questo era proprio quello di offrire una difesa insieme leggera e flessibile, che coinvolgendo volta per volta reparti magari all'inizio di limitate dimensioni, tutti pronti ad accorrere dal punto più vicino possibile in soccorso di quelli sotto attacco, consentisse di rallentare prima, contenere e bloccare poi e infine respingere indietro il nemico una volta che questo fosse penetrato più in profondità, essendosi raggiunta la massa critica necessaria a tale scopo, magari dopo averlo in qualche modo costretto a muoversi lungo un percorso obbligato fino al settore voluto dai difensori, dove annientarlo definitivamente. 
Era una tattica rischiosa, perché implicava l'accettazione cosciente di una certa avanzata d'impeto del nemico prima che il meccanismo difensivo potesse funzionare al meglio e chiudersi attorno a lui, ma si confidava moltissimo nella sua riuscita, purché tale avanzata non eccedesse i 6 o 7 chilometri, cioè entro la gittata utile di tutti i pezzi anche di medio e piccolo calibro della nostra artiglieria disposti nelle retrovie.

Nicolò Alberto Gavotti
(Genova, 8/3/1875-
Albisola Superiore, SV, 11/8/1950)
LE GALLERIE FORTIFICATE SUL GRAPPA
Sul diverso fronte montano degli Altipiani vicentini e, soprattutto, del Monte Grappa, il lavoro difensivo fu strutturalmente molto differente, a causa ovviamente della diversissima struttura morfologica di quel teatro rispetto a quello del Piave, ma in fondo la tattica a ben guardare era fondata sul medesimo principio: cioè quello di poter difendersi all'inizio con relativamente pochi uomini ma facilmente alimentabili coi rinforzi disponibili, previsti sempre entro un breve raggio di azione, col vantaggio rispetto al Piave che essi potevano intervenire per vie interne, e quindi più velocemente e con minore esposizione alla reazione del nemico, ma con lo svantaggio che a differenza di quelle sul Piave le truppe sul Grappa e sull'Altopiano non potevano permettersi di perdere troppo terreno, perché subito dietro le loro montagne che si erano impegnati a difendere c'era la pianura, e da lì ad arrivare a Bassano e Vicenza ci sarebbe voluto un attimo.

Ecco perché le prime riserve ad intervenire in prossimità delle prime linee erano costituite dai reparti di arditi: quelle prime linee erano assolutamente vitali, e a differenza di quelle sul Piave non potevano essere superate in alcun modo.
Tra tenerle e perderle passava esattamente il discrimine tra la vittoria e la sconfitta!

Questo era stato il motivo per cui sin da tempi non sospetti, ben prima di Caporetto, il predecessore di Diaz, il tanto vituperato Luigi Cadorna, aveva deciso di avviare i lavori per fortificare al meglio tutta la linea dall'Altopiano dei Sette Comuni sino al Grappa, approfittando del fatto che praticamente avevamo in mano tutta la sua parte occidentale, quella che appunto andava a comunicare attraverso la valle del Brenta direttamente col delicatissimo settore asiaghese, e che i nostri eccezionali genieri potevano lavorare praticamente al riparo, protetti da quelle stesse cime che dovevano difendere, dietro alle quali stava il nemico.
Si operò quindi molto sottoterra, scavando gallerie fortificate munite di postazioni cannoni e mitragliatrici, si predisposero magazzini, depositi d'acqua, centri di medicazione e ricoveri in caverna con ingenti quantità di viveri, munizioni e materiale vario a disposizione, nonché tunnel di collegamento tra i vari capisaldi illuminati da luce elettrica e a loro volta sboccanti all'esterno in strade militari ampie e ben tenute, che insieme ad un'estesa rete di teleferiche consentivano il trasbordo di uomini, animali e cose (dai cannoni, alle vettovaglie, alla posta) da una cima all'altra fino ai presidi più sperduti ma anche in pianura.
Tutto questo estesissimo reticolo di fortificazioni e gallerie nascoste venne costruito per lo più dal cosiddetto "Gruppo Lavoratori Gavotti", una formazione di circa 1.500 genieri tratti dalla 310° compagnia genio telegrafisti (ma non piantarono mai un palo del telegrafo, questi qui!) e da diverse centurie di lavoratori messa su in tre anni e passa di guerra dall'eccellente e pluridecorato tenente colonnello del genio Nicolò Alberto Gavotti, l'unico a dare ufficialmente il suo nome a un'unità del Regio Esercito, un marchese di nobile famiglia savonese, ingegnere nella vita civile (tra gli ideatori dell'Acquedotto Pugliese), patriota a tutto tondo, sin dal 1916 strettissimo collaboratore di Badoglio, che ben conoscendone capacità di lavoro, inventiva tecnica e forza morale aveva sempre chiamato lui per certi impegnativi lavori di fiducia.

I lavori per la costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II°


Spesso irte di cannoni e mitragliatrici e asservite da strade militari scorrevoli e ben protette, in caverna e all'esterno, le gallerie consentivano di far affluire in breve tempo i rinforzi necessari a difendere i singoli capisaldi finiti sotto tiro o ad attaccare le posizioni prese dal nemico, magari sbucandogli all'improvviso di nascosto da sotto il naso.
La più imponente e famosa di esse, lunga oltre 6 chilometri su un asse principale di 1,5 con millemila diramazioni di secondo e terzo livello, era la ciclopica "Galleria Vittorio Emanuele III°", conosciuta anche come "Galleria Gavotti" in onore al suo geniale ideatore: ricavata al di sotto di Cima Grappa, era larga 3 metri e alta da un minimo di 1,80 a un massimo di 2,50, e per farla fu necessario asportare circa 40.000 metri cubi di roccia grazie a 24 perforatrici meccaniche.
Un'opera fatta talmente bene che a tutt'oggi è agevolmente percorribile sul suo asse principale per circa metà della sua lunghezza, pari a 800 metri. 

Schema planimetrico della "Galleria Vittorio Emanuele III°"





Finita in soli cinque mesi di indefesso lavoro ed inaugurata ad aprile del 1918, quest'autentica fortezza scavata sotto il massiccio del Grappa permetteva anche di partecipare attivamente agli attacchi grazie alle oltre 100 piazzole per pezzi da 105 e 75 e ai 70 nidi di mitragliatrici previsti lungo tutto il suo percorso e puntati sul Brenta, verso Feltre e sul Piave.
Avrebbe avuto un ruolo determinante non solo nella Battaglia del Solstizio ma anche in quella della Vittoria, al pari della Strada Militare Cadorna, costruita a partire dal settembre 1917 dal colonnello Antonio Del Fabbro, comandante del genio dell'Armata degli Altipiani, su ordine del Generalissimo, una comoda rotabile di 32 chilometri con pendenza massima raramente superiore al 7% che mette in collegamento la cima del Grappa (Quota 1.775) a Romano d'Ezzelino presso Bassano, con una significativa biforcazione poco prima della cima all'altezza di Col Campeggia in direzione dell'Altopiano di Asiago che porta sino al Col Bonato.


Gli accessi al Monte Grappa oggi: in giallo la Strada Cadorna (ex S.S. 141 ora S.P.148), in verde il prolungamento più moderno verso Seren del Grappa, in azzurro la Strada Generale Giardino, lunga 20 km, costruita nel 1918 come alternativa più diretta alla Cadorna, con partenza da Semonzo del Grappa, in arancione percorsi più stretti di origine militare e non (Fonte: http://www.bassano.eu/Territorio-Monte-grappa-Accessi.htm)
Proprio il 15 giugno, con i nemici giunti quasi a un passo dalla sua Galleria nella mattina del primo attacco, essa sarebbe stata a un pelo dall'essere abbandonata, cosa che non avvenne solo perché proprio Gavotti, asserendo di essere l'unico a conoscerla come le sue tasche ed a sapere dove fossero predisposti i punti minati per farla saltare, non volle farlo nonostante l'ordine fosse già stato reiterato un paio di volte.


L'ingresso della Galleria Vittorio Emanuele sul fianco destro della Caserma Milano
Nicolò Gavotti non se ne curò, esattamente come aveva fatto altre volte in passato di fronte a ordini che non condivideva, e come al solito avrebbe avuto ragione lui: lo prova il fatto che, iniziata la guerra come tenente di complemento nel giugno 1915, avrebbe ottenuto ben cinque promozioni in 41 mesi arrivando al grado di generale di brigata, risultando in tal modo uno dei soli due casi nell'intera prima guerra mondiale di ufficiali di complemento diventati generali!
(https://www.montegrappa.org/_monte/index.php/personaggi-grande-guerra/438-gen-b-nicolo-alberto-marchese-ing-gavotti-cav-o-m-shttp://www.isrecsavona.it/pubblicazioni/quaderni/numero-9/gavotti.pdf)








L'ARTIGLIERIA CHIAMATA A RISCATTARSI
Soprattutto, però, Diaz (e Badoglio, che peraltro dello sbaglio di allora era stato sicuramente corresponsabile) aveva(no) cercato di porre rimedio al vero e proprio errore decisivo di Caporetto, quello del mancato, scarso o comunque inefficace utilizzo delle artiglierie, soprattutto quelle di grosso calibro.
A tal fine esse ora non erano più a ridosso delle prime linee e pressoché indifese come allora, ma sistemate ben dietro e al riparo, disponendo per lo più di un numero di pezzi di molto superiore rispetto all'ottobre precedente (anche grazie all'afflusso di numerose batterie anglo-francesi), oltre che di cannoni migliori e con gittata e potenza ben maggiori, capaci di battere da più lontano, con più frequenza, in maggior sicurezza e con maggiore precisione ed efficacia le posizioni nemiche.
E nell'ora della Verità la nostra artiglieria stavolta non avrebbe fallito.

BOROEVIC SA CHE L'OFFENSIVA NON FUNZIONERÀ
Come gli altri Generaloni che abbiamo visto, anche Svetozar Boroevic, nell'incontro che ebbe con i comandanti superiori delle sue armate all'antivigilia dell'attacco, tra il 13 ed il 14 giugno, si era lasciato andare, dicendo:

"L'attacco dovrà essere come un uragano, con un'avanzata ininterrotta dall'Adige fino a Milano!"

Le sue parole erano dettate da un sincero desiderio di spronare i suoi uomini a fare al meglio il proprio dovere, ma in realtà lui per primo, come sappiamo, era assai pessimista sull'esito finale della battaglia. 
Lo era già prima, quando pure solo per Lealtà verso il suo Imperatore aveva contribuito alla stesura del piano, ma visto che i rinforzi promessi dall'Imperatore, in particolari quelli logistici e della sussistenza che dovevano giungergli dal Trentino, indispensabili in un terreno di battaglia infido come quello, non erano ancora arrivati, aveva subito capito che Conrad li aveva trattenuti tutti per sé, in vista evidentemente della SUA offensiva, sfruttando il suo ascendente sul giovane Imperatore.

Sapeva benissimo, Boroevic, che non era affatto vero che la crisi del vettovagliamento fosse stata superata: semmai era stata semplicemente sospesa, o meglio messa a tacere per il momento, solo quella che danneggiava direttamente l'esercito, ma per contro per farlo si era aggravata ulteriormente quella dei cittadini della Madre Patria, ormai letteralmente alla fame per consentire alle poche risorse nazionali disponibili di nutrire ed armare l'Armee.
Eppure, non bastando neppure le enormi quantità di materiali, armi, viveri e persino divise e calzature rinvenute intatte nei magazzini italiani abbandonati durante la ritirata di sei mesi prima o catturati alle numerose divisioni annientate in quelle tragiche circostanze, da un certo momento in poi si era cominciato a produrre anche i materiali per l'esercito con leghe  e metalli di pregio assai minore, per questioni di costi e facilità di reperimento e costruzione (le baionette usurate, ad esempio, venivano riciclate e ricondizionate per quanto possibile), e non mancava giorno che non vi fossero nuovi ordini alle truppe di non sprecare nulla e riciclare tutto, prendendo armi, divise, scarponi, e tutto il materiale possibile anche dai caduti, tanto che si era giunti persino ad organizzare apposite "colonne di bottino" da inviare subito nei posti appena conquistati per impedire che le soldataglie saccheggiassero tutto in un amen, nonostante alle stesse, per motivarle, si promettessero mari e monti, come sei mesi prima quando si erano impadronite di tutto il tantissimo ben di Dio ritrovato nelle contrade venete e friulane occupate (si narra di interi reggimenti rinvenuti ubriachi davanti a file di botti di vino lasciate aperte, col prezioso liquido disperso per terra e che ancora continuava a uscirne...)

Boroevic non aveva alcuna fiducia nell'attacco dal Trentino studiato da Conrad, che riteneva destinato a sicuro fallimento, ed al contempo era dell'idea che gli mancassero almeno dieci divisioni, per poter essere ragionevolmente sicuro della vittoria sul Piave, nonostante le sue armate disponessero come abbiamo cercato di spiegare di una chiara superiorità numerica sul nemico lungo il corso del fiume.
Ma non gli era sufficiente, né poteva bastargli l'idea di catturare tutti i depositi divisionali possibili del nemico per incamerarne il contenuto con le sue squadre bottino: un comandante avveduto attacca quando ha delle certezze, non sulla base degli atti di fede!
Così, il suo vero pensiero, per chi lo conosceva bene, fu quello detto qualche minuto dopo.
Le parole dette prima rappresentavano la classica speranza ultima a morire, quella che non si nega mai a nessuno, tanto meno a chi va consapevolmente a rischiare la sua vita in battaglia, ma è da quelle che disse dopo che traspariva, probabilmente, tutta la sua lucida convinzione sull'ineluttabilità della fine:

"Questa, signori, potrebbe essere l'ultima battaglia. L'eroismo vostro e dei vostri soldati sarà ancora superiore a quello di Plezzo e Caporetto. Dalla nostra vittoria e dal sacrificio dei vostri uomini dipendono le sorti della nostra Monarchia e il destino del nostro Impero. Dio ci aiuti in questa impresa nelle terre che hanno visto il nostro esercito vincitore in altre memorabili imprese. Le campane di Santo Stefano a Vienna suoneranno per noi tutti il loro concerto di Vittoria o daranno avviso con lugubri rintocchi della fine del nostro mondo e della nostra civiltà. I vostri soldati sappiano amare la loro bandiera sino in fondo, fino alla morte se sarà necessario. Nessuno di noi avrà pace se lo sforzo che ci attende non sarà ripagato dalla vittoria".

(Ringrazio per questa ricostruzione Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, cit. nella bibliografia).

7. L'INSUCCESSO DELL'OPERAZIONE LAWINE (13-15 GIUGNO)


Pezzo da montagna austro-ungarico sul Tonale


Vittorio Camerana
(Torino, 6/6/1841-22/8/1923)
Quando l'intero settore difeso dal III° C.A. alpino del Tenente Generale Conte Vittorio Camerana sarebbe stato scosso fin dalle fondamenta alle 03,30 di notte del 13 giugno 1918 da un furioso bombardamento d'artiglieria in direzione di Ponte di Legno sulla Sella del Tonale, dei Monticelli, della Cima di Cady (il "Porcospino", che dominava il passo e costituiva la sua principale difesa), del Montozzo e delle Graole, dando inizio a Lawinetutti i timori dei più scettici tra i comandanti dell'Imperial-Regio Esercito avrebbero trovato una puntuale conferma, tanto che una relazione militare austriaca avrebbe addirittura parlato delle voci ricorrenti tra i reparti e gli stessi Comandi di un vero e proprio "spirito maligno" insorto contro di loro.

UN'OPERAZIONE VERAMENTE INSENSATA
Non c'era ovviamente nulla di sovrannaturale, perché invece la verità vera, a guardarla con gli occhi spassionati di oggi, è che quest'offensiva appare assolutamente insensata, a maggior ragione considerando le aspettative più o meno recondite che gli austro-ungarici avevano riposto su di essa (i soldati imperiali recavano spesso scritta sui loro elmetti la dizione "Nach Mailand", cioè "Verso Milano"...), per almeno tre motivi:

1) Prima di tutto, la conformazione del terreno era in quel momento poco favorevole alle truppe di Conrad, almeno rispetto a solo un mese prima.
Infatti, partiti all'attacco alle 07,30 del 25 maggio le fiamme verdi del III° reparto d'assalto ed il 5° reggimento alpino, coi battaglioni Edolo, Monte Cavento e Monte Mandrone del 19° gruppo (IV° raggruppamento), unità tutte citate nel bollettino n. 1.098 del 27 maggio, avevano riconquistato lo stesso giorno 25 in successione prima il Passo Maroccaro (2.975 m), poi Cima Zigolon (Quota 3.040) col sottostante costone della Marocche ed infine Cima Presena (Quota 3.069), occupata alle 22,00 al quarto tentativo; poi, ripartiti all'assalto alle 02,00 del mattino del 26 si erano impadroniti ad una ad una di tutte le sei ridotte nemiche della prospiciente conca dei laghi di Presena ed infine, ripresa l'azione all'alba del 27, avevano sopraffatto quella di Quota 2.863 (Castellaccio), presa alle 11,00, e di seguito i capisaldi di Quota 2.609 (Monticello Superiore) e Quota 2.545 (Monticello di Mezzo), in un'azione che aveva fruttato tra l'altro 870 prigionieri (tra cui 14 ufficiali) e la cattura di 12 cannoni e 14 tra bombarde e mortai da trincea, di 32 mitragliatrici, 700 fucili, 3 teleferiche e tanto altro materiale di varia natura.
Così, pur fallendo per poco l'assalto all'ultimo caposaldo nemico sulla Cresta dei Monticelli, dove pure erano arrivati alle 18,00 con nuclei della 52° compagnia dell'Edolo (il cui comandante, il maggiore Enrico Calma, sarebbe stato decorato con l'Ordine Militare di Savoia), poi costretti purtroppo a ripiegare dal veemente ritorno in forze del nemico, gli italiani avevano comunque ripreso definitivamente il controllo dello strategico Passo Paradiso (2.552 m), perso all'alba del conflitto il 25 maggio 1915.
Proprio da lì sarebbero stati così addirittura in grado di scorgere in anticipo i movimenti del nemico in Val di Sole!

2) In secondo luogo, va rimarcato come i sottosettori Valtellina e Valcamonica dello schieramento italiano interessati dall'operazione, proprio di fronte ai corrispondenti austro-ungarici Rayon I, II e III, fossero a questo punto ben lungi dall'essere sguarniti.
Anzi, proprio la recente riconquista di tre settimane prima di tutta la Conca Presena e dei Monticelli quasi per intero aveva ingolosito i nostri Alti Comandi, che vi stavano così facendo affluire molte batterie e numerosi battaglioni alpini, composti di veterani esperti del posto, per avviare delle limitate ma importanti operazioni estive tese alla riconquista di altri capisaldi nemici, non foss'altro per venire incontro ai desiderata di Foch...
E guarda caso di fatto queste pur limitate offensive italiane si sarebbero casualmente andate a incrociare proprio con l'attacco di Conrad!

3) Soprattutto, però, ed è il terzo motivo, molto ingenua, per essere buoni, appariva la convinzione che una simile offensiva potesse veramente distrarre gli italiani dai preparativi nemici dell'azione principale, dato che non solo era impossibile mantenere il segreto sull'offensiva allo studio, anche per i numerosi disertori spesso irridentisti provenienti dalle file nemiche che riferivano al dettaglio ogni cosa, ma per la logica considerazione che le condizioni ambientali, di tempo e logistiche impedivano un attacco su larga scala, l'unico che avrebbe potuto impensierire a tal punto gli italiani da farli pensare ad un'azione decisiva: per quanto infatti si fosse combattuto a lungo e anche duramente su quelle cime alte mediamente oltre i 3.000 metri, facenti parte di due distinte catene montuose attraversate trasversalmente dal vecchio confine, l'Ortles-Cevedale e l'Adamello Presanella, quelli erano stati di fatto sempre fronti periferici sui quali ad affrontarsi raramente erano state forze della consistenza superiore ad un reggimento, anche negli scontri più impegnativi, come quello sanguinosissimo sulle Vedrette nell'aprile 1916 o la prestigiosa conquista italiana del Corno Cavento nel giugno 1917, favorita anche dall'azione del poderoso "Ippopotamo dell'Adamello", il pezzo di medio calibro più in alto d'Europa, un vecchio cannone da 149 G (149/23) in ghisa reduce dalla Guerra di Libia pesante 6.000 chili e issato a forza di braccia dagli alpini con l'aiuto dei quadrupedi in due mesi di durissima marcia sino alla Cresta della Croce (Quota 3.305), dove tuttora domina la valle sottostante, dichiarato Monumento Nazionale!
(Sulla storia dell'Ippopotamo dell'Adamello v. http://www.anavittorioveneto.it/la-storia-dellippopotamo-cannone-delladamello/ e https://www.youtube.com/watch?v=9HjzPWA7YSc#action=share; v. anche più in generale sulla Guerra Bianca  in Adamello http://www.lagrandeguerra.net/gggadamello.html).

L'Ippopotamo dell'Adamello, ieri...

L'Ippopotamo dell'Adamello, oggi...




Di fatto, le unità impegnate nell'attacco, per quanti sforzi si potessero fare e per quanto sceltissime potessero essere, non potevano che essere numericamente insufficienti, com'era ovvio che fosse alla luce di quanto detto sopra, ed infatti la X° armata di von Krobatin deputata all'attacco era composta da sole due divisioni, la 1° K.u.K. J.T.D.-Infanterie Truppen Division da montagna del Feldmaresciallo Joseph Metzger (con la 7° e la 22° brigata da montagna) e la 22° territoriale austriaca K.K. (Kaiserlich-Koenigliche) Landwehr Schutzen del Maggior Generale Rudolf Muller (3° e 26° reggimento Schutzen e 1° e 2° Kaiserschutzen), più una compagnia d'assalto (Sturmkompanie) e due battaglioni di Feldjäger, con l'appoggio di sole 24 batterie d'artiglieria: unità veterane, protagoniste dello sfondamento di Caporetto (proprio dalle linee della 22° erano stati lanciati i gas letali che avevano sterminato nella Conca di Plezzo l'87° Friuli!), ma veramente troppo poca cosa per indurre gli Alti Comandi italiani a spaventarsi!

A tutti questi elementi di criticità specifici si aggiungevano i problemi comuni agli altri fronti, la penuria se non mancanza di tutto, che costringeva a sperare nella cattura dei nostri magazzini integri per proseguire con successo l'azione, la necessità di seguire percorsi obbligati e assai disagevoli per sviluppare l'attacco, tutti presidiati dalle nostre truppe, il precario coordinamento con le altre operazioni in corso, acuito dalla mancanza di linee di collegamento sicure, che impediva di alimentare in qualche modo l'offensiva.

Alpini sciatori sull'Adamello


UN FALLIMENTO ANNUNCIATO
Così, i ripetuti attacchi della 1° divisione nemica di Metzger sarebbero stati puntualmente respinti dalle due divisioni del III° C.A. alpino, la 5° del Maggior Generale Ugo Porta (IV° e VII° raggruppamento alpino, composti rispettivamente dal 7° e 19° gruppo e dall'8° e 16°) e la 75° del parigrado Giovanni Arrighi (III° e V° raggruppamento alpino, rispettivamente col 3° e 11° gruppo e col 2° e 15°), anche grazie all'efficacissimo fuoco di controbatteria delle nostre artiglierie, che avevano cominciato a sparare quasi in contemporanea con quelle nemiche, sorprendendo completamente gli Alti Comandi austro-ungarici che solo in quel momento vennero clamorosamente a sapere che anche gli italiani erano evidentemente in procinto di dare il la ad una LORO offensiva!

Traiamo dal libro "I diavoli dell'Adamello" di Luciano Viazzi (Mursia Ed.), citata in https://www.freeforumzone.com/discussione.aspx?idd=9818659,  alcune brevi annotazioni sullo svolgimento dello scontro.
I Kaiserschutzen della 1°  JTD alle 06.00 di mattina del 13 giugno, terminato il bombardamento terrestre delle loro artiglierie, sotto una nebbia fittissima attaccarono in particolare su due direttrici, cioè verso Cima Cady dall'Ospizio San Bartolomeo e su Quota 2.545 dei Monticelli da Quota 2.432.
Mentre l'attacco nemico su Quota 2.545 fu coronato da successo, sia pure con gravissime perdite da parte della compagnia attaccante, giunta in cima con soli 35 uomini illesi e capace peraltro di respingere a colpi di bombe a mano anche un successivo contrattacco lanciato dalla 52° compagnia dell'Edolo insieme con il suo plotone di arditi, per gli austro-ungarici le cose non andarono altrettanto bene contro la posizione del "Porcospino", Cima Cady, dove la 1° divisione non riuscì a sfondare per la resistenza di quattro compagnie alpine, la 114° e la 119° del battaglione Monte Clapier del 1° reggimento (8° gruppo) e la 250° e 251° del Valcamonica del 5° (11° gruppo), che dopo esserne state scacciate riuscirono a riprendere tutte le posizioni perdute intorno alle 18,00 del tardo pomeriggio.
Tutto questo peraltro accadeva mentre contemporaneamente fallivano anche gli attacchi nemici lungo tutta la linea fortificata che andava dalla Ridotta Oberdan, che insieme alla Ridotta Garibaldi sbarrava l'accesso al Tonale, fino alle posizioni tenute dal Monte Rosa del 4° reggimento (16° gruppo).
Il mancato sfondamento dei reparti d'assalto austro-ungarici  su tutta la linea del Tonale costringeva pertanto ad intervenire già sin dalla tarda sera del 13 anche la 22° divisione di Muller tenuta fino a quel momento di riserva in seconda linea, ma ancora una volta i continui assalti del nemico finivano con lo schiantarsi, stavolta definitivamente, contro l'ostinata resistenza, oltre che dell'Edolo, posto a presidio della Conca Presena e capace di respingere il giorno dopo un attacco a Quota 2.558, anche del Tolmezzo dell'8° reggimento (16° gruppo), della 178° compagnia mitragliatrici e ancora una volta  del Monte Clapier e del Monte Rosa, tutti reparti menzionati nel bollettino n. 1.120 del 18 giugno.


Un gruppo di ufficiali alpini a Temù, retrovia del Tonale, nel 1917: Gianmaria Bonaldi è il secondo da destra
(Fonte: Archivio Museo della Guerra Bianca- Fondo Bonaldi)
A tarda sera von Krobatin doveva mestamente dichiararsi sconfitto, dopo due soli giorni di battaglia sanguinosissima, senza aver ottenuto altro  risultato significativo che la presa di Quota 2.545 dei Monticelli.
Le cifre ufficiali sulle perdite, pari a 2.300 austro-ungarici (la gran parte presi prigionieri) e "soli" 320 italiani, paiono francamente ottimistiche, anche a parere di autorevoli storici locali.
Di sicuro, nel suo libro autobiografico "Ragù", pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi ancora nel '58 e nel '70, in quest'ultimo caso ampliato e col nuovo titolo "Rancio speciale",  un testimone diretto della "Guerra Bianca" in montagna, il bergamasco Gianmaria Bonaldi, tenente dell'Edolo, soprannominato "La Ecia", la vecchia, per via del mento appuntito sovrastato da un grosso naso incorniciato di occhiali dalle spesse lenti, avrebbe tristemente ricordato:

"La vasta piana del Tonale, le pendici dei Monticelli e di Cima Cady erano un tragico sviluppo di morti uno sull'altro, a cataste nei punti più contesi. La notte scese su tanta furia e strazio di uomini: le grida dei feriti risuonavano spaventose nell'oscurità (...)"

Quella stessa notte, però, proprio mentre Lawine moriva ingloriosamente partivano invece con moltissime speranze le altre due operazioni austro-ungariche, Radetzky e Albrecht, alle 03,00 del 15 giugno.

DOPO DUE GIORNI, INIZIA L'ATTACCO PRINCIPALE
Ad inaugurare la seconda fase dell'attacco, quella principale, fu un terrificante bombardamento terrestre lungo tutta la linea dall'Astico al Piave, senza soluzione di continuità, condotto con granate normali, fumogene, shrapnel e caricate anche a gas lacrimogeni e asfissianti (di queste ultime ne sarebbero state sparate ben 170.000!)
Cinque ore più tardi, alle 08,00 del mattino, tutte le fanterie nemiche partivano all'assalto.












8. L'INSUCCESSO DELL'OPERAZIONE RADETSKY (15-16 GIUGNO)

Anche in questo caso la resistenza degli italiani sarebbe stata però così forte ed efficace da sorprendere completamente gli Alti Comandi austro-ungarici, che non si aspettavano assolutamente lo sbarramento difensivo che si trovarono ad affrontare, costruito in mesi e mesi di duro lavoro dai nostri genieri.

GLI ITALIANI SANNO IN ANTICIPO GIORNO E ORA DELL'ATTACCO
In verità ci fu comunque una certa confusione, qualche giorno prima, tra i nostri Alti Comandi, quando il capitano Odoardo Marchetti, capo dell'Ufficio Informazioni del Comando Supremo, comunicò che:

"disertori dell'ultimo momento precisano la data 15 giugno e le 3 l'ora stabilita per l'inizio".

Non tutti i nostri comandanti gli credettero, primo fra tutti Gaetano Giardino, comandante della IV° armata, che dopo i tanti falsi allarmi dei giorni precedenti dubitava pure di questo, e pertanto non diede disposizioni particolari al riguardo, e come lui la maggior parte degli altri.
Non tutti, però, si diceva: ad esempio il comandante del I° corpo della IV° armata, il Tenente Generale Donato Etna,  e quello del XXVII° dell'VIII°, il parigrado Antonino Di Giorgio, vollero fidarsi.
Ma non furono gli unici, tra loro ci fu anche Luca Montuori, il comandante della VI° armata, che però, più che crederci lui, si fece convincere da un suo sottoposto, l'allora colonnello Roberto Segre, comandante dell'artiglieria della sua armata, un grandissimo ufficiale torinese di origine ebraica (che per sua "fortuna" sarebbe morto nel 1936, appena in tempo prima di vedere le leggi razziali con tutto quello che ne sarebbe seguito).
Gran parte del merito per il fallimento dell'Operazione Radetsky va ascritto proprio a lui e alla sua geniale intuizione.

L'ARTIGLIERIA È LA VERA VINCITRICE DELLA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO
Roberto Segre
(Torino, 6/4/1872-22/9/1936)
Segre infatti, dopo aver convinto Montuori ed averne avuta espressa autorizzazione, ottenne di aumentare notevolmente le scorte disponibili di proietti a disposizione delle sue artiglierie (si parla di circa 6.000.000 di ordigni!) per consentire un fuoco di lunga durata su tutto l'arco del fronte, e nella notte tra il 14 e il 15 giugno ordinò a tutti i suoi 1.428 pezzi di scatenare due vere e proprie ondate d'inferno, una alle 24,00 e l'altra ancora più intensa alle 02,25, cioè esattamente 35 minuti prima che partisse il previsto bombardamento del nemico, tutte dirette sulle zone di radunata e le vie d'afflusso delle truppe alla prima linea, mettendo in pratica quello che lui stesso avrebbe definito il principio di "contropreparazione anticipata".
Come lui anche le artiglierie del I° e del XXVII° C.A. cominciarono a sparare in contemporanea o addirittura poco prima delle 03,00!
Per cinque lunghe ore, tanto durò il bombardamento iniziale degli italiani, le linee nemiche vennero così colte totalmente di sorpresa nel pieno del dispiegamento offensivo, con le batterie (aumentate di numero e potenza) ora spostate più in avanti e le truppe ammassate tutte nelle trincee, ormai pronte a scavalcarle ed a lanciarsi in avanti per chiudere una volta per tutte la contesa.

L'effetto di quella sorpresa tattica sull'XI° armata del Colonnello Generale von Scheuchestel fu assolutamente dirompente, perché non solo disaggregò in partenza l'intero dispositivo nemico ormai tutto sbilanciato in avanti, non solo causò moltissime perdite in uomini, mezzi e materiali, tanto più gravi in quanto ovviamente tutto nel campo nemico era sovradimensionato rispetto al solito, ma contribuì altresì a far crollare immediatamente il morale degli attaccanti, i quali sotto quel diluvio di bombe persero subito tutte le certezze di vittoria che avevano acquisito fino alla vigilia dell'offensiva, con una ricaduta anche sulla loro capacità combattiva.
La cosa più importante però fu un'altra ancora: in capo a due giorni l'intera offensiva sul Grappa e gli Altipiani sarebbe completamente fallita per impossibilità materiale di alimentarla, dato che il fuoco dell'artiglieria italiana avrebbe devastato completamente le retrovie austro-ungariche, divelto tutti i camminamenti, annientato interi reggimenti soprattutto di seconda e persino terza linea, colti in pieno dal bombardamento nei centri di raccolta o lungo le vie di afflusso alla prima, quando non addirittura nel momento stesso del subentro, in cui vennero fatti a pezzi insieme con quelli, stanchissimi e già pieni di vittime, che avevano finora combattuto in trincea.
Tutto questo mentre gli italiani, e soprattutto i maledetti arditi, sembravano capaci invece di sbucare dappertutto all'improvviso a riprendere il terreno perso, conquistarne di nuovo e fare anche prigionieri a carrettate, come se fossero loro in superiorità numerica!

Insomma, è vero che dobbiamo ringraziare per la vittoria di quella primavera l'indubbio spirito combattivo di tutte le nostre truppe, rinfrancate nello spirito e nel morale dagli ultimi provvedimenti di Diaz e del governo.
È vero anche che non possiamo dimenticare nemmeno l'infaticabile opera laboriosa dei genieri, che consentì soprattutto sul Grappa di far affluire rapidamente dalle riserve tutto ciò che serviva nei settori sotto attacco grazie al loro prodigioso sistema di camminamenti, strade militari, magazzini e ripari in caverna, tunnel sotterranei, teleferiche.
Non si possono disconoscere neppure le rischiosissime imprese degli arditi, usati per la prima volta in larga scala, che avrebbero permesso di sopperire col coraggio, la sorpresa e l'addestramento, pur con reparti di soli 500 o 600 uomini non di più, all'inferiorità numerica 1 contro 5 o 1 contro 10 addirittura rispetto a interi reggimenti o brigate.
Tutto questo, insomma, è incontestabile,
eppure la verità tuttavia è una e solo una.
Che la vera vincitrice della battaglia del Solstizio sarebbe stata proprio l'artiglieria italiana, che infatti da allora celebra proprio in quel giorno la sua Festa.

L'OFFENSIVA SI ARENA SUBITO SULL'ALTOPIANO DI ASIAGO...



L'Altopiano dei Sette Comuni (detto anche Altopiano di Asiago)





Sull'Altopiano di Asiago, dove 7 divisioni di quattro corpi d'armata (da sinistra a destra il XIV° inglese, il XII° francese e il XIII° e XX° italiani) se la vedevano contro 9 austro-ungariche di tre (III°, XIII° e VI°),  non andò a dir la verità subito tutto liscio agli italiani e ai loro alleati.
Quella mattina infatti alla sinistra e al centro dello schieramento difensivo in Valsugana gli inglesi (attaccati nei punti di sutura dei settori tra le tre loro divisioni 7°, 23° e 48°, ritenuti vulnerabili) e i francesi (23° e 24° divisione) vennero ricacciati indietro dalle StossTruppen, le truppe d'assalto del III° e del XIII° C.A., avanzate in pochissime ore addirittura fino alla linea di resistenza ad oltranza, con un'azione assai simile a quella subita dagli italiani a Caporetto.
Tra le cause di questo sbandamento non pochi accennano al timore soprattutto dei francesi per l'uso del gas da parte del nemico (meno temuto dagli inglesi, che indossavano maschere antigas di recentissima introduzione, le stesse consegnate da poco anche agli italiani) e soprattutto ad una sorta di enorme errore di sottovalutazione da parte degli inglesi (i tommies consideravano gli austro-ungarici soldati quasi di Serie B, a livello di un'armata balcanica qualsiasi, nulla a che spartire coi tedeschi che li stavano impegnando in Francia, e analoga impressione d'altronde provavano per gli italiani, a dir la verità diversamente dai loro Alti Comandi).
Nonostante tutto, ben presto lo sforzo offensivo degli austro-ungarici si affievolì vistosamente, grazie soprattutto al fuoco delle nostre artiglierie di corpo d'armata, che colpendo con estrema durezza le retrovie, i concentramenti di truppe e le stesse batterie nemiche avevano messo in crisi l'afflusso delle riserve verso la prima linea impedendo al contempo la prosecuzione degli assalti, così sin dal pomeriggio una serie di vigorosi contrattacchi aveva rimesso a posto le cose.



















La
 stessa cosa avveniva sul fianco destro difeso dal XIII° C.A. italiano del Maggior Generale Ugo Sani, attaccato dalle tre divisioni del VI° C.A. nemico, la 3° K.u.K. Edelweiss del Tenente Generale Heinrich Wieden Edler von Alpenbach, la 18° K.u.K. del Maggior Generale Julius Vidalè von San Martino e la 26° territoriale austriaca Landwehr Schutzen del Tenente Generale Alois Podhajsky.
In un primo momento le brigate Lecce e Pinerolo della 14° divisione erano costrette a cedere sotto la spinta delle SturmTruppen e della Edelweiss il Costalunga (Quota 1.753) e sulla Linea dei Tre Monti il Valbella (Quota 1.312) e il Col del Rosso (Quota  1.281), e lo stesso accadeva anche alla Padova della 28° che, pur tenendo valorosamente le sue posizioni sul Monte Melago, veniva cacciata dalla 26° Schutzen dal Col d'Echele (Quota 1.107), il terzo dei famosi Tre Monti, e dal Pizzo Razea sino alla linea di resistenza ad oltranza.
Si poteva creare un buco gravissimo tra il Pizzo Razea occupato dal nemico e gli sbocchi in Val Frenzela e Val Brenta tenute ancora saldamente dalla 29° divisione  del XX° C.A. del Tenente Generale Giuseppe Francesco Ferrari (brigate Murge e Treviso), in un settore attaccato all'ala sinistra della prospiciente IV° armata di Giardino, quella presidiata dai due corpi IX° e VI° rispettivamente dei parigrado Emilio Del Bono (futuro Quadrumviro del Fascismo) e Luigi Lombardi.






Tutta la cerniera di collegamento tra l'Altopiano e il Grappa si poteva rompere, aprendo in due quel delicatissimo settore di convergenza tra la VI° e la IV° armata, ma già dal pomeriggio le truppe della 14° e della 28° divisione riconquistavano completamente, supportate dal 9° e 10° Regina e dal 3° bersaglieri, col soccorso anche di elementi della Siena prelevati dalla riserva, le posizioni di Cima Echar (Quota 1.366) e della Busa del Termine, sfruttando i terribili vuoti delle prime linee nemiche, non adeguatamente colmati dalle poche riserve affluite in loco dalle retrovie già ormai devastate dai pezzi da assedio italiani (aumentati da 40 batterie che erano nel 1915 a 750 in quel momento!): cannoni da 381, 155, 152, 149 e 120 mm, obici da 305 e 152, mortai da 260 e 210, capaci nell'insieme di generare una potenza di fuoco immane!

...MA ANCHE SUL MONTE GRAPPA



Sul prospiciente Grappa le cose avevano seguito un andamento assai simile, perché sulla sinistra, nel settore del IX° C.A. del Tenente Generale De Bono, le posizioni tenute dai due reggimenti 59° e 60° della brigata Calabria (18° divisione), già pesantemente battute dall'artiglieria austro-ungarica, erano state attaccate violentemente dalla 53° e 54° brigata della 27° divisione K.u.K. cecoslovacca di Kassa (Kosice) del Maggior Generale Hermann Sallagar, entrambe provenienti dal Monte Asolone (Quota 1.520): il 59° era stato travolto, causando la perdita sin da subito della posizione avanzata di Col del Miglio (Quota 1.360) e poi in rapida successione tra le 10,00 e le 11,00 della linea di resistenza dei Colli Alti, il Col del Moins, il Col Moschin (Quota 1.279), il Col Fenilon (Quota 1.327) ed il Col Fagheron (Quota 1.315), fino ad arrivare al Col Finestron (Quota 1.285) nell'Alta Valle del Lepre.
Da qui addirittura pattuglie si erano spinte anche a Ponte San Lorenzo, 
col serio rischio per gli italiani di perdere anche il Col Raniero (Quota 1.249), penultimo caposaldo della marginale, praticamente addossato all'ala della linea di massima resistenza!
Era una situazione pericolosissima, perché perso quel settore si sarebbe potuto aprire al nemico l'accesso alla pianura veneta, proprio quando al centro del saliente tra la Val Cesilla e la Val delle Foglie, difeso dal VI C.A. del Tenente Generale Luigi Lombardi, le due brigate Cremona e Pesaro della 15° divisione del parigrado Luigi Pirzio Biroli, sotto attacco della 55° K.u.K. di Aurel Le Beau e della 60° K.u.K. di Karl Freiherr von Bardolff del I° C.A. nemico, erano sul punto di cedere rispettivamente sul fianco il Pertica (Quota 1.549) e il Monte Coston (Quota 1.590) e al vertice le cime degli strategici Solaroli (Quota 1.671), nonostante una coraggiosa ed accanita resistenza.


Le trincee dell'Asolone sul massiccio del Monte Grappa
(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/la-battaglia-del-solstizio.aspx)


Però, clamorosamente proprio quando alle 11,30 l'85° reggimento K.u.K. della 54° brigata slovacca di Eperjes (Presov), dopo aver catturato oltre 1.000 uomini, occupava la chiesa di San Giovanni, Palazzo Negri, Casa dei Pastori e Ca' dei Briganti, e tutto sembrava ormai precipitare, improvvisamente intorno al primo pomeriggio le cose cambiavano, quando con un vigoroso contrattacco per prime le fiamme nere del VI° reparto d'assalto del capitano Stagno, affluite in formazione dispersa sotto i poderosi colpi dei cannoni nemici dai loro baraccamenti in Val d'Oro, una stretta valle formata dalle pendici del Monte Oro, del Pertica e dell'Asolone, proprio di fronte alle prime linee nemiche, affrontavano le loro dirette concorrenti, le SturmTruppen, avanzate fino a quel momento con le maschere sotto i vapori mortali dei gas scatenati dalla loro artiglieria sui poveri battaglioni italiani.

I gas però non potevano fermare gli uomini di Stagno, che disponevano anche loro di efficientissime maschere inglesi dell'ultimo modello, così ben presto si arrivò al cozzo spaventoso tra i due reparti d'assalto nemici: niente però in quel momento avrebbe potuto fermare gli arditi italiani, che durante la lenta marcia verso gli austro-ungarici ben avevano potuto rendersi conto del panorama di morte e distruzione che le granate d'artiglieria nemica, gli shrapnel e i gas avevano uniformemente distribuito sulle prime linee italiane, ed erano fermamente determinati a fermare quella pericolosissima emorragia al centro del loro schieramento.
In breve tempo le SturmTruppen venivano così sgominate, a furia di petardi Thevenot, raffiche di mitragliatrice e colpi di pugnale nei confronti corpo a corpo, e costrette ad arretrare fino addirittura alle loro linee sull'Asolone: le fiamme nere le avrebbero addirittura occupate, se l'artiglieria nemica non le avesse costrette a ritornare indietro, me nel frattempo altri reggimenti italiani cominciavano a loro volta ad affluire dalle riserve sino alle posizioni perse in precedenza, così quella linea a metà pomeriggio era già integralmente ricostruita.

(Ricostruzione che ho tratto dal diario del capitano Mario Banci Menotti del VI° reparto d'assalto, citata nel benemerito sito Fronte del Piave, e precisamente a questo link: http://www.frontedelpiave.info/public/modules/Fronte_del_Piave_article/Fronte_del_Piave_view_article.php?id_a=315&app_l2=45&app_l3=315&sito=Fronte-del-Piave&titolo=VI-R.A.-sul-Grappa).

Proprio qui infatti stava il nocciolo di tutta la questione, il motivo primo per cui l'intera offensiva sarebbe alla fine naufragata su tutti i fronti impegnati dal nemico: nel durissimo confronto di quella prima mattina infatti entrambi i contendenti se ne erano date talmente di santa ragione che ad un certo punto, dopo aver buttato nel calderone tutto ciò che si poteva utilizzare per innervare l'attacco, gli austro-ungarici si accorsero di non avere più uomini, armi, munizioni e viveri da inviare per alimentare quell'azione, anche per l'efficacissima azione dell'aviazione e soprattutto ancora una volta delle nostre artiglierie, grazie alle quali non venne nemmeno tentata dagli attaccanti alcuna azione sul Monte Tomba (Quota 868), visto che dalla base del saliente le posizioni conquistate sulla linea marginale erano sistematicamente battute e prese d'infilata dai nostri pezzi.
Ecco perché sin da quel pomeriggio gli italiani si sarebbero ripresi quasi tutte le posizioni perse in precedenza.
Ed ecco anche perché l'operato dei nostri assaltatori (sia quelli dei reparti autonomi assegnati alle varie armate, sia quelli dei plotoni divisionali, sia quelli sul Piave appartenenti alla neo costituita 1° divisione d'assalto), gli unici in grado di riempire i vuoti fin tanto che dalle retrovie arrivassero le nostre riserve, tenute fino a quel momento accuratamente al riparo degli apprestamenti difensivi messi su da Gavotti e dai suoi, si sarebbe rivelato fondamentale, non solo sul piano strettamente militare, ma anche su quello morale, perché le fanterie, ben conoscendone valore e coraggio, si galvanizzavano al solo loro vederli, con risultati strabilianti.


Gli uomini del IX° reparto, con al centro il comandante maggiore Messe, fotografati subito dopo la riconquista del Col Moschin







L'IMPRESA SUL COL MOSCHIN DEL IX° ARDITI (15 GIUGNO )
Tra i reparti degli arditi, non me ne vogliano gli altri, uno però rifulse più di tutti, quello che nel settore del IX° C.A. di De Bono era stato nel frattempo fatto affluire appositamente sin dalle 12,15 sul Col del Gallo (Quota 1.224): le 600 fiamme nere del IX° reparto d'assalto (del quale gli attuali nostri paracadutisti incursori del 9° reggimento Col Moschin sono i riconosciuti eredi naturali).


Ricostruito sulle ceneri del poco efficiente VI° reparto uscito a pezzi dopo Caporetto grazie all'opera del suo nuovo comandante, il maggiore dei bersaglieri Giovanni Messe (futuro Maresciallo d'Italia e comandante prima del Corpo di Spedizione Italiano in Russia nel 1941 e poi della I° armata in Tunisia nel 1943), il IX° con una serie di fulminei colpi di mano, sempre coadiuvato da due battaglioni del 91° Basilicata (18° divisione) e dai pezzi della 3° batteria del 50° artiglieria da campagna e della 61° e 152° batteria da montagna (tutti citati nel bollettino n. 1.121 del 19 giugno), si sarebbe ripreso a uno a uno tutti i capisaldi persi fino a quel momento sulla sinistra, a partire da Palazzo Negri  (azione in cui moriva il capitano Umberto Pinca) ed in progressione tutti gli altri, compreso a metà pomeriggio il Col Fagheron e l'intera zona di San Giovanni, alle 22,00 di sera il Col Fenilon, e l'indomani 16 giugno il Col Moschin.
Attaccato alle 07,00 del mattino, il Col Moschin sarebbe stato interamente catturato già alle 07,10 al termine di un furiosissimo scontro corpo a corpo nel quale venivano catturati 27 ufficiali, 250 uomini di truppa, 17 mitragliatori, un cannoncino da trincea, due batterie da montagna, una colonna di 20 muli con tutto il munizionamento oltre a numeroso materiale bellico di altra natura, al costo complessivo in quei due giorni di soli 6 caduti e 81 feriti.
Questo il testo del fonogramma inviato da Messe al Comando al termine della vittoriosa azione:

"Dal Comando IX Reparto d'Assalto, 16 giugno, ore 7,30 al Comando Brigata Basilicata. Comunico che IX Reparto d'Assalto ha riconquistato in dieci minuti Col Moschin. Numerosi prigionieri e grande quantità di materiali sono stati catturati. Artiglieria ha aperto il fuoco ad ore 6,45, ma con tiro meravigliosamente preciso ed efficacissimo. Maggiore Messe"

(http://www.mymilitaria.it/liste_03/2_medaglie_ardito_1918.htm)

Una stele marmorea ricorda oggi sulla vetta del colle l'impresa dei nostri arditi.
Sul basamento della colonna romana del Ponte di San Lorenzo è posta da allora un'epigrafe che recita:

"Qui giunse il nemico e fu respinto per sempre il 15 giugno 1918".

Contemporaneamente, mentre purtroppo il 21° e 22° Cremona schierati in Val Cesilla, investiti in pieno dall'attacco, erano comunque costretti a cedere dopo due giorni di lotta il Pertica, con ingenti perdite (tra cui quella dell'eroico maggiore Luigi Coralli, comandante di battaglione del 21° fanteria, caduto il 15 nel disperato combattimento corpo a corpo finale per cercare invano di rompere l'accerchiamento nemico, e decorato con la medaglia d'oro alla memoria), il 240° Pesaro respingeva definitivamente il nemico sulla linea del Monte Rivon, mentre il 239° nel pomeriggio del 14 riconquistava con l'aiuto del III° reparto d'assalto la Quota 1.503 del Coston persa quel mattino, che due giorni dopo il III°/239° sarebbe stato addirittura capace di ampliare occupando la linea nemica proprio di fronte, Quota 1.490, giungendo persino ad inviare alcune pattuglie fino a Quota 1.478, così da mantenere nel saldo possesso della brigata l'intera linea di cresta e ricostituire il collegamento col XVIII° C.A.
Il 239° Pesaro proprio per questo sarebbe stato onorato di una specifica citazione nel bollettino n. 1.125 del 23 giugno.
Al termine di quei tre giorni di fuoco la pur vincente brigata Pesaro avrebbe contato tra le sue file la perdita di 19 ufficiali e 502 gregari, mentre la sconfitta Cremona sarebbe uscita praticamente annientata, con la perdita di 900 uomini, di cui 30 ufficiali, tanto da essere immediatamente inviata a leccarsi le ferite nelle retrovie.
Ormai, però. solo le posizioni sul Pertica e quelle sui Solaroli al centro restavano ancora in mano al nemico.

Fonte: http://www.arsbellica.it/pagine/contemporanea/Piave/Piave.html









LA SERA DEL 15 GIUGNO IL DISASTRO APPARE TOTALE
Già nel pomeriggio del 15 si profilava per l'esercito imperial-regio il disastro, del tutto inaspettato date le premesse e visto che l'inizio era stato comunque tutto sommato incoraggiante, ma fu a sera che la tragica evidenza dei primi bilanci ancora in corso di aggiornamento di quei primi due giorni di combattimenti cominciò a emergere in tutta la sua plastica oggettività, che Pierluigi Romeo di Colloredo Mels ricorda bene nel suo lavoro "La battaglia del Solstizio" (cit. in Bibliografia).
Tutte le divisioni che avevano attaccato erano state battute e costrette a ripiegare, tranne la combattiva Edelweiss sugli Altipiani.
Il XII° C.A. era a pezzi: un reggimento della 38° divisione era stato annientato, un battaglione ridotto a soli 15 uomini;  la 16° aveva subito perdite enormi, tutti i battaglioni erano al limite, un reggimento aveva solo 100 uomini validi, impossibile attaccare l'indomani senza riserve; la 42° Honved aveva tutte le sue compagnie con in media solo 50 fucili disponibili, senza contare l'artiglieria, che aveva perso 85 pezzi e cominciava ad avere carenze di munizionamento...
Il VI° C.A. era gravemente compromesso, con la 18° al massimo al 50% della forza, la 26° al 40, persino la Edelweiss ridotta al 60...
Due divisioni del XXVI°, la 27° e la 32°, gravemente colpite dalle perdite, non erano più in grado di continuare, tanto da dover inviare in fretta e furia ben nove battaglioni della 4° divisione coi rimpiazzi...
E poi ancora, la 55° e la 60° del I° C.A. erano stanche e con parecchie perdite anch'esse, per non parlare della 50° divisione del XV°, i cui quattro battaglioni impiegati erano ormai fuori dai giochi...
Uno sconfortato Viktor von Scheuchenstel annotava alle 21,00 nel suo diario:


"Impossibile pensare a un nuovo attacco domani".

Ancor più tranchant era l'Arciduca Giuseppe, il quale nel suo, avendo saputo che le truppe di Conrad erano state tutte respinte sulle posizioni di partenza ed anche il XVI° C.A., alla destra dell'Armata dell'Isonzo, come vedremo era stato costretto a ripiegare, scriveva: 


"In una parola abbiamo subito una grave sconfitta".

In quegli stessi drammatici momenti lo stupito e furibondo Arz, impegnato nel treno imperiale fermo a Senales a festeggiare con Carlo i trent'anni di regno dell'alleato Guglielmo II°, riceveva la telefonata di un amareggiatissimo e quasi rassegnato Conrad che con voce affranta gli riferiva quelle tragiche notizie.
Alle 23,00 un telegramma perveniva all'indirizzo dell'Imperatore, inviato dal Comando del Gruppo Armate del Tirolo:

"In Tirolo siamo stati battuti; le truppe hanno perduto tutto ciò che avevano conquistato e sono rigettate sulle posizioni di partenza".

In quei primi due giorni ben 46.000 uomini erano andati perduti, tra morti, feriti e dispersi, e la cifra sarebbe salita  a 55.000 fino al giorno 20: tutta gente che era impossibile sostituire.
La mattina del giorno 16 arrivava ufficialmente l'ordine da parte del Comando dell'XI° armata di sospendere le operazioni.





GLI ITALIANI CONTRATTACCANO
Nei giorni successivi sarebbero stati gli italiani ad attaccare, per riprendere le posizioni perdute in precedenza non ancora riconquistate, e ci sarebbero riusciti in gran parte.
Sugli Altipiani, dal 16 la brigata Padova si ritrovò a combattere da sola contro ben due divisioni, con l'intero 117° reggimento che resisteva brillantemente sul Melago ai ripetuti assalti della 26° Schutzen, sia pure con la perdita del comandante  del reggimento, il tenente colonnello Bernardino Bertano, caduto su Cima Cischietto, e un battaglione del 118° che invece si immolava invano all'attacco sul Col del Rosso contro la 3° Edelweiss, che riusciva a ristrappargli quella cima dopo averla in un primo momento persa, ma nel frattempo altri scontri durissimi si verificavano tra il 17 e il 19 giugno sul Costalunga, alla fine ripreso dalle fiamme verdi del LII° reparto d'assalto, giunti sulla cima alla testa del 13° Pinerolo e del 3° bersaglieri della 14° divisione.
Il 17 si faceva notare ancora una volta la Padova, capace di ristabilire il collegamento col Pizzo Razea, catturando 150 prigionieri e un rilevante bottino, ma era l'ultimo suo sforzo di quella battaglia: dopo aver sopportato la perdita di ben 32 ufficiali e 1.345 uomini di truppa in quei primi tre giorni, il 18 veniva rilevata dalla brigata sorella Teramo, proveniente dalla riserva divisionale.
Proprio i due reggimenti della Teramo (241° e 242°), dopo aver in un primo momento perso il possesso del Monte Melago al termine di ripetuti scontri nei quali il 21 rimaneva ferito gravemente il comandante del 241°, il 36enne Rodolfo Graziani, il più giovane colonnello dell'esercito (futuro protagonista delle guerre coloniali in Libia ed Etiopia, nonché Maresciallo d'Italia e comandante poi delle forze della R.S.I.), avrebbero ripreso oltre a quella cima anche l'Echar (Quota 1.341) e il Col dei Noselari, avviando subito dopo, insieme con la Lecce della 14°, l'aggregata Regina della 2° ed una compagnia della divisione cecoslovacca, la riscossa italiana sui Tre Monti, Valbella, Col del Rosso e Col d'Echele, guadagnandosi la citazione nel bollettino n. 1.138 del 5 luglio (per la Lecce già la terza, con quella sul n. 1.120 del 18 giugno del 266° reggimento la seconda in 17 giorni).
Meritatissimi riconoscimenti avrebbero ricevuto i reggimenti 13° e 14° della brigata Pinerolo della 14° divisione (Tenente Generale Principe Maurizio Gonzaga del Vodice), entrambi decorati con la medaglia d'oro al valore, e quelli della Lecce (265° e 266°) sempre della 14°, della Regina (9° e 10°, espressamente citati nel bollettino n. 1.136 del 3 luglio) e delle due Padova (117° e 118°) e Teramo (241° e 242°) della 28° (Maggior Generale Alessandro Tagliaferri), tutti premiati con la medaglia di bronzo.

Sul Grappa i principali protagonisti della nostra resistenza, che stava stupendo il mondo intero, erano ancora una volta gli assaltatori: tra il 16 ed il 24 le fiamme nere del XVIII° reparto erano capaci di riconquistare dopo una serie ripetuta di assalti anche il saliente precedentemente perso dei Solaroli, mentre il solito IX° di Messe con un magistrale colpo di mano alle 16,30 del 24 si sarebbe andato addirittura a riprendere persino l'Asolone (Quota 1.520).
Purtroppo, ancora una volta i nostri Alti Comandi dimostrarono di non aver capito come si dovevano utilizzare correttamente gli arditi, non supportandone l'azione con un adeguato rinforzo di fanterie subito dietro di loro che ne potesse sfruttare appieno il successo, così il furioso fuoco delle artiglierie nemiche costrinse quei valorosi, rimasti soli e quasi del tutto isolati in vetta dopo ore e ore di orgogliosa resistenza sotto il fuoco nemico di fucileria e armi automatiche, a ridiscenderne aprendosi sparando la via: sarebbero riusciti a ritornare alle posizioni di partenza, con la perdita complessiva però di ben 19 ufficiali e 305 uomini di truppa, quasi la metà dell'intera forza!
Tra i caduti, il giovane alfiere del reparto, Ciro Scianna, falciato da una mitragliatrice appena giunto sulla cima con la bandiera del suo reparto, che sarebbe stato decorato con la medaglia d'oro alla memoria. 

Nei furiosi combattimenti di quei giorni, però, oltre agli arditi del IX° e XVIII° reparto d'assalto, che nonostante le loro ripetute imprese sarebbero però stati decorati con la sola medaglia d'argento al valore, si sarebbero distinti quelli del III°, del VI° e del XXVI°, le due brigate della 18° divisione (Magg. Gen. Giovanni Arrighi), Basilicata (91° e 92° reggimento, entrambi decorati con la medaglia d'argento al valore) e Bari (139° e 140°, quest'ultimo decorato con la medaglia d'argento), la Ravenna (37° e 38°, il primo decorato con la medaglia d'argento) della 24° (Luigi Tiscornia), l'Emilia (119° e 120°, entrambi decorati con la medaglia d'argento) della 1° (Pio Ivrea) e la Cosenza (243° e 244°, anch'essi medaglie d'argento) della 45° (Giovanni Breganze).
Un numero spropositato di medaglie al valore, 640, sarebbe stato dato all'Armata del Grappa per i combattimenti di quei giorni, e di queste ben 486 se le sarebbero meritate i soldati.
Il Pertica sarebbe rimasta l'unica cima conquistata dagli austro-ungarici al termine della battaglia.

9. L'OPERAZIONE ALBRECHT AFFONDA NEL PIAVE (15-24 GIUGNO)

Alfred Georg Freiherr von Waldstatten
(Vienna, 9/11/1872-
Mauerbach,12/1/1952)
Nonostante il Tenente Generale Alfred Georg Freiherr von Waldstatten, Sottocapo di Stato Maggiore, da Belluno facesse sapere in quella stessa serata del 15 giugno che, pur ritenendo impossibile proseguire nell'attacco da Asiago, si doveva insistere però nel piano primigenio del Comando Supremo, quello che prevedeva l'attacco a est del Brenta in direzione della pianura, che si sarebbe potuto effettuare dopo quattro settimane di preparazione, un po' tutti a questo punto compreso lui erano comunque favorevoli a mettere tutte le forze in Trentino e le riserve dello stesso Comando Supremo a disposizione di Boroevic, che al contrario di Conrad aveva ottenuto dei risultati sul Piave.
Lo stesso Waldstatten a questo punto suggeriva di inviare sette divisioni prese dall'XI° armata, visto che gli italiani avevano trasferito truppe dal settore alpino al Piave per cui non c'erano da temere loro nuove offensive dal Trentino.

Ovviamente era d'accordo anche Carlo I°, che in un colloquio con lo stesso Conrad non solo aveva escluso un ulteriore proseguimento dell'offensiva in Trentino e sull'Altopiano dei Sette Comuni, ma aveva preso atto anche delle difficoltà incontrate tra Brenta e Piave, dove le truppe erano stanche, duramente provate sul piano morale e con parte delle riserve che erano state già impegnate, esattamente come quelle di Conrad.
Così, anche se per dargli un contentino l'Imperatore incaricò quest'ultimo di tenere con le sue due armate le posizioni acquisite e dispose che l'XI° preparasse comunque un attacco nel settore tenuto dal XXVI° C.A. di von Horsetsky col concorso del VI° e del I° C.A. e che nel frattempo la 48° divisione K.u.K. bosniaca di Sarajevo del Maggior Generale Michael Gartner Edler von Karstwehr si trasferisse a Feltre come riserva del Comando Supremo, era però per lui vitale, scrive l'Arciduca Giuseppe nel suo memoriale, non fermare l'attacco sul Piave di Boroevic, 

"dove si era ottenuto qualche successo, tenuto conto che il fallimento di tutta l'offensiva avrebbe potuto avere gravi conseguenze politiche all'interno della Monarchia".

La sua conclusione era quindi scontata:

"Perciò tutto quello che poteva essere raccolto sulle retrovie del fronte doveva essere messo a disposizione di Boroevic, perché questi fosse in grado di sfruttare i successi ottenuti, o sul Montello o sul Basso Piave".


Ecco perché la sera del 15 giugno l'Imperatore Carlo I° aveva questo drammatico dialogo al telefono con Boroevic:

"L'undicesima armata è stata respinta. Tenga le posizioni. Glielo chiedo in nome della Monarchia".
"Faremo tutto ciò che è in nostro potere".
"Ne sono convinto".

Stava qui tutto il dramma che stava accadendo per gli austro-ungarici.
Boroevic si era visto confermare in pieno tutte le sue perplessità sul piano di Conrad insieme con la giustezza delle sue ragioni sul fatto che non il Trentino ma il Piave dovesse essere la chiave di volta dell'offensiva austro-ungarica.
Su quel fronte infatti al momento di questo drammatico colloquio la situazione era più favorevole alle sue truppe, ma con parecchie criticità.
Mentre quasi metà Montello era in mano austro-ungarica, tutta la riva destra del Medio Piave dai Ponti della Priula fino a Candelù esclusa era ancora saldamente presidiata dalle truppe italiane, mentre dalle Grave di Papadopoli fino a Capo Sile essa era passata in mano del Gruppo Boroevic, con ultime piccole teste di ponte tra Chiesanuova, Cavazuccherina e Cortellazzo, proprio alla foce in Adriatico, per una profondità di qualche chilometro.
Ma arrivati fin qui la situazione pareva essersi inchiodata.
Come ci eravamo arrivati?




IL GRUPPO BOROEVIC MANDA 100.000 UOMINI SULL'ALTRA RIVA
Anche sul Piave per le due armate del generale serbo-croato, la VI° dell'Arciduca Giuseppe schierata da Segusino fino alle Grave di Papadopoli, e la V° di Wendel von Wurm, da lì fino a Cortellazzo, le cose non erano andate come si sperava all'inizio, anche se sulle prime l'impressione era stata di un'avanzata assolutamente travolgente.
Nonostante il Piave fosse in piena, al momento dell'assalto le truppe dell'Armata dell'Isonzo, avvalendosi di 60 ponti costruiti nel frattempo, oltre che di 200 pontoni e oltre 1.300 barche, erano riusciti infatti far passare sulla riva destra addirittura circa 100.000 uomini!


Un ponte di barche austro-ungarico pronto per l'uso



Prima dell'attacco Boroevic aveva diffuso tra le truppe questo proclama:


ORDINE SUPREMO-15 giugno 1918

Soldati!
Il nostro Imperatore e Re attacca oggi dall'Adriatico alle Alpi svizzere con tutte le sue forze il nemico, che per il suo tradimento prolunga la guerra.

Davanti a voi stanno le posizioni nemiche: è là che vi attendono la gloria, l'onore, buoni viveri, abbondante bottino di guerra e soprattutto la pace finale.
F.to Feldmaresciallo Boroevic

Come negli altri settori, l'attacco era partito anche qui alle 03,00 di notte del 15 giugno, con un fitto e potente bombardamento di artiglieria secondo lo schema prestabilito: fino alle 04,10 fuoco a sorpresa sulle batterie nemiche con granate caricate a gas, poi dalle 04,10 alle 05,25 fuoco di distruzione sulle prime linee con granate normali e shrapnel, a seguire fino alle 05,55 gas sui concentramenti nemici individuati, poi dalle 05,55 fino alle 06,35 gas sulle zone d'attacco e infine dalle 06,35 fino alle 06,55 bombardamento d'artiglieria sulle fanterie italiane.

Obice Skoda da 420 mm
Contro il settore del Montello presidiato dall'VIII° armata di Pennella la prima granata era stata scagliata da un enorme obice Skoda da 420 mm del 4° reggimento di artiglieria da fortezza Feldmarshall Graf Josef von Colloredo Mels appositamente inviato da Umago d'Istria fino a Gorgo al Monticano, un paesino a circa 25 chilometri di distanza sulla riva sinistra del Piave, poco a est di Oderzo.

IL II° C.A. INCHIODATO A TERRA DALLE ARTIGLIERIE ITALIANE
Nonostante l'ottimismo generale  che permeava di sé l'inizio dell'attacco, subito grande sconcerto e preoccupazione aveva creato il pressoché contemporaneo fuoco di contropreparazione delle artiglierie italiane del XXVII° C.A. del Tenente Generale Antonino Di Giorgiouno dei pochi a credere alla soffiata passata dal capitano Marchetti sull'orario d'inizio dell'attacco nemico.
Non per niente il valoroso generale siciliano era uno dei migliori comandanti italiani, quello che col suo piccolissimo C.A. speciale messo su in qualche modo aveva contribuito poco più di sei mesi prima a rallentare in maniera decisiva sulla linea del Tagliamento l'avanzata dello straripante  nemico, salvando tutto ciò che si poteva della II° armata di Luigi Capello uscita a pezzi dal disastro di Caporetto.

Così, mentre proprio a Oderzo Boroevic in persona assisteva col binocolo dal campanile della chiesa all'azione delle sue divisioni, nel settore a sinistra del versante ovest del Montello presidiato dalla 66° divisione del Maggiore Generale Carmelo Squillace non era accaduto proprio nulla, visto che sin dall'inizio erano state solo le contrapposte artiglierie a darsi battaglia: il debole II° C.A. di R. Krauss, costituito da una sola divisione, l'8° K.u.K. appiedata di cavalleria ucraina di Stanislau (Iwano-Frankisw'k) del Maggior Generale Rudolf Edler (Nobile) von Dokonal, non aveva infatti avuto alcuna possibilità di muoversi, inchiodato com'era sulla sua riva dall'azione interdittiva dei pezzi italiani!




L'ATTACCO AL MONTELLO PARTE BENE, MA SI FERMA LÌ
Contro il Montello, invece, le cose erano andate ben diversamente: disturbate poco o nulla dall'artiglieria, le tre divisioni del XXIV° C.A. di Ludwig Goiginger provenienti da Pieve di Soligo e Falzè di Piave, la 17° K.u.K. ungherese-romena di Nagy-Varad (Oradea) del Maggior Generale Vinzenz Stroher, la 31° K.u.K. ungherese di Budapest del parigrado Joseph Lieb e la 13° Landwehr Schutzen  austriaca del Tenente Generale Ernst Kindl, un totale di circa 40.000 uomini, erano riuscite invece tutte a passare in poche ore dall'altra parte nel settore presidiato dalla 58° divisione del Maggior Generale Roberto Brussi (VIII° C.A. del Maggior Generale Asclepia Gandolfo), approfittando anche di una fortunata coincidenza, cioè l'avvicendamento in corso proprio in quel momento  nei sottosettori di Nervesa e Fontane tra il 164° Lucca della 58° e il 216° Tevere della 48° del Tenente Generale Giovanni Cattaneo.
Come abbiamo visto in precedenza, infatti, nonostante Badoglio in persona avesse avvisato Giuseppe Pennella, comandante dell'VIII° armata del Montello, dell'imminente inizio dell'offensiva nemica, data e ora comprese, il secondo, molto semplicemente, NON CI AVEVA CREDUTO, lasciando così immutato il programma di quella turnazione, prevista da tempo!



Anche per questo motivo la sorpresa per gli italiani era stata totale, così in capo a non più di due ore, quasi senza opposizione, la 17° di Stroher aveva occupato in rapida successione gran parte della destra del Montello, a partire proprio da Nervesa, Santi Angeli e Sovilla e poi successivamente Santa Croce e Bavarìa, sulla direttrice per Arcade, giungendo fino alle porte di Giavera, dopo aver quasi spazzato via la Lucca e annientato il 216° Tevere con la cattura del suo valoroso comandante, il tenente colonnello Teodoro Alessi, decorato con la Croce di Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia.


Fanti in prima linea nel bosco sopra Bavarìa
L'avanzata nemica aveva messo in grave crisi anche la brigata sorella della Lucca, la Piacenza, costretta sulla difensiva dalla 31° e dalla 13° Schutzen tra Villa Berti e Fornace, ma clamorosamente il 215° Tevere aveva retto all'altezza di Casa Facchini, Casa Serena e Dolina Astico, poco più a ovest di Nervesa, insieme col 45° Reggio della 51° divisione del Maggior Generale Emanuele Pugliese, che in ossequio ai piani difensivi apprestati per tempo alle 17,30 circa si era acquartierato tra Casa Gheller e Casa Serena per tamponare la falla.

Ancor più clamorosamente i pochi superstiti della Lucca, lungi dallo sbandarsi, avevano opposto una fortissima resistenza tra la strada n. 7 del Montello e la Parrocchia di Giavera, dov'erano riusciti in qualche modo a fermare l'ondata nemica, anche grazie al tiro preciso e letale delle artiglierie, comprese quelle di alcune batterie francesi dislocate nel settore di Arcade.
Tutte queste forze insieme avrebbero retto per molte ore, non si sa come, fino all'arrivo dei rinforzi tratti dal XXX° C.A. di Umberto Montanari.


Nicolò Giacchi
(Novara, 6/2/1877- Roma, 7/11/1948)
Questi, nell'impossibilità di inviare in soccorso nell'immediato unità di fanteria "tradizionali", aveva ordinato al Conte Nicolò Giacchi, già plurimedagliato comandante col grado di tenente colonnello del 2° Granatieri ed in quel momento, da poco promosso colonnello, alla testa delle fiamme verdi dell'VIII° armata, di mettere insieme un gruppo tattico di formazione con tutte le truppe mobili disponibili, cosa che lui aveva fatto chiamando al suo comando il XXVII° reparto d'assalto, il 2° bersaglieri, la 5° squadriglia autoblindomitragliatrici e sette squadroni di cavalleria.
P
roprio uno di questi, il 2° squadrone del 9° Lancieri di Firenze, sarebbe riuscito a ristrappare al nemico l'intero centro abitato di Giavera!

La lotta si sarebbe concentrata a quel punto soprattutto nel settore di Villa Berti, dove si erano andati a posizionare il 111° Piacenza del colonnello Vincenzo Ruocco e alla sua sinistra il 270° L'Aquila del tenente colonnello Pilade Pucci della 48° divisione.
Antonio Bigliardi
Sin dalla sera del 15 giugno un primo, forte attacco alle truppe asserragliate nella villa sarebbe stato respinto dalla compagnia arditi del 111° al comando del tenente Antonio Bigliardi, poi col sopraggiungere in linea del I°/111° ne venne respinto un altro alle 05,00 di mattina del giorno 16, una domenica piovigginosa, diretto sulla Casa Rossa, presso Santi Angeli (dove il nemico era in superiorità numerica di 6 contro 1!).
Il nemico, pur ostacolato dalla piena del fiume che impediva il regolare afflusso delle riserve e lo sgombero verso le retrovie di feriti e prigionieri, dimostrava una ferrea volontà combattiva, attestata dal fatto che anche l'indomani, non appena completato il trasbordo sulla riva destra del fiume del resto di tutte e tre le divisioni attaccanti, avrebbe effettuato altri due assalti preceduti da bombardamenti delle artiglierie nemiche, pur rimasti senza esito.

Nel frattempo però Diaz, che per qualche ora era stato sostituito da Badoglio a causa di una leggera indisposizione, aveva pensato alla contromossa.
Sin dalle 01,35 di notte del 16 giugno, preoccupatissimo per il possibile sfondamento nemico nel delicato tratto di congiunzione tra il XXVII° C.A. di Antonino Di Giorgio e l'VIII° C.A. di Asclepia Gandolfo, il Generalissimo aveva così telefonato a Giuseppe Pennella per preavvisargli di aver inviato nel suo settore l'intera 13° divisione del Maggior Generale Luigi Baronis (brigate Palermo, 67° e 68° reggimento, e Barletta, 137° e 138°), appartenente al XXVI° C.A. di Emanuele Filiberto: ben 500 autocarri alle 05,00 di mattina sarebbero partiti verso il suo settore in vista di un immediato contrattacco, che doveva essere condotto da tutta la divisione e non a spizzichi e bocconi insieme con la 50° divisione del Maggior Generale Giulio Fabbrini anch'essa del XXX° C.A., che alle dipendenze ora del XXVII° doveva attaccare da sud a nord lungo le strade nn. 4 e 9 appoggiata anche da quattro batterie di artiglieria da montagna con pezzi da 65 mm, con la 51° in posizione di copertura sulle sue posizioni.
Pennella un'ora dopo aveva già disposto che la 13° si dispiegasse nei presso di Volpago alle dipendenze dell'VIII° C.A., e previsto l'attacco dei due corpi d'armata tra le 10,00 e le 11,00 di quella mattina.

L'intenso traffico e la confusione regnanti sulle strade da e per il Montello aveva creato però seri rallentamenti alle grosse colonne di Baronis, che per percorrere quei 20 chilometri circa di distanza avevano impiegato in media cinque ore o più, così il forte ritardo accumulato aveva fatto sì che Pennella chiedesse il rinvio della prevista azione alle 14,00, nonostante Baronis in persona gli dicesse come fosse impossibile per i suoi uomini attaccare prima delle 17,00, visto che le truppe, ancora a digiuno, dovevano mangiare e riposarsi un poco, tanto più che non avevano alcuna conoscenza della zona, per la quale gli ufficiali non disponevano di mappe topografiche, e dovevano ancora essere stabiliti i collegamenti col XXVII° C.A.
Solo Gandolfo era riuscito a ottenere un ulteriore breve rinvio alle 15,30, dopo che l'impaziente Pennella, che non faceva che mandare fonogrammi su fonogrammi per spingere all'attacco, ne aveva mandato alle 13,00 uno ultimativo che si chiudeva così:

"(...) Il termine fissato per l'inizio dell'azione deve intendersi quello delle 14, non un minuto di più; considererò reo di disobbedienza in faccia al nemico chiunque trasgredisse a quest'ordine."


Alle 15,30 le due brigate erano così entrate in azione, precedute all'avanguardia dagli arditi del XXVI° reparto d'assalto, ma l'inaspettata, fortissima opposizione della 31° divisione nemica di Lieb aveva fortemente rallentato la loro avanzata, con enorme stupore degli Alti Comandi, tanto che alle 18,30 i generali interessati avevano dovuto sorbirsi un "cicchetto" dal Comando Supremo, che si aspettava di arrivare al Piave entro la sera.

Le cose però non andavano bene anche  sul fronte del XXVII° C.A., dove la colonna di sinistra  della 50° divisione, costituita dalla brigata Udine (95° e 96°) insieme col 45° Reggio della 51°, avanzava troppo lentamente a causa del terreno fangoso sulle carrarecce nn. 7, 8, 9 e 10: addirittura, il 96° fanteria si spostava troppo a destra nell'intento di prendere contatto con la brigata sorella Aosta, perdendo però quello col Comando brigata che sarebbe stato ripristinato solo a sera, così il 95° mentre arrancava lungo la strada n. 8 sulla cresta del monte era costretto a sostenere da solo un improvviso nuovo violentissimo attacco della 13° Schutzen di Ernst Kindl, che dopo due ore e mezza di lotta costringeva al ripiegamento addirittura fino alla linea di corpo d'armata sia il 95° che il 45°, battuto a Martinbianco con la perdita anche di due pezzi di una batteria da montagna.


Eligio Porcu
(Quartu Sant'Elena, CA, 19/12/1894-
Santi Angeli, TV, 16/6/1918)
In tal modo il nemico era giunto persino ad occupare Quota 127 e Casa Serena, dove si era impadronito addirittura di una batteria intera.
Proprio in questi drammatici momenti, il capitano Eligio Porcu, comandante della 9° compagnia del 45° Reggio, ferito ad una gamba ed accerchiato insieme coi suoi uomini e due plotoni di arditi a Santi Angeli, all'altezza della strada n. 8 del Montello, aveva preferito spararsi un colpo alla tempia gridando "Viva l'Italia!" piuttosto che cadere prigioniero degli Imperiali: 

"Prigioniero mai, mai! Mi saprete morto, mi piangerete eroe forse, ma a nessun costo vile!"
(https://it.wikipedia.org/wiki/Eligio_Porcu)

Alla sua memoria sarebbe stata conferita la medaglia d'oro al Valor militare, che si sarebbe aggiunta a quella d'argento ottenuta in vita per il suo comportamento sul Valderoa durante la Prima battaglia del Piave, il 17 dicembre 1917.
Le sue spoglie mortali, sepolte sommariamente in un primo momento ai margini della strada n. 8, sarebbero state solennemente traslate nel cimitero di Quartu Sant'Elena (CA) sei anni dopo nel corso di una sentitissima cerimonia alla presenza delle più alte autorità civili e militari della Sardegna.
La sua città natale gli ha anche dedicato una via.

Malgrado la perdita di Casa Serena e Santi Angeli, il soccorso del sopravvenuto 96° consentiva finalmente di fermare l'avanzata nemica, al prezzo però di forti perdite per entrambi i reggimenti sotto attacco (il solo II°/95° quella di 8 ufficiali e 330 uomini), ma nel frattempo sulla destra anche la brigata Aosta, che per aspettare inutilmente il 96° aveva attaccato in ritardo di un'ora disponendosi su tre colonne, si era trovata a far fronte da sola a tre reggimenti nemici senza nemmeno l'appoggio dell'artiglieria e aveva perso 700 uomini prima di arretrare alle 18,30 sulle posizioni di partenza per il cedimento della colonna di sinistra, nonostante quella di destra fosse a un certo punto penetrata ben dentro le linee nemiche, a Collesel della Madonna.

Alle 20,00, delineandosi in tutta la sua evidenza una clamorosa falla tra la ritardataria 13° divisione e la 50° sotto attacco, a sua volta frazionata in più parti, Pennella era stato costretto a distaccare in fretta e furia dalla 47° divisione del parigrado Nicola Gualtieri il 73° Lombardia perché andasse a tappare quel buco, mentre Di Giorgio, timoroso di un possibile sfondamento nemico della linea di corpo d'armata a Casa Carpanedo, ordinava alla 51° divisione di ripiegare su posizioni più difendibili.
Così, dopo che per brevissimo tempo la 31° Honved era riuscita addirittura a strappare agli italiani anche Collesel Val dell'Acqua e San Martino, subito riprese però dalla Udine, alle 22,30 l'intera controffensiva iniziata la mattina con così tante speranze finiva in un nulla di fatto, anche se all'alba del 17 la 13° divisione di Baronis, che aveva subito la perdita di 650 uomini compresi gli arditi, al termine del suo ripiegamento riusciva a ripristinare una linea difensiva continua tra lo sbocco a sud della strada n. 10 del Montello sino alla ferrovia, che all'altezza dello snodo di Sant'Andrea piegava verso Villa Berti sul Piave.
Dal canto suo, la 51° alle 03,15 di notte del 17 presidiava saldamente la linea Rivasecca-Crocetta-Filanda Mercato-Linea di mezzacosta fino a Collesel Val dell'Acqua- Strada n. 12- Casa De Longhi-Martino- Molino Sarzetto, e da qui si collegava alla 47° divisione di Gualtieri.
Alla fine, nonostante il fallimento della nostra controffensiva, la situazione in quel momento non era così diversa da quella del 15 sera, salvo il consolidamento da parte del nemico delle sue posizioni su Nervesa sul versante di nord-est del Montello e la presa di Casa Serena su quello di nord-ovest.
Su quel fallimento parole molto dure avrebbe avuto contro la condotta delle operazioni di Pennella la Relazione Ufficiale italiana.
Essa, premettendo che pur essendoci per le forze in campo tutte le possibilità di un successo, avrebbe aggiunto che

"malgrado il rilievo del Comando Supremo ed il suo invito ad eseguire l'attacco con forze adeguate e non a spizzico, mancò la contemporaneità degli sforzi ed anche il collegamento tattico di essi perché mancò quella unitarietà di direzione che il carattere di controffensiva avrebbe richiesto, né è da ritenere che scarsa influenza avessero le continue, minacciose pressioni ad accelerare i tempi, che indussero a intraprendere attacchi affrettati senza adeguata preparazione, senza i necessari orientamenti e senza accordi preventivi".





FALLISCE L'ATTACCO DEL XVI° C.A. NEMICO SUL MEDIO PIAVE
Sul Medio Piave, nel frattempo, nel settore difeso dall'XI° C.A. del Tenente Generale Giuseppe Paolini le due divisioni del XVI° C.A. del Generale di Fanteria ceco Rudolf Kralicek, la 58° K.u.K. slovena di Gorizia (Gorz) di Erwin Zeidler, che doveva dirigersi su Pero, e di rincalzo la 33° K.u.K. ungherese di Komorn (Komàron) del Tenente Generale Arthur Iwanski Edler von Iwanina, che doveva attaccare Breda di Piave, erano riuscite invece a costituire solo una precaria testa di ponte sulle Grave di Papadopoli.


Erwin Zeidler Freiherr von Gorz
(Vienna, 8/2/1865-
Villach, 3/1/1945)
La 58° di Zeidler, che aveva la responsabilità di condurre la prima ondata, aveva per di più subito in pieno la reazione italiana, pagando un prezzo altissimo (ben 2.000 perdite, 1.200 quelle del solo 106° reggimento), sicuramente troppo alto rispetto al risultato ottenuto, a maggior ragione mettendolo a confronto con quello che si voleva ottenere, cioè la presa del campo trincerato di Treviso, obiettivo finale delle due divisioni, alle quali si doveva aggiungerne una terza, la 29° K.u.K. ceca di Theresienstadt (Terezìn) del Tenente Generale Karl Steiger rimasta in seconda linea: un risultato che gli Imperiali si proponevano di raggiungere addirittura in solo 24 ore, subito dopo aver preso gli obiettivi intermedi, seguendo un precisissimo cronoprogramma già stabilito al secondo spaccato.

La prodigiosa reazione dei quattro reggimenti 255° e 256° Veneto e 267° e 268° Caserta della 31° divisione del Maggior Generale Ciro de Angelis aveva impedito il presuntuoso piano nemico: dopo aver infatti già subito parecchie perdite durante l'attraversamento del fiume a causa delle nostre artiglierie, capaci di colpire tutti i ponti, le passerelle ed anche i barconi, le truppe di Zeidler, avanzate con sulla destra il 106° preceduto dalle truppe d'assalto (il XXXIII° battaglione Sturm e mezzo VII°)  diretto sui Ponti della Priula, al centro la 116° brigata (col LVIII° Sturm e mezzo VII°) sulla linea Maserada-I Ronchi e a sinistra il III°/103° come colonna fiancheggiante, erano state infatti falcidiate anche dalle mitragliatrici delle due brigate rimaste pressoché integre sotto i colpi troppo corti delle artiglierie nemiche, che andavano a colpire solo le prime linee italiane, lestamente abbandonate in precedenza.

Schierate tra Salettuol e Sant'Andrea di Barbarana, la Veneto a sinistra e la Caserta a destra, quasi addossata quest'ultima al settore di competenza del XXVIII° C.A. del Tenente Generale Giovanni Croce, avevano poi costretto a ributtarsi dall'altra parte le poche truppe attaccanti sbarcate: solo le avanguardie del LVIII° Sturm, del 2° e 11° Jaeger e del 1° reggimento al centro e parte del 106° a destra erano riuscite  a sopravvivere a quel carnaio, ma verso mezzogiorno le prime erano state costrette a riguadagnare a nuoto la testa di ponte delle Grave di Papadopoli, e la stessa cosa aveva fatto nel pomeriggio inoltrato anche il 106°, una volta fallito il tentativo di appoggiarlo con un'altra brigata, la 115°, a causa del fuoco sempre più preciso ed efficace della nostra artiglieria.
La Relazione ufficiale austriaca avrebbe ammesso senza infingimenti che:

"(...) Nonostante il valore e l'abnegazione delle truppe, il tentativo compiuto dal XVI° C.A. era completamente fallito".


Truppe austriache attraversano il Piave il 15 giugno 1918


Il IV° C.A. ARRIVA FACILMENTE A FAGARÈ 

Un apparente successo era invece arriso più a est alle due divisioni ungheresi del IV° C.A. del Colonnello Generale Principe (Furst) Alois von Schonburg-Hartenstein, la 64° K.u. Honved del Tenente Generale Rudolf Seide e la 70° K.u. Honved anch'essa del Maggior Generale Bela Berzeviczy von Berzevicze und Kakas-Lomnitz, che una volta attraversato il Piave erano riuscite ad arrivare facilmente fino alla seconda linea difensiva italiana tra Maserada, il campo trincerato di Ronchi e Fagarè, incistendosi nel punto di sutura tra i settori difesi dall'XI° (VIII° armata) e dal XXVIII° C.A. (III° armata) che andava da Sant'Andrea di Barbarana a Croce di Musile, sulla Piave Nuova.


La famosissima scritta sulla facciata di una casupola a Fagarè della Battaglia
Era stata in realtà una precisa scelta degli italiani, che sin dall'inizio del bombardamento avevano volutamente abbandonato le trincee sul margine per andare invece ad occupare quelle più in profondità: in tal modo i colpi delle artiglierie nemiche diretti su quegli obiettivi avevano fatto pochissimi danni alle nostre difese così come a maggior ragione il gas, peraltro andato disperso in breve tempo dal vento.
Il dispositivo messo a punto dai difensori era così scattato implacabilmente anche stavolta, ed in tal modo non solo era stata bloccata sul nascere l'azione decisiva verso Castelfranco Veneto e Treviso da compiersi lungo il corso della strada romana Callalta, oggi parte della regionale S.R. 53 Postumia, che anticamente metteva in comunicazione Opitergium (Oderzo) a Tarvisium (Treviso), alla quale dovevano partecipare la 33° divisione di Iwanski, la 46° K.K. Landwehr Schutzen del Maggior Generale Gustav Fischer Edler von Poturzyn e la 55° K.u.K. del Tenente Generale Aurel Le Beau pronte in retrovia, ma contemporaneamente si era impedito anche il ricongiungimento tra lo stesso IV° C.A. di von Schonburg ed il VII° del Generale di Fanteria Georg Schariczer von Reny.
Nonostante l'ala destra della 31° divisione, costituita dalla brigata Caserta, lasciasse alla 64° Honved la posizione di Casa Folina, e più a sinistra la brigata Cosenza della 45° del Maggior Generale Giovanni Breganze  (XXVIII° C.A.) fosse costretta a mezzanotte ad abbandonare Candelù ed a ripiegare sui capisaldi di Case Armellini e Piavesella, il IV° C.A. nemico era stato fermato poco oltre la seconda linea tra Candelù e San Bartolomeo, mentre più a sud-est era stata l'ala sinistra della brigata Sesia sempre della 45° a fermare l'avanzata del VII° C.A., anche se per le vie interne era subito stata inviata in soccorso alle unità sotto attacco la VI° brigata della 23° divisione bersaglieri del Tenente Generale Gustavo Fara dell'XI° C.A. di Paolini.

Il VII° C.A. di Schariczer aveva passato il Piave all'altezza di Salgareda e Romanziol con due divisioni di fanteria, la 14° K.u.K. slovacca di Pressburg (Bratislava) del Maggior Generale Franz Szende von Fulekkelecseny e la 24° K.u.K. polacca di Przemysl del parigrado Adolf Urbarz, protette sul fianco sinistro dalla 9° K.u.K. di cavalleria appiedata  del Maggior Generale Albert Ritter (Cavaliere) von Le Gay von Lierfels, ed era giunto facilmente senza praticamente opposizione sino alla seconda linea difensiva italiana tra Fagarè, Sant'Andrea di Barbarana, La Fossa e l'Ansa di Zenson, dove però, stavolta sì, le due divisioni nemiche avevano trovato ad aspettarle tre reggimenti della 25° divisione del Tenente Generale  Giulio Latini, sulla sinistra i due 48° e 47° della brigata Ferrara e sulla destra il 232° Avellino.
Proprio sull'ala sinistra della 25° la pressione offensiva nemica si faceva ben presto insostenibile, così nonostante una serie di contrattacchi del 48° e soprattutto del 47° reggimento della Ferrara, poco assistiti però dalle nostre artiglierie, piuttosto imprecise e poco coordinate tra di loro e con l'azione dell'intero dispositivo difensivo, tanto da provocare anche la perdita di parecchi nostri uomini a causa del cosiddetto "fuoco amico", circa 20.000 uomini riuscivano ad ampliare e consolidare la testa di ponte di Zenson ed a far retrocedere i tre reggimenti, già gravati da molte perdite, sulla linea Canale di Zenson-Villa Premuda-Campolongo.
Solo l'intervento dalle riserve di corpo d'armata, i due reggimenti 221° e 222° della brigata Jonio della 53° divisione del Maggior Generale Emanuele Dal Prà affluita dal Meolo, dov'era stata a sua volta sostituita dalla Bisagno della 33° (209° e 210°) e dal 31° reggimento cecoslovacco inquadrato per l'occasione nell'appena nata divisione d'assalto di Ottavio Zoppi, consentiva di ridar fiato ai difensori: così verso le 17,15 del pomeriggio gli italiani riprendevano Molino della Sega, il caposaldo di Casa Pasqualini in località San Francesco a Rovarè, una frazione di San Biagio di Callalta, ed il Cimitero di Fagarè, e con il 48° Ferrara anche la Fossa, mentre il 232° Avellino riusciva a contenere con disinvoltura i numerosi assalti del nemico verso Campolongo.

Ma il nemico era ancora deciso a dare battaglia e alle 09,00 del 16 giugno lanciava una nuova feroce offensiva su Fagarè: la 45° divisione, ormai in combattimento da 33 ore, era costretta a retrocedere sino al caposaldo di Casa Verduri, dietro il Canale Zero, ormai sull'orlo della disfatta.
Obiettivo degli austro-ungarici era chiaramente San Biagio di Callalta: superato questo obiettivo, la via per Treviso era spianata.
Il disperato Giovanni Breganze si vedeva costretto ad inviare al Comando d'Armata alle 12,40 un fonogramma con la richiesta di inviare urgentemente in soccorso la vicina 11° divisione: la risposta di Emanuele Filiberto giungeva alle 13,55, con l'ordine di ripiegamento per le due brigate sotto attacco, ma solo per l'indomani, quando era appunto previsto l'arrivo in linea dell'11° divisione.
La Sesia e la Cosenza, orbata quest'ultima dalla perdita di 20 ufficiali e ben 1.200 gregari in solo un giorno e mezzo di combattimenti, avrebbero dovuto reggere ancora da sole per una ventina di ore!

Il Generale Croce ribadiva con un fonogramma:

"Unica direttiva della lotta in corso deve essere la difesa ad oltranza delle posizioni".


Gli austro-tedeschi alle Grave di Papadopoli


IL XXIII° C.A. SFONDA PER 6 CHILOMETRI SUL BASSO PIAVE (PIAVE VECCHIA)
L'aver contenuto per il momento l'offensiva sul Medio Piave, quella che con quella sul Montello doveva essere la chiave decisiva della contesa, aveva permesso agli italiani di limitare il grosso danno subito invece nel Basso Piave, dove in verità la V° armata di von Wurm aveva già in partenza una superiorità schiacciante sulla III° del Duca di Savoia-Aosta, di uomini (120.000 contro 70.000), di pezzi d'artiglieria (1.770 contro 1.274) e soprattutto in mitragliatrici, sia pesanti che leggere.
Qui il XXIII° C.A. del Generale di Fanteria Maximilian Czicserics von Bacsàny, composto da tre divisioni, due di fanteria, la 10° K.u.K. ceca di Josephstadt del Maggior Generale Emil Ritter von Gologorski e la 12° K.u.K. polacca di Kracau (Cracovia) del parigrado Stanislaus  von Puchalski, e la 1° K.u.K. romena di cavalleria appiedata di Temesvar (Timisoara) di Ferdinand von Habermann (in pratica però coincidente col solo 5° reggimento Ussari), era stato capace addirittura di sfondare il fronte tenuto da sinistra a destra dal 231° Avellino della 25° e dalle due divisioni del XXIII° C.A. del Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto,  la 61° del Tenente Generale Adolfo Marchetti (Catania e Arezzo), schierata da Croce a Capo Sile, e la 4° del parigrado Giuseppe Viora (Torino, III° bersaglieri, Reggimento Marina), da lì sino al mare.

Caduti nella Battaglia del Solstizio


I nostri, diversamente che negli altri settori, qui erano stati completamente sorpresi dai gas e dai lacrimogeni sparati dall'artiglieria nemica, il cui effetto era forse anche stato aggravato dalla nebbia e dal clima particolarmente malsano di quelle zone paludose e malariche, e non erano nemmeno stati granché assistiti dall'artiglieria, che sparò tardi e male, così mentre in silenzio si preparavano i ponti di barche nel frattempo le prime avanguardie d'assalto avevano passato la Piave Vecchia utilizzando barche piccole e resistenti costruite appositamente allo scopo, con non più di 5 o 6 uomini alla volta, su cui i soldati si erano allenati per giorni sulla Livenza.

Si era tramutato in un assalto tipo Caporetto, con le squadre delle SturmTruppen armate di mitragliatrici pesanti e leggere, bombe a mano e lanciafiamme che si presentavano davanti alle nostre linee sconvolte dalle esplosioni d'artiglieria e dai gas e rese cieche dalla nebbia, senza nessun preavviso, le conquistavano e tiravano avanti dritto per dritto, infiltrandosi per tutti i sotto-settori difensivi, obiettivo dopo obiettivo, mentre il resto delle due divisioni trasbordava senza problemi il Piave sui ponti di barche, la 23° e 24° brigata della 12° davanti a Fossalta, la 19° e 20° della 10° davanti a Intestadura, poco a sud delle Porte del Taglio, cioè all'inizio della Piave Vecchia.
Il 231° Avellino davanti a Fossalta si scontrava duramente col 3° reggimento della 24° brigata, ma già alle 08,00 era costretto a ritirarsi lasciando in mano al nemico la vicinissima Croce, mentre subito dopo era il 20° reggimento ad irrompere poco più a sud nel settore tenuto dal 146° Catania, tra Musile e San Donà di Piave, seguendo una direttrice verso sud-ovest più o meno parallela al Canale Fossetta.
Qui la 24° brigata si ricongiungeva con la 20° appena reduce dall'aver travolto il II°/ 146, il che costringeva tutta la brigata Catania a ripiegare, il 146° verso Capo d'Argine e il 145° in direzione del piccolo ponte di Casa Malipiero, sul Canale Fossetta: a questo punto era l'intera 61° divisione a dover ripiegare frettolosamente, sotto la pressione sempre più forte del nemico, e a doversi trincerare proprio lungo la linea già apprestata parallela al suo corso, lasciando però in mano alle due divisioni nemiche il Canale Mille Pertiche.

La preoccupazione di Petitti di Roreto era ormai altissima, tanto che alle 10,45 giungeva l'ordine di minare tutti i ponti fino al fiume Sile, col Sile escluso tranne che per i ponti di San Michele e Portegrandi: per le armi italiane era forse il momento più grave in assoluto di tutta la guerra, perché perdere il 15 giugno 1918 significava veramente perdere la guerra...


Truppe italiane allo sbarramento della strada di Fossalta




Anche stavolta, però, improvvisamente le cose cominciarono a cambiare, quando sin dalle 04,30 del mattino le truppe appena arrivate della 33° divisione del Tenente Generale Carlo Sanna appoggiate dal XXIII° reparto d'assalto fiamme cremisi del maggiore Lorenzo Allegretti basato a Fossalta (i cui componenti per distinguersi nel buio avevano messo una fascia bianca al braccio) scatenarono la controffensiva.

I primi segnali di una svolta furono una serie di incursioni degli arditi, quelli del XXIII° ma anche del XXVIII° reparto d'assalto fiamme nere, nonché dei tre battaglioni ciclisti del 4° gruppo aggregato alla 33°: non sempre furono vincenti, spesso fecero solo una grande confusione e basta al prezzo anche di tantissime perdite, ma le loro fulminee e letali azioni finirono col porre un primo argine a quell'avanzata apparentemente inarrestabile, a Case Sperandio, a Croce, a Casa Gradenigo, sulla Fossetta, ed a rallentare per un po' le forze attaccanti, leste però nel pomeriggio a ritornare all'offensiva ed a avanzare sino alla linea Fossalta-Capo d'Argine-Casa Rigati, tanto da costringere i coraggiosissimi battaglioni ciclisti a retrocedere sulla linea Losson-Meolo.


Sulla foto è scritto: Prigionieri a Nervesa


Un primo tentativo di von Cziserics di far sbarcare sulla riva destra del Piave un'ulteriore brigata, la 23° della 12° divisione, falliva per il fuoco d'interdizione finalmente efficace della nostra artiglieria, che mandava a gambe all'aria tutti i ponti e le passerelle predisposte per il passaggio, e nel frattempo la nostra aviazione e quella inglese picchiavano come non mai: quando alle 10,00 del 17 giugno una bomba d'aereo prendeva in pieno e faceva saltare il ponte di Villa Jacur, il più importante di tutti, non c'erano addirittura più collegamenti diretti tra le due rive, tanto da impedire ancora il passaggio del fiume nel settore del Montello anche ad altri tre battaglioni della 17° divisione di Storer e a due reggimenti di Ussari (10° e 11°) posti al comando del Maggior Generale Franz Ritter Hussarek von Heinlein dell'11° divisione di cavalleria di von Hegedus: solo dopo qualche ora, protetti da 16 batterie del XVI° C.A. di  Kralicek, i tre battaglioni di fanteria insieme con alcune batterie riuscivano a passare sulla riva destra dopo aver riattato in qualche modo qualche ponte, seguiti dopo poco dal Gruppo Heinlein, schieratosi subito alla destra della 31° di Lieb, ma restavano ancora sulla sponda sinistra la 41° K.u. Honved di Budapest del Maggior Generale Rudolf Schamschula e il resto dell'11° di cavalleria.


Ernesto La Polla
Mancavano drammaticamente però alle truppe attaccanti viveri e munizioni, non certo compensati da quelli catturati al nemico, tanto più che, nonostante si cercasse di rafforzare anche le difese antiaeree, sotto il tiro dell'aviazione italiana erano finite anche le retrovie avversarie, bersagliate dai grossi Caproni della "Massa da bombardamento" al comando del maggiore Ernesto La Polla, e le stesse trincee delle fanterie nemiche, con i velivoli della "Massa da caccia", capitanati dal colonnello Pier Luigi Piccio, asso con 24 abbattimenti riconosciuti, comandante diretto della famosissima 91° squadriglia del X° gruppo caccia, soprannominata "degli assi" (vi volavano tra gli altri, oltre a lui, anche Fulco Ruffo di Calabria, 20 abbattimenti confermati, Ferruccio Ranza, 17, Luigi Olivari, 12, Gastone Novelli, 8, Bartolomeo Costantini, 6, Cesare Magistrini, 6, Mario De Bernardi, 5), il cui leader riconosciuto era però il nostro asso più grande, il pluridecorato maggiore Francesco Baracca.  


Un dipinto raffigurante un duello tra Baracca ed un caccia austriaco (sembra un Phoenix)
Non è un caso che col suo fidato SPAD  S. XIII proprio Baracca, proprio in quel giorno, il 15 giugno, e proprio in quei cieli, sopra San Biagio di Callalta, mentre era impegnato in un'ennesima azione di mitragliamento sulle trincee nemiche, cogliesse le sue vittorie n. 33 e 34, l'ultima contro un caccia Albatros D. III, lo stesso tipo di caccia guidato da un altro pilota che anche il capitano Fulco Ruffo di Calabria abbatteva sempre quel giorno sulle Grave di Papadopoli...


I piloti della 91° squadriglia degli assi (squadriglia Baracca): da sinistra sergente Mario D'Urso, sergente Gaetano Aliperta, tenente Gastone Novelli, tenente Cesare Magistrini, capitano Bartolomeo Costantini, capitano Fulco Ruffo di Calabria, colonnello Pier Ruggero Piccio, tenente Guido Keller, maggiore Francesco Baracca, tenente Ferruccio Ranza, tenente Mario de Bernardi, tenente Adriano Bacula, sergente Guido Nardini, sottotenente Eduardo Olivero
Pier Ruggero Piccio
Ma era ancora sulla terra che si decidevano le cose: le divisioni di Boroevic avevano ora sulla riva destra del Piave un totale di 100.000 uomini, tra il Montello, le Grave di Papadopoli, la zona tra Capo Sile e Cortellazzo, nella Piave Vecchia erano avanzate di 6 chilometri in meno di cinque ore, con la presa di Fagarè avevano ottenuto il punto più avanzato della loro conquista in Italia...
...Ma come vedremo non sarebbero più andate oltre.


Francesco Baracca accanto all'ultimo aereo da lui abbattuto, il 34°

Per i duri combattimenti di questi giorni avrebbero ottenuto riconoscimenti soprattutto la brigata Ferrara della 25° divisione (47° e 48° reggimento entrambi decorati con la medaglia d'oro al valore), la Sesia della 45° (201° e 202° decorati con la medaglia di bronzo), la Veneto della 31° divisione (255° e 256°, decorati con la medaglia d'argento) e la Potenza della 53° (271° e 272°, medaglie d'argento).






L'AMARO BILANCIO DELL'ARCIDUCA GIUSEPPE 
Boroevic alle 10,30 del 16 giugno, prima di trasferirsi da Oderzo a Udine, aveva ordinato ai suoi comandanti di difendere a tutti i costi le posizioni raggiunte in attesa di proseguire l'attacco come previsto, e un'ora dopo aveva inviato un messaggio a Belluno ad Arz von Straussenburg chiedendogli di abbandonare definitivamente l'attacco sul fronte degli Altipiani e del Grappa e lasciar perdere l'Operazione Radetzky per dedicare invece tutte le energie ad Albrecht, ma era andato su tutte le furie per quella che riteneva una sconcertante decisione dell'Imperatore, quella cioè di proseguire l'attacco su Treviso.
Anche se per far questo l'Imperatore aveva messo a disposizione della V° armata di Wenzel von Wurm alcune truppe del settore alpino affinché fossero dislocate in pianura per soccorrere l'attacco sul Piave in caso di bisogno, il Feldmaresciallo proruppe così (Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, cit.):

"Considerata la superiorità numerica dell'avversario e la situazione attuale, ritengo del tutto imprudente continuare subito l'offensiva su Treviso (...)
Il Montello e l'ala sud dell'Armata dell'Isonzo costituiranno teste di ponte offensive quando si potrà disporre di tutti i mezzi per passare nuovamente all'attacco (...)

Mancano le artiglierie di medio calibro, le munizioni, gli automezzi ed i materiali per la costruzione dei ponti. Il successo potrà essere ottenuto solo quando saranno state soddisfatte tutte le richieste di materiali e dopo aver avuto il tempo necessario per organizzare una nuova offensiva. Non posso permettermi di ordinare prematuramente un attacco con forze insufficienti e malnutrite!"

La sua decisione trova conferma nelle parole del diario dell'Arciduca Giuseppe, il quale al termine della prima giornata scriveva (cit., pagg. 6-7):

"(...) Allo scopo di sfruttare i risultati ottenuti dall'ala sinistra dell'armata dell'Isonzo, presso San Donà di Piave, egli [Boroevic, nota mia] decise di gettare nella battaglia le riserve, impiegandole sulla fronte del XXIII° C.A. Ordinò quindi che l'armata dell'Isonzo si mantenesse sulla sponda destra del Piave in attesa dei rinforzi, ma senza esporre i suoi Corpi d'Armata ad attacchi infruttuosi".

Dopo un fitto scambio di fonogrammi tra Udine e Belluno, ricorda ancora Pierluigi di Colloredo,  a Boroevic erano state promesse, in rinforzo alla V° armata, le famose sette divisioni di cui aveva parlato Waldstatten, ma sarebbero occorse comunque quattro settimane per trasferirle da Dobbiaco a Sacile e da qui all'area tra Colle Umberto, Conegliano, Vittorio Veneto e Sarmede.
Ma nel frattempo gli austro-ungarici avrebbero dovuto fare con quanto avevano, come potevano...


San Donà di Piave: ponte abbattuto dall'aviazione italiana
(Fonte: https://www.panorama.it/cultura/grande-guerra-100-anni-fa-la-battaglia-del-solstizio-storia-e-foto/#gallery-0=slide-7)


Ancora l'Arciduca Giuseppe la sera del 16 giugno scriveva:

"Conrad è stato sconfitto: ha dovuto ripiegare su tutte le posizioni di partenza e chissà con quali terribili perdite.
Le mie truppe hanno conquistato quasi tutto il Montello e ciononostante hanno dovuto fermarsi  poiché il mio vicino di sinistra - il XVI° C.A. - è stato rigettato al di qua del Piave dal duro avversario; io non ho truppe sufficienti per continuare l'offensiva e sfruttare il brillante successo. 
In seguito all'insuccesso di detto Corpo, le mie truppe sono battute violentemente sul tergo anche dalla parte sud e i ponti man mano che vengono riattati sono distrutti, così che l'invio al di là del fiume di truppe, munizioni e viveri può avvenire soltanto poco per volta.
Questa situazione è quanto mai fatale. 
Dove mi troverei ora se avessi avuto dal Comando Supremo i materiali da ponte e di traghettamento che avevo chiesto (e dei quali forse non mi fu concessa neanche la terza parte) e non mi avessero portato via 9 divisioni di fanteria? Con 12 divisioni, sfruttando la prima sorpresa, a quest'ora lo sfondamento del fronte nemico sarebbe già un fatto compiuto.
Tutto ciò fu da me previsto, annotato nel mio diario e prospettato con rude franchezza al Comando Supremo e a Boroevic. Un'impresa basata su un errato piano operativo e iniziata prima che fosse completamente preparata ha già in sé i germi dell'insuccesso.
Ma le recriminazioni non giovano... Ormai non si tratta che di evitare una completa catastrofe. La responsabilità dell'insuccesso è tutta del Comando Supremo. Si è voluto iniziare subito l'offensiva per motivi politici, ma ora come si accordano questi motivi con l'insuccesso dell'impresa?
Le mie truppe che hanno preso il Montello sono già impegnate in gravi combattimenti col nemico che cresce ogni ora di più, e si batte accanitamente. Se le mie urgenti richieste non saranno accolte, allora, per quanto doloroso possa essere il ripiegamento dietro il Piave, sarò costretto ad effettuarlo, altrimenti il Montello diventerebbe una seconda Doberdò, in una situazione ancora più grave, di cui non saprei assumere la responsabilità.
(...) È ormai chiaro che le mie preoccupazioni erano giuste: abbiamo ricevuto dai tedeschi proietti a gas che essi non usavano più da tempo perché non adatti. Queste munizioni hanno avuto effetto soltanto su coloro che non avevano la maschera e per brevissima durata, in quanto i colpiti si riebbero ben presto.
Quindi i mezzi messi a nostra disposizione non soltanto sono stati scarsi, ma anche inefficaci".

Il povero Arciduca Giuseppe (tra l'altro sempre pronto a evidenziare sul suo diario i meriti del nemico italiano e anche le sue giuste ragioni di fondo nella scelta di fare guerra all'Austria-Ungheria), avrebbe dovuto fare sempre da solo, perché comunque ormai i rinforzi maggiori sarebbero stati destinati soprattutto alle truppe di von Wurm impegnate sul Basso Piave.
La sua VI° armata avrebbe avuto ora il compito, ben più limitato rispetto alla conquista immediata di Treviso, di avanzare sulla linea Cusignano-Arcade-Spresiano, mentre le contigue truppe della V° impegnate sul Medio Piave a sua volta si sarebbero dovute limitare a muoversi in direzione della linea Meolo-Rovarè-Calion-Candelù-Folina.
Di fatto l'obiettivo primario era arrivare quanto meno alla linea delle artiglierie italiane, per distruggerle, catturarle o costringerle a retrocedere, così da avere la possibilità di gettare sul Piave nuovi ponti e far passare le altre truppe sulla riva destra: ed a farlo doveva essere il XXIV° C.A. di Goiginger, l'unico che avrebbe avuto la possibilità, sfondando sul Montello, di penetrare in profondità nella pianura, ma che ovviamente andava protetto da attacchi italiani provenienti da ovest.
Ma mancavano artiglierie, munizioni e automezzi.














DOPO DUE GIORNI DIAZ INVIA LE SUE FORZE DI RISERVA
Il Comando Supremo italiano di Abano, spaventatissimo a causa dello sviluppo negativo della situazione sulla Piave Vecchia, era dovuto comunque immediatamente correre ai ripari: aveva così deciso di inviare in tutta fretta sulle riva destra del Piave tutte le artiglierie resesi disponibili dal ristagnare delle operazioni sugli altri fronti e mobilitato in massa anche le riserve.
Nel corso dei giorni successivi sarebbero arrivate, nei settori presidiati  dall'VIII° armata, la 52° divisione alpina del Maggior Generale Pietro Ronchi (I° e II° raggruppamento) a Bassano del Grappa; il resto della 47° del parigrado Nicola Gualtieri (brigata Bologna e 74° Lombardia), la 37° di Giovanni Castagnola (Macerata e Foggia) e la 22° di Giovanni Battista Chiossi (Roma e Firenze) dal Garda a Treviso; la neocostituita 1° divisione d'assalto di Ottavio Zoppi tra il Grappa e il Montello.

Nel Basso Piave a rinforzo della III° sarebbero state invece inviate, ed alcune unità come abbiamo visto erano già in linea, la 33° divisione del Tenente Generale Giulio Amadei (Sassari e Bisagno), la 7° del parigrado Francesco Gagliani (Bergamo e Ancona), l'11° del Maggior Generale Roberto Diotaiuti (Pavia e Perugia), la brigata Volturno, presa di peso dalla I° armata di Pecori Giraldi ed autotrasportata nel settore di Candelù, e persino la 4° cavalleria del Maggior Generale Warimondo Barattieri di San Pietro (VII° e VIII° brigata). 
Così, nei giorni successivi si sarebbe combattuto ancora a lungo e con esiti alterni, ma gli italiani nel frattempo avrebbero continuato a rinforzarsi, a differenza degli austro-ungarici, che ormai avevano perso l'inerzia iniziale e stentavano a far affluire i rinforzi.


La situazione alla sera del 17 giugno, al momento dell'entrata in linea della 44° e della 57° divisione austro-ungariche(Fonte: http://www.elevamentealcubo.it/crocedipiave/1918_battagliadelsolstizio.htm)




SI ARENANO GLI ATTACCHI NEMICI SUL MEDIO E BASSO PIAVE  
Nonostante tutti gli sforzi delle artiglierie e dell'aviazione, la ricognizione aerea italiana aveva verificato come i passaggi del fiume da parte del nemico fossero addirittura aumentati e pure di molto: sette passerelle (quattro sul Montello e tre più a valle) e quattro ponti (uno sull'isola Rolando ed un altro a sud di Sant'Andrea di Barbarana si aggiungevano agli altri due preesistenti di Salgareda e Zenson) erano presenti fino a Noventa, ancora di più oltre questa località, nel settore presidiato dal XXIII° C.A. di Petitti di Roreto, dove l'azione degli austro-ungarici era ostacolata solo dagli aerei oppure dai bombardamenti sui punti di passaggio, visto che le nostre artiglierie erano state notevolmente arretrate per impedirne la distruzione o la cattura da parte del nemico, senza poter quindi battere i pontieri.
L'intenzione di von Cziserics era proprio quella di approfittare di questo vantaggio per ampliare la testa di ponte del suo XXIII° C.A. verso il torrente Meolo e sulla destra verso Monastier, ed a tal fine aveva assegnato per l'attacco di rinforzo un ulteriore reggimento, il 57° "Prinz von Saxe-Coburg-Saafeld", più un'intera brigata di artiglieria, ma nonostante sin dalle 10,00 del 16 giugno, in contemporanea con l'offensiva del IV° e del VII° C.A., l'appena sbarcata 47° divisione K.u.K. montenegrina di Herceg Novi (Castelnuovo) del Maggior Generale Franz Ritter Weiss-Tihany von Mainprugg da Fossalta e la 12° di von Puchalski da Capo d'Argine si scagliassero con estrema violenza sull'intera linea italiana, i loro battaglioni d'assalto erano stati tutti sanguinosamente contenuti per oltre 24 ore dai nidi di mitragliatrici italiani e, quando non bastavano, dalle fanterie supportate dagli arditi e dai bersaglieri ciclisti della 33° divisione che sin dalle prime ore della notte stavano sostenendo lo scontro quasi da soli contro la 20° e la 24° brigata nemica.

Nel frattempo le due brigate Sesia e Cosenza della spossatissima 45° divisione erano state mandate in retrovia sulla linea Meolo-Vallio dopo essere giunte ormai sull'orlo dell'annientamento nel settore di Fagarè, sostituite finalmente alle prime luci del 17 giugno dall'11° divisione, con le due brigate Pavia (27° e 28°) e Perugia (129° e 130°).
Ma come abbiamo visto non si trattava delle uniche forze mandate in soccorso dalla riserva: Emanuele Filiberto aveva infatti ordinato alle 09,00 di quella mattina un contrattacco generale su tutto il suo settore fissandolo per le 17,00, ed a tal fine aveva assegnato all'XI° C.A. di Paolini la brigata Volturno (217° e 218° reggimento), al XXVIII° di Croce l'Ancona (69° e 70°) ed al XXIII° di  Petitti di Roreto la divisione d'assalto di Ottavio Zoppi e la brigata Bergamo (25° e 26°), con l'input di portare assolutamente in avanti le artiglierie in appoggio delle fanterie, anche a rischio di vedersele catturare, piuttosto che arretrarle in modo sin troppo rapido ed inopportuno, che avrebbe potuto portare a gravissime cadute del morale dei nostri combattenti.

Ne sarebbe nata, così, tra la spinta delle forze austro-ungariche attaccanti dirette contro la linea del Meolo e la controspinta di quelle italiane decise a riprendere l'iniziativa, una gigantesca, confusa e sanguinosissima battaglia nella battaglia: il 221° Jonio, appena giunto sulla linea del fronte nella zona di Monastier, riuscì a reggere per ore non si sa come sotto una schiacciante pressione di decine di migliaia di soldati imperiali nel settore tra Campolongo e Fossalta di Piave, grazie probabilmente all'entusiasmo patriottico di molti ragazzi del '99 presenti, sorretto dal fuoco delle mitragliatrici FIAT e dall'impeto degli appena arrivati arditi di Zoppi, mentre lo scontro decisivo probabilmente fu quello che avvenne davanti al piccolo ponte sul Canale Fossetta di Case Malipiero, sulla linea del Meolo, dove ancora il XXIII° fiamme cremisi di Allegretti, insieme ai tre battaglioni del 4° gruppo bersaglieri ciclisti e alla 5° squadriglia autoblindomitragliatrici (gli unici mezzi corazzati presenti sul fronte italiano, inagibile per la gran parte ai primi carri armati), fermò definitivamente tre brigate nemiche, la 19°, la 20 e la 24°, appena prima che finalmente entrassero in linea proprio sul Meolo i primi due battaglioni dell'81° Torino della 4° divisione di Viora e sul Fossetto persino i due reggimenti 151° e 152°  della formidabile brigata Sassari della 33°, fiore all'occhiello del Regio Esercito, inviati alle 12,30 dalla zona di Mestre a Casa Tron, subito capaci insieme con i battaglioni fratelli della Bisagno non solo di resistere ai continui attacchi nemici tra Villa Premuda e Zenson, ma addirittura di riconquistare il caposaldo di Ronche.


Cartolina d'epoca


Ricostituita finalmente una coerente e salda linea difensiva, il comandante della III° armata aveva comunque dato il via alle 17,00 al progettato contrattacco.
I risultati però sarebbero stati deludenti, perché l'azione si sarebbe rivelata scoordinata: con la brigata Caserta (267° e 268°) già duramente impegnata nel settore dell'XI° C.A. di Paolini ora contro ben due divisioni, le neosbarcate 12° (Stanislaus von Puchalski) e 57° K.u.K. (Joseph Hrozny Edler von Bojoemil), solo alle 18,15 nel settore del XXVIII° C.A. di Croce erano entrate in combattimento anche la Perugia e la Pavia subentrate alla Sesia e alla Cosenza, col compito di riconquistare le posizioni perdute di Molino della Sega, Fagarè, Bocca di Callalta, Sant'Andrea di Barbarana e La Fossa.
Dopo tre ore di durissima lotta, frazionata in mille scontri più piccoli, a causa del cedimento a Lampol di reparti di bersaglieri ciclisti e fanti della 25° divisione, attaccati da due grossi reggimenti nemici, ampiamente superiori di numero, l'istriano 87° "Freiherr von Succovaty von Vezza" ed il dalmata 122° costituito solo il mese prima, la Perugia era stata costretta per evitare l'accerchiamento a ripiegare e ad attendarsi per la notte tra il caposaldo di Casa Ninni ed il Fosso Spinosola, a sud della Strada Callalta, costringendo così anche la Pavia e le truppe della 31° divisione di De Angelis a ripiegare, anche se il generale comunicava al Comando che la 31° aveva ripreso Candelù.

DUE CORPI D'ARMATA NEMICI SI RICONGIUNGONO SUL MEDIO E BASSO PIAVE
I due corpi d'armata nemici, il VII° di Schariczer ed il XXIII° di von Cziresics, erano riusciti tuttavia in qualche modo all'altezza di Campolongo, caduta in loro mani, a saldare nel settore difeso dalle truppe di Petitti di Roreto le rispettive teste di ponte,  formandone così una unica che penetrava ben oltre le linee italiane, per una profondità di circa 8 chilometri, imperniata sulla linea ferroviaria Cervignano-Mestre, anche grazie al fatto che il tempo veramente orrido impediva alla nostra aeronautica e a quelle alleate di intervenire.
Tuttavia proprio il tempo cominciava a favorire anche gli italiani: il XXIII° C.A italiano era schierato ora lungo una linea  che congiungeva Scolo Palombo al Meolo e da qui il presidio di Casa Malipiero, più a sud il Fosso Mille Pertiche e da qui fino a Mezzo Taglio, sul Sile: l'aumentato vigore della piena del Piave impediva di alimentare l'offensiva nemica con nuovi invii di reparti, ed il rinnovato vigore combattivo oltre che delle nostre artiglierie anche delle fanterie, finalmente tornate su salde posizioni difensive e rinforzate di numero e morale, cominciava ormai piano piano a prevalere...
E si sarebbe visto molto bene nei due giorni successivi, il 18 e 19  giugno, quando l'intero settore sarebbe stato infatti infiammato da una serie di attacchi e contrattacchi dell'uno e dell'altro contendente.

Nervesa


PROSEGUE LA DURA BATTAGLIA DI NERVESA
La situazione sul Montello e sul Piave restava ancora assai critica per gli italiani, ma le truppe di Pennella la mattina del 17 sembravano tenere bene, anche per il progressivo arrivo finalmente in soccorso anche di tutte le riserve del XXX° C.A. del Tenente Generale Umberto Montanari.
A battersi tuttavia era ancora quasi da solo il Gruppo Giacchi, fatto affluire per intero in zona d'operazioni sin dal giorno 15, ora inviato a Trivignano col compito di unirsi alla stessa Aosta e rilevare i resti provatissimi della 58° divisione (Piacenza e Lucca), spediti nelle retrovie a Vedelago: a parte l'ottimo comportamento dei reparti di cavalleria in quel momento tre battaglioni del 2° bersaglieri, il IV° messo alle dipendenze della Tevere, nel settore tra le strade nn. 7 e 8 del Montello, ed il XVII° ed il LIII° alle dipendenze della Lucca, posizionatisi tra le strade nn. 7, 6 e 5, stavano bloccando l'avanzata di almeno quattro divisioni nemiche nel settore di Nervesa a cavallo della strategica linea cosiddetta della "Caponiera", sia pure con la perdita e la riconquista a fasi alterne di singole posizioni (e purtroppo la totale distruzione per opera delle contrapposte artiglierie della bellissima Abbazia cistercense di Nervesa).

Dopo che però alcune infiltrazioni nemiche sul settore sinistro dello schieramento italiano, evidentemente effettuate a scopo diversivo, erano state neutralizzate schierando sul posto la brigata Barletta, un violentissimo nuovo scontro si accese all'improvviso alle 13,15 su tutta la linea Santa Margherita-Collesel Val dell'Acqua-Venegazzù-Selva-Cusignano-Arcade-Spresiano-Palazzonper opera di quattro reggimenti della 17° divisione, il 43° "Rupprecht Kronprinz von Bayern", il 46° "Freiherr von Fejérvàry" ed il 39° "Freiherr Conrad von Hotzendorf", diretti sulla linea ferroviaria San Mauro-Casa Schiavonesca-Sant'Andrea sino a Villa Berti, ed il 14° Schutzen su Giavera, con l'intento di occupare il versante orientale del Montello, sul presupposto errato di Goiginger che la 13° e la 48° divisione italiana fossero quasi annientate: grandissima fu quindi la sua sorpresa quando invece le due grandi unità nemiche reagirono con estremo vigore al suo attacco, la prima ricacciando completamente indietro il nemico sino alle posizioni di partenza, la seconda inchiodandoli sulla massicciata ferroviaria, mentre i soliti 111° Piacenza e 270° Aquila, supportati dai due battaglioni LXXIII° e LXXIX° del genio zappatori e da alcune autoblindomitragliatrici, tenevano ancora impavidamente sulle due ali.
Solo al centro alcuni nuclei di assaltatori nemici superavano la ferrovia giungendo sino a Casa Ruos, ma la 48° riusciva a rinchiudere la gravissima falla, che correva il rischio di creare uno sprofondo alle spalle dei difensori sino a ben oltre i Ponti della Priula: infatti il III°/269° L'Aquila, intervenuto prontamente, li respingeva, e unendosi al'ultimo battaglione disponibile dello stesso 269° ed al 270° bloccava definitivamente la loro avanzata verso Villa Berti, divenuta ormai l'obiettivo principale da colpire, senza per fortuna che fosse necessario far contrattaccare anche la brigata Aosta, radunatasi in fretta e furia ad Arcade, i cui uomini non solo erano stanchissimi per i continui spostamenti notturni ma anche a digiuno da molte ore.

Con un tempo ormai sempre più piovoso e quasi a limite della burrasca il Piave nel frattempo si era alzato mediamente di 70 centimetri, impregnando pure talmente tanto il terreno che i proietti di artiglieria spesso si conficcavano affondandovi senza nemmeno esplodere.
La corrente era diventata molto forte, così il fiume aveva raggiunto una velocità di quasi 4 metri al secondo, tanto che le isole erano state sommerse ed i collegamenti fra le due rive interrotti, rendendo così praticamente impossibile ulteriori passaggi di truppe, armi, munizioni e viveri, oltre che il trasbordo di feriti e prigionieri sulla riva sinistra, anche perché gli austro-ungarici avevano preferito smantellare 11 dei 14 tra ponti di barche e passerelle costruiti, con un dodicesimo puntellato alla meglio, per evitare di perderli definitivamente.
Erano così saltati tutti i propositi di Goiginger, bloccata l'ala destra del suo attacco, di far avanzare il 18 giugno almeno la 13° divisione di Kindl sulla sinistra, visto che quel settore era ora anche molto presidiato, però quanto meno il tempo brutto impediva agli aerei italiani e inglesi di decollare.


Soldati austriaci prestano le prime cure a un ferito durante la Battaglia del Solstizio





La Relazione del Comando Supremo, però, riporta questo:

"(...) nella giornata del 17 la battaglia ebbe una sosta sulla nostra sinistra e al centro", tranne alcune limitatissime infiltrazioni che provocarono "allarmi del tutto ingiustificati, con la diffusione di notizie catastrofiche che, dimostratesi del tutto infondate, denotavano l'esistenza di un pericoloso grave stato di nevrosi nello Stato Maggiore, e così il generale Di Giorgio, preoccupato della situazione sul proprio fianco destro, decise di alleggerire la pressione avversaria, ed alle nove comunicava ai comandi dipendenti, e per conoscenza al I° Corpo d'Armata (4° Armata), che rilevava la necessità di dare alla difesa <<caratteristiche di difesa mobile e soprattutto aggressiva>>"

Questo avrebbe portato alla decisione di frammentare le sue tre divisioni, la 66° (suddivisa in due nuclei sparsi tra Asolo e Montebelluna!), la 50° (di fatto ora ridotta ai soli due reggimenti della brigata Udine, con l'Aosta passata alla 58°) e la 51°, in una serie di formazioni più piccole spostate più indietro in posizione di riserva, con solo un sottile velo di nuclei mobili e nidi di mitragliatrice sulla linea di resistenza lungo il Piave, nell'intento di predisporre una difesa manovrata su terreno favorevole improntata, dai comandi divisionali sino a quelli più bassi, ai principi della "guerra di movimento".
Le disposizioni di Di Giorgio però, che pure si era speso molto per dare ordini chiari al riguardo, sarebbero state assolutamente male interpretate dai comandi sottoposti, traducendosi nella pratica in un grave equivoco tattico, quello di sguarnire di fatto la linea del Piave.

Forse anche per questo, quando nella notte del 18, precedute da un violentissimo bombardamento di artiglieria, le truppe fresche della 41° Honved di Schamschula erano riuscite lo stesso a sbarcare nonostante le avverse condizioni climatiche e ad attaccare protette da una fitta coltre di nebbia alle 04,30 ancora una volta il sotto-settore compreso tra Villa Berti e Sant'Andrea difeso dall'ormai stremata 48° divisione di Cattaneo con l'intento scoperto di arrivare sino ai Ponti della Priula, il 111° Piacenza si era trovato praticamente da solo a lottare contro di loro.
I soliti arditi di Bigliardi e l'indomabile I° battaglione si erano ancora una volta battuti come leoni, ma alla fine erano stati costretti a lasciare Nervesa, obbligando così anche il 270° Aquila alla sinistra delle loro posizioni, per non essere isolato, a ripiegare a sua volta a sud di Villa Berti.
Nonostante questo, i due valorosissimi reggimenti per tutta quella giornata riuscivano ancora disperatamente a tenere anche sulle loro nuove posizioni, pur costretti a sostenere anche sanguinosissimi corpo a corpo, nella speranza che finalmente arrivassero prima o poi i tanto attesi rinforzi promessi dal Comando d'armata ed ancora mai arrivati.

Alla fine le nostre truppe erano state in grado di tenere, anche in una situazione come quella che, tra clima avverso, vie di comunicazione interrotte, distruzioni delle artiglierie, mancanze di coordinamento tra i reparti, tutto faceva tranne che favorire una guerra di movimento, ma ovviamente non sarebbero mancate anche nel dopoguerra fortissime polemiche tra Giardino e il comando dell'VIII° armata.

IL IV° ED IL VII° C.A. NEMICI ALL'ATTACCO SULLA LINEA DEL MEOLO 
Mentre nel settore difeso dal XXIII° C.A. di Petitti di Roreto il 225° Arezzo della 61° divisione di Marchetti era stato nel frattempo costretto a ritirarsi dal 9° Ussari dalla Castaldia, lasciando quindi in mano al nemico Capo Sile e a cascata anche Chiesanuova, Cavazuccherina (l'attuale Jesolo) ed Eraclea, alle 06,30 del 18 giugno entravano finalmente in linea alle dipendenze della III° armata le truppe della 22° divisione ex VII° armata (brigate Roma, 79° e 70°, e Firenze, 127° e 128°), per le quali, essendo stanchissime per il lungo e disagevole viaggio, si chiedeva comunque di non impiegarle sin da subito: si procedeva tuttavia lo stesso a una certa turnazione dei reparti entro le truppe d'armata, senza ricorrere a riserve esterne, e sin dalle 04,00 di mattina la 1° divisione d'assalto di Ottavio Zoppi insieme con la brigata Bergamo (25° e 26° reggimento) assegnate al XXVIII° C.A. di Croce erano in prima linea con lo scopo di eseguire un attacco a fondo verso Capo d'Argine.Ma erano ancora gli austro-ungarici a prendere l'iniziativa, corroborati anch'essi dall'entrata in linea di nuove divisioni.
Così riferisce la Relazione ufficiale austriaca: 

"Il comando dell'Armata dell'Isonzo aveva ordinato di raggiungere il 15 giugno il fiume Meolo a Rovarè, per poi attestarsi lungo il corso d'acqua in corrispondenza di Ca'Lion, Villanova e Candelù. 
Per rinforzare l'ala sud dell'Armata, la 29° divisione di fanteria del IV° C.A. venne posta alle dipendenze del VII°. 
La 33° divisione di fanteria, dopo la sostituzione dei suoi reparti impiegati sulla riva del Piave (a cura della 55° divisione), doveva recarsi senza artiglieria nella zona di Lutrano-Fontanelle (circa 4 km a nord-ovest di Oderzo) a disposizione dell'Armata".


Il rancio in prima linea presso Losson




GLI SCONTRI TRA FOSSALTA, CAPO D'ARGINE E LOSSON
Sin dalle 10,00 di mattina del 18 giugno nella zona del Basso Piave, tra Capo d'Argine e Losson  di competenza del  XXIII° C.A. di Petitti di Roreto, gli austro-ungarici, anticipando gli intenti offensivi degli italiani, tentavano una nuova fortissima spallata  a nord della linea Fossalta-Pralongo-Fornaci in direzione di Monastier, con  la 10° divisione K.u.K. di Emil Ritter Von Gologorski, ma ancora una volta senza ottenere risultati decisivi.
I15° Schutzen della 19° brigata, infatti, dopo essere riuscito per la prima volta a raggiungere la riva del Meolo all'altezza di Ancillotto, quindi ben 6 chilometri oltre la riva del Piave (la massima penetrazione raggiunta nel corso di tutta la battaglia), ne veniva poi ricacciato indietro tra la ferrovia e il Canale Fossetta dal 151° Sassari e dal XXVIII° e XXIII° reparto d'assalto, giunti da tre direzioni diverse, fino a Casa Rigati.
Si creava una vistoso scompiglio nelle file del nemico, di cui è puntuale conferma quanto scrive la Relazione Ufficiale austriaca:

"Il disordine che si verificò tra le riserve della 10° divisione indusse la 46° Schutzen ad inviare la 91° brigata sulla riva orientale del Piave per farle presidiare una posizione di contenimento nei pressi di San Donà.
Al termine del quarto giorno di battaglia, nonostante tutti i sacrifici compiuti nel corso di numerosi combattimenti, il XXIII° C.A. si trovava ancora a 2-3 chilometri dagli obiettivi intermedi assegnati. Senza tempestivi e consistenti rinforzi non era più possibile attendersi un grande successo, anche perché la spinta offensiva delle truppe, logorate nel fisico e nel morale, si era ormai notevolmente ridotta".

Non c'era tempo per rifiatare, però.
Alle 16,00 di quello stesso giorno, in quel gioco di sanguinoso tira e molla, stavolta  a passare al contrattacco era l'intero XXVIII° C.A. italiano, con la divisione d'assalto di Zoppi, la brigata Bergamo e ciò che restava della Avellino della 25° divisione.
Nonostante una furiosa reazione del 3° reggimento "Erzherzog Karl", gli italiani sfondavano a sinistra ed al centro contro le linee tenute dalla 12° divisione di von Puchalski (23° e 24° brigata), tanto che gli arditi arrivavano sino a Fossalta.
Si trattava senza dubbio di un indubbio successo tattico, tuttavia Zoppi si sarebbe molto lamentato col Comando della III° armata, ritenuto colpevole di aver mandato la sua nuovissima divisione subito allo sbaraglio, in maniera "caotica", "affrettata" e "intempestiva", appena scesa dai camion che l'avevano portata al fronte, senza che ne fossero ancora definite in maniera precisa le modalità d'impiego e persino un minimo di coordinamento con l'azione delle fanterie.
Arditi del XXIII° reparto d'assalto dopo la vittoriosa azione di Fossalta







Ben preso le cose prendevano però una brutta piega sulla destra del fronte d'attacco italiano: qui, raggiunto l'agognato obiettivo di Capo d'Argine, ormai stremate e senza ricambi le nostre truppe venivano purtroppo travolte da un impetuoso contrattacco effettuato da ben tre brigate nemiche su tre distinte direttrici, la 113° e la 114° della 57° divisione K.u.K. di Joseph Hrozny e la non ancora impiegata 92° della 46° K.K. Schutzen di August Urbanski, così che si trovavano costrette ad abbandonare alle 21,00 Capo d'Argine e poi anche Fossalta, perdite dolorose cui faceva seguito anche quella del caposaldo di Ronche, nonostante una disperata resistenza.
Di fatto a questo punto il contrattacco italiano non solo era fallito, visto che alle 24,00 tutto era ritornato come nelle posizioni di partenza, ma addirittura le truppe di Croce dovevano ora prendere un atteggiamento difensivo, visto che la linea Monastier-Fornaci-Losson restava assolutamente precaria sotto la risoluta spinta nemica.

Una circostanza da ricordare di questo scontro, piccola forse da un punto di vista strettamente militare ma importante da quello storico e soprattutto tragica sotto quello umano, è il fatto che proprio a Fossalta facesse il suo vero e proprio esordio in combattimento accanto agli italiani il contingente cecoslovacco, appena formato con volontari di quella regione, tutti ex disertori dell'esercito imperiale.
Si trattava del primo intervento nella Grande Guerra di un'unità cecoslovacca tra le file dell'Intesa, espressione del nuovo Governo Cecoslovacco in esilio, nato in contrapposizione all'Impero di Vienna ed appena riconosciuto dal Regno d'Italia: proprio per questo alcuni soldati boemi catturati sarebbero stati sottoposti a processo sommario e condannati a morte per tradimento e diserzione.


Legionari cecoslovacchi impiccati a Piavon il 15 giugno
(Fonte: Museo Civico del Risorgimento Bologna- Immagini della Grande Guerra)
Condotti a Calvecchia di San Donà, sarebbero qui stati tutti impiccati agli ippocastani e ai pioppi trovati lungo la strada ora detta Triestina (l'attuale S.S. 14 della Venezia Giulia), rimanendo appesi per giorni e giorni con dei cartelli di scherno, come monito per i loro commilitoni e per quelli tra le truppe imperiali che desiderassero a loro volta disertare.


IL IV° C.A. ARRIVA SINO A CASA NUOVA E SI FERMA
Contemporaneamente, nel settore del Medio Piave in ottemperanza agli ordini ricevuti due divisioni Honved, la 64° di Rudolf Seide (con la 127° e 128° brigata) e la 70° di Bela Berzevizky (207° e 208°), avevano attaccato con violenza intorno alle 13,00 con l'intenzione di allargare la testa di ponte del IV° C.A. austro-ungarico sia in direzione di nord-ovest la prima, con obiettivo Casa Folina, sia a sud-ovest la seconda, con direzione Casa Nuova.
Sul fronte d'attacco della 64° però 
a Casa Folina la 128° brigata ed a Candelù la 127° trovavano fierissima opposizione nel 256° Veneto, che ricacciava indietro sino alle posizioni di partenza il nemico, mentre sull'altro lato la 208° brigata proveniente da Saletto veniva di fatto costretta a defatiganti combattimenti che ne rallentavano pesantemente la marcia verso ovest, per cui solo l'altra brigata della 70° Honved verso sera riusciva dopo ore e ore di lotta senza quartiere a raggiungere finalmente l'obiettivo di Casa Nuova.  
Un risultato veramente minimo per il IV° C.A imperiale, le cui due divisioni erano uscite non solo fisicamente a pezzi dall'enorme sforzo sostenuto, ma soprattutto pesantemente menomate negli organici: in particolare gravissime erano le perdite degli ufficiali, che mettevano veramente in crisi la retta condotta dell'azione di comando.


La situazione del settore di San Biagio di Callalta
(tratto da http://www.comune.sanbiagio.tv.it/p/vivere/cenni-storici/battaglia-del-solstizio)


IL VII° C.A. NEMICO SI SCAGLIA SU SAN BIAGIO DI CALLALTA
Mentre le altre unità del VII° C.A. nemico mantenevano un atteggiamento di attesa, ma con le artiglierie fatte spostare in avanti, la 14° divisione K.u.K. di Franz Szende (27° e 28° brigata) e la 24° di Adolf Urbarz  tentavano alle 10,00 di mattina del 18 giugno di aggirare nel settore del XXVIII° C.A. italiano la brigata Perugia dell'11° divisione: nonostante i due reggimenti 71° e 72° della 27° brigata riuscissero ad arrivare sino a Ca' Lion e Casa Martini, all'altezza del gomito del fiume Meolo a ovest di Fagarè, ricollegandosi con la brigata sorella 28°, e la 48° brigata della 24° divisione giungesse ad occupare tutto il Bosco Ninni, il vigoroso contrattacco del 130° Perugia spezzava fragorosamente l'onda nemica, anche se purtroppo alle 17,30 riusciva un nuovo attacco su Molino Nuovo difeso dalla sorella Pavia, costretta a sloggiare da lì.
Si creava così una pericolosissima breccia tra questa località e il caposaldo appena perduto di Casa Martini, che costringeva Emanuele Filiberto a far intervenire alle 09,00 del 19 giugno a difesa di San Biagio di Callalta il 280° Foggia della 37° divisione di Giovanni Castagnola, aggregata all'XI° C.A. di Paolini: diviso in tre colonne, una di sinistra in direzione nord per riprendere Molino Novo, Casa Pavan e Ca'Lion, una centrale da lì sino a Casa Martini esclusa, una di destra direttamente contro quest'ultima, il 280° veniva però duramente contrastato da un intensissimo ed inaspettato fuoco di artiglieria e mitragliatrici.

Mentre scattava l'attacco italiano, infatti, a sua volta il 
VII° C.A. imperiale (il raggruppamento Urbarz, formato dalla sua 24° divisione insieme con la 9° divisione di cavalleria del parigrado von Habermann e l'88° brigata della 44° Landwehr Schutzen di Wenzel Schonauer, con l'87° in riserva), rafforzato dalle 13,00 dall'appena sbarcata 29° divisione K.u.K. del parigrado Karl Steiger (57° e 58° brigata) aveva avviato una nuova offensiva.
La 29° aveva infatti il compito di attaccare tra la ferrovia Treviso-Oderzo ed il margine nord del Bosco Ninni per raggiungere il torrente Meolo tra la stessa ferrovia e Isolella, poco a sud-est di Rovarè, mentre più a sud  la 24° insieme col 1° Kaiserschutzen dell'88° brigata doveva arrivare al fiume nel settore tra Isolella e Monastier, con la 9° cavalleria insieme col 2° Kaiserschutzen a protezione dell'intero fianco sud e oltre che di supporto con la sua ala destra della 24° di Urbarz.



La situazione a mezzogiorno del 19 giugno, al momento dell'entrata in linea della 29° e della 46° divisione austro-ungariche
(Fonte: http://www.elevamentealcubo.it/crocedipiave/1918_battagliadelsolstizio.htm)


Mentre la colonna italiana di sinistra riusciva infatti in qualche modo comunque nell'intendimento di rioccupare la linea Molino Nuovo-Casa Pavan-Ca' Lion, quella centrale e quella di destra invece non ottenevano l'obiettivo di prendere il terreno rispettivamente da Ca' Lion a Casa Martini e lo stesso caposaldo di Casa Martini: anzi, l'attacco delle due brigate 57° e 58°  della 29° divisione, pur frazionandosi in decine di scontri distinti nel bel mezzo di un terreno contraddistinto da una fitta vegetazione, tutti dall'esito sempre incerto, arrivava fino al caposaldo di Casa Ninni, disperatamente tenuto dagli italiani ed ormai divenuto il fulcro dell'intera battaglia in quel delicatissimo settore, ma qui si fermava definitivamente: nonostante alcuni reparti nemici riuscissero infatti ad arrivare fino al punto avanzato di Cappella Le Taie, qualche centinaio di metri a sud-est del caposaldo, alla fine un ultimo e vigoroso contrattacco del 28° Pavia e dei due reggimenti 129° e 130° della Perugia, appoggiati dal fuoco della 4° squadriglia autoblindo, rintuzzava l'offensiva austro-ungarica.

Nonostante la 47° e la 48° brigata della 24° divisione riuscissero così più a sud a far arretrare il 69° Ancona della 25° divisione, appena entrata in linea sullo Scalo Palombo, e a toccare le rive di un canale a sud di Le Taie, era ormai evidente a tutti che gli Imperiali, dopo cinque giorni di sforzi continui, ripetuti e senza lesinare uomini e mezzi erano anch'essi giunti ormai a fine corsa, incapaci com'erano di alimentare come si deve quell'offensiva che pure nei propositi iniziali doveva vederli a Treviso già da tre giorni almeno, sotto il diluvio di fuoco delle artiglierie italiane sempre più precise ed efficaci, come conferma la stessa Relazione Ufficiale austriaca:

"Fu questa la penetrazione più profonda della divisione e di tutto il VII° C.A., ma l'attacco aveva completamente esaurito la capacità combattiva della grande unità, impegnata ormai da cinque giorni nella battaglia".

Tuttavia più a sud-est la situazione per gli italiani si faceva assai critica all'altezza di Monastier, sull'ala sinistra del XXVIII° C.A., quando le altre truppe del VII° C.A. di Schariczer, cioè il resto della 44° Schutzen più altri reparti della 24° fanteria e della 9° di cavalleria, travolgevano la linea tenuta dal 70° Ancona.
Proprio in queste circostanze però si verificava un altro degli episodi più significativi dell'intera battaglia del Solstizio, per opera delle cavallerie del Gruppo tattico del colonnello Giacchi, inviate lì da Umberto Montanari, comandante del XXX° C.A., che come sappiamo era di riserva dell'VIII° armata nell'intero settore del Montello.
Sfruttando al meglio la loro mobilità, che li portava ad operare nelle zone di congiunzione tra i vari corpi d'armata a tappare tutti gli eventuali buchi che si creavano, i nostri cavalieri avevano fin lì costituito un fermissimo argine ai numerosi tentativi di infiltrazione al centro dell'intero schieramento italiano e verso il Montello.


Autoblindomitragliatrice Lancia 1ZM
Mentre però sarebbe rimasta circoscritta a quest'ultimo settore l'azione del 17° Cavalleggeri di Caserta, impegnato in arditissime azioni di pattugliamento, oltre che in altrettanto delicate missioni di segna piste e porta ordini (tanto da guadagnarsi il titolo di "Guide del Montello"), lo sfondamento nemico anche nel settore di Monastier tenuto dal 70° reggimento della brigata Ancona, avvenuto nelle prime ore del pomeriggio del 19 giugno, costringeva a far intervenire nella contesa, su ordine diretto del Comando della III° brigata di cavalleria, che aveva sede proprio a Monastier, il 2° Piemonte Cavalleria, il 7° Lancieri di Milano ed il 10° Lancieri di Vittorio Emanuele II°.
Veniva così respinta energicamente un'infiltrazione diretta proprio su Villa Premuda e Monastier del 6° Ulani "Kaiser Joseph II": l'avanguardia nemica, costituita da un pattuglione di circa una sessantina di uomini,  veniva addirittura caricata e catturata quasi per intero dai dragoni del 5° squadrone del Piemonte Cavalleria sulla rotabile San Pietro Novello-Monastier, con l'appoggio del 70° Ancona, mentre il resto del 6° Ulani, contrastato a Villa Premuda dal XXV° reparto d'assalto e da un battaglione del 69° Ancona appoggiati da due autoblindomitragliatrici di una sezione della 5° squadriglia del XXII° reparto d'assalto assegnato alla nuovissima divisione di Zoppi, veniva infine respinto proprio a San Pietro Novello oltre lo Scolo Palombo dai sopravvenuti squadroni dei lancieri del Milano e del Vittorio Emanuele, pur in grave inferiorità numerica rispetto al nemico.

Ancora una volta, la stessa relazione austro-ungarica dava piena conferma della situazione ormai prossima all'esaurimento dello schieramento nemico:

"Nel frattempo il 1° e 13° reggimento dragoni, ormai esausti, venivano fatti ripiegare verso Castaldel (a ovest di Zenson). Nelle ore serali la situazione delle ali interne della 24° divisione di fanteria e della 9° di cavalleria cominciò a diventare critica. Sottoposti al violento fuoco dell'artiglieria italiana e attaccati più volte durante la notte da consistenti forze avversarie, alcuni reparti della 48° brigata di fanteria e del 2° reggimento Schutzen (ala destra della 9° divisione di cavalleria) cominciarono a cedere e a disperdersi. Il 21° reggimento dell'87° brigata Schutzen, avuto l' ordine di colmare quel vuoto, riuscì a raggiungere prima dell'alba solo il margine meridionale di Bosco Nini (Ninni)".

Agli austro-ungarici non restava ormai che sperare nel Montello, ma quel 19 giugno sembrava proprio indicare il momento della svolta decisiva...

CADE IL GENERALE ENRICO BOLZANO VON KROSTADT 

La cattura di Enrico Bolzano von Kronstadt
Tra le truppe del Gruppo Giacchi che sul contesissimo Montello si stavano comportando alla grande vi era anche il XXVII° reparto d'assalto del maggiore Luigi Freguglia, cui era stato affidato però un ruolo tutto sommato riduttivo rispetto alle sue effettive capacità e modalità d'impiego, cioè la vigilanza continua contro le infiltrazioni nemiche di un tratto di territorio lungo circa un chilometro compreso tra il Costone della Madonnetta-Sorgente del Forame, a nord-ovest della chiesa di Giavera, e la Busa delle Rane, a nord-est della chiesa di Bavarìa.

Per far questo piccoli nuclei di arditi si dispiegavano a raggiera lungo tutto il settore assegnato per effettuare questi veri e propri rastrellamenti, armati per lo più di bombe a mano e pugnalipotevano farlo perché il nemico disponeva di piccole scorte di proiettili a causa della difficoltà a ricevere i rifornimenti dalla riva opposta del Piave, per cui frequenti erano gli scontri corpo a corpo.
Proprio il 19 giugno però il XXVII° avrebbe vista premiata lo stesso la sua dedizione.

Nel corso di una di queste azioni "di routine", che peraltro già il giorno precedente avevano portato alla riconquista di tutti i pezzi d'artiglieria catturati dal nemico durante la nostra sfortunata offensiva del 17 giugno, una pattuglia della 1° compagnia al comando del tenente comasco Marco Bergna, succeduto al caduto capitano Zaninelli, si imbatteva proprio tra la Busa delle Rane e la chiesa di Bavarìa in una formazione armata nemica, che altro non era che la scorta del Maggiore Generale Enrico Bolzano von Kronstadt, comandante della 132° brigata ungherese K.u. Honved ma soprattutto di tutte le SturmTruppen sul Montello.

Ne scaturiva un violento scontro che coinvolgeva altre pattuglie nel frattempo accorse sul luogo: rimasto isolato dai suoi, scappati in massa davanti agli arditi nonostante il suo disperato grido "Zu hilfe!", "Aiuto!", proprio il generale Bolzano, non riconosciuto al momento dagli italiani, veniva ferito gravemente da un colpo di moschetto tirato dal tenente Bergna in persona.
Catturato dai due arditi Angelo Ferrazza di Roma 
ed Enrico Bonanno di Napoli, il generale nemico venne da loro portato a braccia al centro di medicazione, dove però lo sfortunato generale, spirato nel corso del tragitto, sarebbe giunto cadavere.


Luigi Freguglia
(Cento, FE, 1888-1938)
Solo allora si sarebbe conosciuta la sua vera identità, nonostante i dati della piastrina di riconoscimento non coincidessero perfettamente col suo grado.
Il suo corpo sarebbe stato seppellito in fretta e furia una prima volta dietro la canonica a fianco della chiesa di Giavera, sembra coi piedi rimasti addirittura fuori della fossa, e poi inumato diverso tempo dopo nell'angolo nord-ovest del cimitero italiano di quella stessa località, intitolato al maggiore Guido Alessi del 39° Bologna (47° divisione), caduto proprio quello stesso 19 giugno in quei luoghi alla testa della compagnia di cui era vicecomandante e decorato con la medaglia d'oro alla memoria; poiché però al momento della dismissione del cimitero molti resti umani nel trasbordo alle nuove destinazioni andarono perduti o rimasero non identificati, tra cui le spoglie mortali dello sfortunato generale, tutto questo, unito alle originarie incertezze sulla sua identità, sarebbe bastato agli Alti Comandi austro-ungarici per negarne la morte e comunque non mettere il suo nome nel Museo delle Targhe d'Oro, considerandolo semplicemente disperso a causa di  una sorta di sua confusione mentale sopravvenuta, attestata a loro dire dalla sua imprudenza ed eccessiva temerarietà per essersi spinto così avanti oltre le linee nemiche senza adeguata protezione!
(V. http://www.battagliadelsolstizio.it/2017/10/19/la-cattura-del-maggiore-generale-enrico-bolzano-von-kronstadt/).


La mappa con la zona d'operazioni del XXVII° reparto d'assalto






La situazione per gli austro-ungarici stava rapidamente cambiando in peggio.
Così la descrive la loro Relazione Ufficiale, in relazione agli accadimenti del 19 giugno:

"Mentre il Comando Supremo austro-ungarico voleva anzitutto rendersi conto degli sviluppi della situazione a ovest del Piave, senza però trasferire su quel fronte parte delle forze schierate nel Sud Tirolo, il Comando Supremo italiano tendeva ad assumere l'iniziativa delle operazioni per respingere il nemico sulla riva orientale del fiume. Ad Abano si giudicava imminente il giorno in cui l'avversario, dati gli avvenimenti sempre più sfavorevoli e l'impossibilità di rifornire i reparti oltre il corso impietoso del Piave, sarebbe rimasto senza riserve. Ed era proprio quello il momento atteso per passare alla controffensiva.
La decisione venne presa il 18 giugno. Gli italiani conoscevano ormai la situazione oltremodo difficile in cui le forze austro-ungariche penetrate oltre il Piave erano venute a trovarsi, nonostante i guadagni territoriali del giorno 17. Essi ebbero una precisa conferma della diminuita capacità combattiva dei loro avversari dai sempre maggiori successi ottenuti dai proprio contrattacchi. Gli aerei avevano inoltre segnalato i danni arrecati ai ponti dalla piena del fiume, dai bombardamenti e dal fuoco dell'artiglieria.
Le nostre truppe operanti a ovest del Piave erano ormai come chiuse in una morsa, costrette a combattere tra il fuoco e l'acqua. E, per sfruttare l'occasione favorevole offerta dal destino, il Comando Supremo italiano decise di passare alla controffensiva il 19 giugno. Questa doveva essere svolta verso il Montello, per eliminare la penetrazione più pericolosa di tutto il fronte. Non si ritenne invece opportuno agire lungo il basso corso del Piave, perché la spinta nemica in quel settore sembrava ormai esaurita  e gli austro-ungarici sarebbero stati costretti a impegnare un numero considerevole  di divisioni soltanto per mantenere il possesso della testa di ponte fra San DOnà e Zenson. La riconquista di tutto il Montello avrebbe poi consentito di compiere una successiva azione, molto meno impegnativa, nell'intento di obbligare il nemico a cedere anche il terreno occupato fra il Piave e il Meolo".




IL FALLIMENTO DEL CONTRATTACCO SUL MONTELLO (19 GIUGNO)
Come correttamente rileva la relazione nemica, in effetti  il Comando Supremo aveva ben notato l'affievolimento della capacità combattiva del nemico, tanto da aver fatto affluire dalla riserva altre truppe in vista di un repentino contrattacco.

Il piano era apparentemente semplice ma ambizioso.
Due imponenti masse d'urto, una tratta dal XXX° C.A. (47° e 50° divisione) e l'altra dal XXII° (57° e 60°), con obiettivi rispettivamente Casa Serena e Nervesa, una volta annientata la resistenza nemica dovevano ricongiungersi sul saliente di Falzè e riconquistare l'intero Montello.
Il compito di riconquistare Nervesa era affidato alle due brigate della 60° divisione del Maggior Generale Pietro Mozzoni (Piemonte, 3° e 4° reggimento, e Porto Maurizio, 253° e 254°), che dovevano appoggiare più a est i quattro battaglioni del Colonnello Ruocco (I°/112° Piacenza, I°/68° e I° e II°/68° Palermo), praticamente ciò che restava degli effettivi della 48° di Cattaneo (VIII° C.A. di Gandolfo).


(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/en/history/pagine/riconquista-montello.aspx)





Nonostante l'ottimismo ostentato dal generale Pennella ("Per questa sera avremo 20.000 prigionieri", avrebbe riferito lo storico Gianni Baj-Macario, allora colonnello allo Stato Maggiore, fedelissimo di Badoglio), la controffensiva, partita puntualmente alle 13,00, sarebbe però fallita a sera fatta sotto le mitragliatrici e i cannoni della 41° Honved.
La Relazione Ufficiale italiana non sarebbe stata tenera con il Comando dell'VIII° armata, quindi con Pennella, rilevando che sin dall'inizio dell'offensiva del 19 giugno

"(...) era del tutto mancato il tempo necessario ad un orientamento sul terreno e ad una presa di contatto coi reparti già schierati, con gravi conseguenze ed errori nell'individuazione di località e posizioni".

La spinta propulsiva del XXX° C.A. infatti, inizialmente vittoriosa con la manovra avvolgente della 47° divisione italiana di Gualtieri (73° e 74° Lombardia e 40° Bologna) sulle strade nn. 11 e 12 nel settore tenuto dal 3° reggimento "Erzherzog Karl", venne ben presto fermata e poi respinta da Goiginger facendo affluire in zona il 44° "Erzherzog Albrecht", che riuscì a fermare prima ed a respingere definitivamente poi  proprio a Casa Serena l'arrembante brigata Lombardia, purtroppo sin dall'inizio poco e male assistita dall'artiglieria tuttora in via di rischieramento, tanto che nel vano assalto finale allo strategico caposaldo nemico, condotto alle 20.00 della sera dal 40° Bologna e dal 73° Lombardia, tutti i reparti di punta venivano letteralmente fatti a pezzi e addirittura il battaglione di testa del 73° perdeva il comandante e quasi tutti gli ufficiali, oltre che gran parte degli uomini di truppa.

Di fronte a questo grave insuccesso, ben poco contava che la 50° divisione di Fabbrini (95° e 96° Udine e 39° Bologna), sanguinosamente impastoiata in durissimi confronti anche corpo a corpo contro gli ussari Honved tra Casa Marseille e Giavera sulle carrarecce 5, 6, 7, 8, 9 e 10, riuscisse invece a raggiungere dopo una durissima battaglia lunga oltre due ore svoltasi lungo la contesissima strada n. 5 il caposaldo nemico di Casa Del Faveri, dopo aver oltrepassato la Busa delle Rane.



Soldati italiani sul Montello durante la battaglia del Solstizio


La Relazione Ufficiale italiana, relativamente alle operazioni messe in atto dal XXX° C.A., avrebbe scritto che

"(...) per un complesso di circostanze, talvolta fortuite, ma più obiettivamente a causa di carenze organizzative e di errori esecutivi, tutti gli attacchi si erano frantumati in una serie di azioni slegate".

Anche un successivo sfondamento italiano da parte del XXII° C.A. avvenuto alle 15,00 del pomeriggio per opera della fremente 57° divisione al comando del Maggior Generale Angelo Magliulo (29° e 30° Pisa, 113° e 114° Mantova) nel settore tenuto dall'ala destra della 31° nemica, alla confluenza tra i sottosettori del Gruppo Heinlein e del 69° fanteria, in avanzamento lungo le strade nn. 4, 3, 2 e 1 venne fermato grazie al soccorso del 32° "Kaiserin Maria Theresia", che impedì così agli italiani di proseguire oltre, anche se il contemporaneo arretramento dell'ala orientale della 13° Schutzen sotto la spinta italiana in direzione di Sovilla e della cosiddetta "linea della corda" (ex seconda linea difensiva italiana) verso il Piave consentiva alla Pisa (ala destra della 57°) alle 16,00 di congiungersi di fatto con la 50° divisione di Mozzoni più o meno all'altezza di Collesel della Madonna, e qui di saldarsi sulla destra, presso la presa n. 3, con la brigata sorella Mantova.
Anche in questo caso però il prontissimo intervento del 1° Kaiserschutzen, del 14° "Grossherzog von Hessen und bei Rehin" e del II°/139° (17° divisione) proprio nel punto di giunzione tra la 57° e la 60° italiane fermarono l'impeto delle truppe di Vaccari, assai inferiori in quel punto nel numero, costringendole a retrocedere sino al quadrivio di San Mauro, dove però il nemico venne sanguinosamente fermato.

Più a est le cose per la 60° divisione erano andate sin da subito piuttosto male: essa doveva avanzare su due colonne, una fiancheggiante di sinistra formata dai due reggimenti della Porto Maurizio, e una di destra coi due della Piemonte, col compito principale di ricongiungersi con le truppe della Piacenza e riconquistare Nervesa.
L
a marcia di entrambe le colonne era stata resa però assai difficoltosa dall'errata scelta dei sentieri di avvicinamento, tanto che da parte di Mozzoni si era chiesto di posticiparne l'azione: nonostante il rifiuto opposto da Pennella, tutto questo aveva comunque causato in partenza un ritardo sulla tabella prevista dell'inizio dell'attacco, iniziato solo alle 15,45, cui si andarono ovviamente a sommare le perdite di tempo dovute alla difficoltà di muoversi in condizioni così precarie.

Se però bene o male poco prima della sera il 253° ed il 254° reggimento della brigata Porto Maurizio erano finalmente giunti sulle posizioni previste, cioè Case Pozzobon, Orazio e Vedelago, poco a sud del curvone della ferrovia, altrettanto non si poteva dire per la colonna composta dalla Piemonte: solo due suoi battaglioni, il I°/3° ed il II°/4°, giungevano infatti in tempo utile nel settore di Nervesa, dove però nel frattempo l'eroico Gruppo Ruocco era sottoposto ad un'enorme pressione da parte del nemico.
Nella confusissima mischia venutasi a creare in quel disgraziato settore i sei  battaglioni, i due della Piemonte ed i quattro di Ruocco, erano alla fine costretti a sgomberare sotto la fortissima pressione degli ungheresi ed a retrocedere sino a Rotonda Bidasio, rischiando la perdita anche di quest'ultima località.
Gandolfo, pienamente consapevole che dopo sei giorni di durissimi combattimenti la sua 48° divisione era ormai in ginocchio, era costretto a chiedere a Pennella aiuto, che però arrivava solo alle 18,00, quando il resto della brigata Piemonte interveniva in soccorso sulla destra con altri brandelli della Piacenza, appena in tempo per respingere il nemico sulla linea Casa Bidasio-Casa Breda.
Un salvataggio miracoloso, dovuto solo al grande carisma del Tenente Generale Vaccari, capace di galvanizzare quei soldati e mandarli all'attacco senza più incertezze dopo essersi recato in prima linea con tutto il suo stato maggiore ed essere trasecolato nel vedere sfilare personalmente davanti a lui all'improvviso ben due battaglioni procedere con estrema lentezza ammassati come pecore in un solo, lungo e stretto camminamento!


Artiglieria austriaca vicino al Piave
(Fonte: https://www.panorama.it/cultura/grande-guerra-100-anni-fa-la-battaglia-del-solstizio-storia-e-foto/#gallery-0=slide-15)



Nonostante l'arrivo della brigata Piemonte al completo si creava tuttavia nei pressi di Nervesa un caos inenarrabile.
Nella fluidità di linee ormai intasate di reparti italiani e austro-ungarici, con i primi composti in maniera indistinta di uomini della 48° e della 60° divisione, gli uni dell'VIII° e gli altri del XXII° C.A., Vaccari chiedeva disperatamente a Pennella verso le 18,30 di passare la Piacenza, ormai identificabile col solo Gruppo Ruocco, alle dipendenze della 60° divisione, per coordinare meglio le operazioni sul campo, ma senza risultato.
Forse anche per questo i ripetuti contrassalti italiani, che pure inizialmente sembravano ottenere qualche risultato, venivano definitivamente stroncati dalla fortissima resistenza della 41° Honved, anche se gli italiani sarebbero riusciti non si sa come a riprendere di nuovo la strategica Villa Berti, pur subendo perdite pesantissime, dovute soprattutto al tremendo fuoco d'artiglieria del nemico.
Nonostante il parere contrario del solito Pennella (non nuovo a certe valutazioni sbagliate) secondo molte testimonianze dirette l'artiglieria nemica raggiunse in quei momenti un'efficacia ed una precisione mai più viste in seguito, tanto da radere letteralmente al suolo quella strategica posizione.
Non per niente la stessa Relazione austriaca avrebbe scritto con compiacimento:

"I tiri d'infilata del II° C.A. contribuirono in modo considerevole a questo brillante successo difensivo".



Villa Berti distrutta


Così, dopo aver toccato lo zenit tra le 17,00 e le 19,00 della sera del 19 la violenza del confronto cominciava rapidamente a diminuire, fino alla cessazione del combattimenti intorno alle 22,00, anche se fin dalle 17,30 Pennella informava il Comando Supremo di aver dato ordini ai suoi comandanti per ripristinare le linee nei punti più a rischio ove erano presenti discontinuità dello schieramento al fine di evitare infiltrazioni nemiche: 

"(...) una forma eufemistica per dire che era finita, e senza esito, la grande offensiva intrapresa il giorno 19 con il proposito, forse troppo ambizioso, di ricacciare il nemico oltre il Piave" 

avrebbe notato acidamente la Relazione Ufficiale italiana.

Esasperato dall'insuccesso e probabilmente dal peso di tre giorni e tre notti insonni passate coi nervi a fior di pelle a muovere divisioni su divisioni per tappare tutte le falle che continuavano ad aprirsi nel suo settore, Giuseppe Pennella sarebbe clamorosamente sbottato davanti a Diaz quando il Generalissimo andò a trovarlo, quel giorno stesso, al suo comando di Villa Corner di Cavasagra (TV), allora Villa Forva,  alla presenza del suo Capo di Stato Maggiore, il Maggior Generale Luigi Cicconetti, e del Cappellano dell'armata, Don Giovanni Minozzi (amicissimo del famoso padre barnabita Giovanni Semeria, consigliere spirituale di Cadorna, con cui aveva fondato la rete assistenziale delle "Case del soldato"),  che ne avrebbe parlato nelle sue memorie.

Francesco Baracca col suo SPAD VII


LA MISTERIOSA MORTE DI FRANCESCO BARACCA
Ma il fallimento della seconda controffensiva su Nervesa non sarebbe stata l'unica notizia brutta di quel giorno.
Proprio su quei cieli il 19 giugno veniva infatti abbattuto Francesco Baraccamentre era impegnato nell'ennesima missione di mitragliamento a bassa quota di quella giornata, pare la quarta, stavolta sulle linee nemiche di Collesel Val dell'Acqua, il punto più alto del Montello (368 metri), a bordo del suo aereo di riserva, uno SPAD S. VII, che era stato costretto a utilizzare a causa dell'indisponibilità del fidato S. XIII, sottoposto a lavori di riparazione a causa del danneggiamento nelle precedenti sortite del rivestimento in tela delle ali e della fusoliera.








Precipitato in località Busa delle Rane, alle pendici del Montello, l'aereo, pare dopo essere stato avvistato dall'alto dal capitano Costantini, col quale Baracca aveva affrontato l'ultima missione, sarebbe stato ritrovato solo quattro giorni dopo da due altri colleghi, il capitano Osnago e il tenente Ranza, recatisi sul posto assieme a un giornalista, Raffaele Garinei del Secolo di Milano: a pochi metri dal velivolo, quasi completamente bruciato, il corpo del giovane ufficiale era invece pressoché integro salva qualche bruciacchiatura, con solo un forellino sotto l'incavo dell'occhio destro, all'altezza della radice del naso.
A prima vista più una lesione da impatto che da arma da fuoco.




Ancora adesso non si sa bene come sia morto, se colpito dalle due raffiche della Schwarzlose esplose dall'osservatore Arnold Barwig di un ricognitore austriaco Phoenix C. I pilotato da Max Kauer (della squadriglia FliK 28 D, da ricognizione e osservazione per l'artiglieria), come affermarono con sicurezza i due, oppure da fuoco da terra (si parlò di un cecchino appostato su un campanile), o suicida per evitare di morire bruciato (la fondina della pistola era vuota, con l'arma andata probabilmente distrutta nell'incendio) o infine, come sostenuto in un saggio recente da Stefano Gambarotto  e Renato Callegari, a seguito del violento urto della fronte contro lo stretto abitacolo del velivolo quando questo toccò il suolo, con l'uomo comunque in grado di uscirne fuori e fare qualche passo (v. http://www.istrit.org/pubblicazioni/GrandeGuerra/Baracca.html: v. anche https://www.guerra-allorizzonte.it/piloti/indagini.html).


Krauer e Barwig davanti al loro aereo Phoenix C.I
(Fonte: Archivio R. Gentili- Rif. Storia Militare, Cieli del Montello 1918 di Paolo Varriale)







La notizia prostrò un intero Popolo, che per quattro giorni, confortato dalle stesse parole del Re, che si era dichiarato convinto che l'eroico ufficiale si fosse salvato e stesse cercando di rientrare entro le linee italiane, aveva sperato e pregato per la sua vita.
Sul posto dove fu rinvenuta la carcassa bruciata dell'aereo campeggia ora un Monumento in sua memoria.

Orazione funebre per Francesco Baracca tenuta da Gabriele D'Annunzio
(foto di Raffaele Garinei, Museo Baracca di Lugo)








Alle esequie, celebrate in pompa magna il 26 giugno 1918 davanti a una folla immensa di civili e militari a Quinto di Treviso, dove la squadriglia aveva base, l'elegia funebre sarebbe stata tenuta dal famosissimo Gabriele D'Annunzio.

Il famoso stemma di Francesco Baracca, il Cavallino rampante, sarebbe stato donato in occasione di una corsa al Circuito del Savio nel 1923 dalla madre del pilota, la contessa Paolina Biancoli, ad un giovanissimo Enzo Ferrari, che come sappiamo tutti ne avrebbe fatto, su uno sfondo giallo canarino che è il colore di Modena, l'emblema della sua casa di corse.
Lo stesso stemma sarebbe stato usato dalle moto Ducati all'epoca del progettista lughese Fabio Taglioni, ed è tuttora apposto sulle derive degli Eurofighter del 4° stormo dell'Aeronautica Militare di Grosseto, tra le cui squadriglie fondanti nel 1931 vi era anche la 91°.

(Upgrade del 19.06.2020: per un post più approfondito sul tema v. http://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2020/06/ila-misteriosa-morte-di-francesco.html#more)


Postazioni di mitragliatrici St. Etienne sull'argine del Piave
(fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/la-battaglia-del-solstizio.aspx)



10. IL MIRACOLO DEL PIAVE


Casello ferroviario di Nervesa, ore 10,00 del 24 giugno 1918
(fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/la-battaglia-del-solstizio.aspx)


Poteva sembrare un doloroso segno del Destino, ma  proprio in quei giorni si stava concretizzando invece IL MIRACOLO.
Nonostante fosse ormai estate, il Piave, enormemente ingrossatosi grazie alla pioggia copiosa di quei giorni e tornato a ruggire, impediva ormai totalmente agli austro-ungarici di sfruttare i successi conseguiti con estrema fatica fino a quel momento, e tutto questo proprio quando ormai andavano dispiegandosi completamente in prima linea per intero anche sul Montello tutte le nuove divisioni inviate a spizzichi e bocconi sin dal 19 giugno, la 47° (brigate Lombardia e Bologna), la 57° (brigate Pisa e Mantova), la 60° (Piemonte e Porto Maurizio), che si univano alle esauste 13° (Palermo e Barletta), 50° (Udine e Aosta), 48° (Tevere e L'Aquila) e 51° (Reggio e Campania) impegnate da giorni nella disperata difesa del settore di Nervesa (che in seguito sarebbe stata denominata Nervesa della Battaglia).



SUL MONTELLO GLI ULTIMI ATTACCHI NEMICI FALLISCONO 
Nonostante il fallimento della controffensiva italiana del 19 giugno sul Montello, le truppe di Goiginger erano comunque uscite molto provate da quell'ennesimo sforzo: i battaglioni della 31° divisione disponevano in media di 250 uomini in grado di combattere e addirittura uno della 24° brigata aveva solo 105 fucilieri ancora abili.
Così, quando giovedì 20 giugno la più fresca 41° Honved e le altre tre divisioni di Goiginger alle 01,30 di notte (in condizioni pessime, con la 64° Honved ridotta a 1.600 uomini e la 70° Honved con un battaglione addirittura comandato da un sottotenente di prima nomina!) tentarono il tutto per tutto con un imponente assalto in massa focalizzato sul settore di Candelù sarebbero sì riuscite intorno a mezzogiorno, dopo ore di lotta, a far retrocedere nuovamente il 111° Piacenza di Ruocco, all'estrema destra dello schieramento italiano, sulla linea di partenza Piavesella-Rotonda Bidasio-Casa Breda, ma non sarebbero più andate oltre, così come senza risultato sarebbero risultati i tentativi di forzare le difese italiane nello strategico settore di San Biagio di Callalta, dove anzi la 37° e la 25° divisione italiane (agli ordini del XXVIII° C.A.) alle 02,00 del giorno 20 avrebbero addirittura preso l'iniziativa, la prima contro la linea Villanova-Casa Martini-Casa Ninni, la seconda con obiettivo lo Scalo Palombo sino a Casa Gasparinetti, dove si sarebbe dovuta riunire col 231° Avellino.
Quella temeraria azione notturna avrebbe colto completamente di sorpresa il nemico, ingannato dal fatto che contrariamente ai canoni soliti non c'era stato alcun bombardamento preparatorio di artiglieria, ma sarebbe riuscita solo per la parte affidata alla 37° divisione (brigate Macerata e Foggia), con la ripresa di Villanova, Casa Pavan, Casa Martini, Casa Ninni e Casa Florian.
La Macerata (entrata in azione peraltro in ritardo, solo alle 05,00) e la Foggia, coadiuvate anche dall'80° Roma della 22° divisione di Chiossi (mossosi a sua volta tardi, dovendo seguire la Macerata), dopo aver respinto a Casa Ninni un disperato contrattacco della 29° Honved nemica sarebbero riuscite addirittura a penetrare in profondità nel settore di congiunzione tra le altre due divisioni ungheresi, la 24° K.u.K. e la 9° K.u.K. di cavalleria, costringendo in particolare la prima ad una precipitosa ritirata per evitare l'annientamento, tanto che gran parte dell'87° brigata Schutzen, sorpresa a presidiare da sola l'adiacente bosco, sarebbe finita travolta al termine di un caoticissimo combattimento.


Fanti di marina attraversano il Piave nel giugno 1918








SI CHIUDE LA PARTITA ANCHE SUL BASSO PIAVE 
Anche sul Basso Piave, tra Capo d'Argine e Fossalta, ormai era una vera e propria per la sopravvivenza tra italiani e austro-ungarici, ma l'impeto nemico era ogni ora che passava sempre minore.
A farsi onore erano ancora le truppe della 33° divisione di Sanna, la gloriosissima Sassari, la sorella Bisagno (in particolare il II° battaglione del 209° reggimento) ed il IX° battaglione ciclisti, che da oltre 24 ore stavano reggendo da sole ai ripetuti attacchi del solito 15° Schutzen e dal 32° "Kaiserin Maria Theresia" a Villa Prina presso Capo d'Argine.
Le cose sarebbero però cambiate a
l termine del quinto e ultimo attacco nemico, condotto dagli Schutzen.
In corrispondenza col crollo delle truppe di Goiginger sul Montello gli italiani passarono improvvisamente al contrattacco, grazie al sopravvenire in loro soccorso della più fresca 4° divisione del Generale Viora, intervenuta alle 13,00 su ordine diretto di Petitti di Roreto con la brigata Torino (81° e 82°) ed il II° battaglione bersaglieri ciclisti.


Le rovine di Fossalta di Piave sotto i colpi dell'artiglieria austro-ungarica
(Fonte: https://www.panorama.it/cultura/grande-guerra-100-anni-fa-la-battaglia-del-solstizio-storia-e-foto/#gallery-0=slide-9)


Appoggiati anche da reparti di fanteria del Reggimento Marina, gli italiani si scagliarono violentemente in direzione della Casa Rossa, presso Jesolo, preceduti stavolta da un poderoso fuoco d'artiglieria, magistralmente condotto dal Maggior Generale Umberto Fadini, annientando completamente la 1° divisione di cavalleria appiedata di von Habermann a Cavazuccherina e Cortellazzo.
L'intero 12° reggimento Ussari, un reparto d'élite dalle tradizioni ultrasecolari, venne completamente spazzato via, con la perdita di tutti i suoi otto squadroni: molti uomini vennero presi prigionieri, tantissimi caddero, la maggior parte si sbandò, con un effetto pesantissimo sul morale degli austro-ungarici, rimasti stravolti dalla fine di quel reggimento sceltissimo!
Il bollettino n. 1.123 del 21 giugno avrebbe citato la Sassari (che avrebbe avuto la perdita di ben 47 ufficiali e 1.019 uomini di truppa!), il II°/209° Bisagno e il IX° battaglione bersaglieri ciclisti per i combattimenti di Villa Prina.

Artiglieria italiana di grosso calibro sul Basso Piave (forse del reggimento artiglieria della Regia Marina)








BOROEVIC ORDINA IL RIPIEGAMENTO SULLA RIVA SINISTRA 
Ormai l'offensiva nemica era completamente sgominata, anche se apparentemente continuava indefessamente, sostenuta da un continuo ed assordante fuoco d'artiglieria, ben contrastato a sua volta da quello italiano.
L
e numerose infiltrazioni austro-ungariche in particolare nel settore tra Molino Nuovo e Casa Martini controllato dalla 37° divisione, la cui azione prevista sin dall'alba del 21 con obiettivi Casa Verduri, Casa Brisotto ed il Trivio Ninni era stata annullata per consentire il riassestamento dell'intero dispositivo italiano, non avrebbero in effetti avuto altro obiettivo che quello di nascondere la ritirata delle truppe di Boroevic.
Dopo aver constatato che nessun successo avevano avuto i ripetuti tentativi di far affluire nuove truppe sulla riva destra del Piave, che anzi si erano risolti tutti in un clamoroso fallimento, costato ben 5.000 morti annegati, Boroevic sarebbe stato infatti costretto sin dalle 19,16 del 20 giugno a ordinare a von Wurm di ritirare tutte le sue divisioni di qua dal fiume sulla riva opposta e attestarvisi a difesa, per evitare che si ritrovassero isolate e fossero fatte a pezzi, come già stava di fatto avvenendo per opera delle nostre artiglierie, che avevano avuto ordine di effettuare un pesantissimo fuoco di sbarramento su di loro per impedirne un'ulteriore avanzata.


Il difficile approvigionamento nemico nelle zone del Piave allagate dagli italiani
(Fonte: https://www.panorama.it/cultura/grande-guerra-100-anni-fa-la-battaglia-del-solstizio-storia-e-foto/#gallery-0=slide-4)


L'ordine era di procedere con estrema cautela, mantenendo il segreto coi reparti dipendenti e facendo credere solo a movimenti di riassestamento e turnazione di truppe, al fine di non indurre gli italiani ad un disastroso contrattacco generale che potesse cogliere l'Isonzo-Armee nel bel mezzo del ripiegamento: artiglieria e carriaggi avrebbero passato il Piave nella notte tra il 21 e il 22, il IV° ArmeeKorps tutto insieme, il XXIII° ed il VII° in tempi differenti e suddivisi in due scaglioni, con l'azione che doveva terminare entro il 24 giugno.
Armando Diaz il 21 giugno avrebbe scritto (Alessia Biasiolo, in https://wsimag.com/it/economia-e-politica/38005-la-linea-del-piave-e-la-battaglia-del-solstizio):

"(...) La battaglia per ora sosta, ridotta ad azioni locali (...) La nostra compagine è salda, come sicura è in noi la coscienza del nostro diritto e della santità della causa che noi difendiamo".




Dopo che il 22 giugno ancora la Sassari e la Bisagno sempre nei pressi di Villa Prina, tra Case Gradenigo e lo Scolo Corregio, col supporto anche del battaglione di legionari cecoslovacchi schierato a Fossalta di Piave presso Fosso Gorgazzo, avevano avuto nuovi durissimi scontri col 15° Schutzen, chiamato senza ancora saperlo a proteggere il ripiegamento della 57° e della 46° divisione, alle 11,55 del 23 giugno il comando della III° armata, ormai resosi conto del ripiegamento del nemico, avrebbe ordinato a tutte le sue truppe di "raggiungere la riva del Piave".


Legionari cecoslovacchi nell'attraversamento di un ponte
(Fonte: https://www.buongiornoslovacchia.sk/index.php/archives/24890)


IL MONTELLO RICONQUISTATO NON EVITA IL DEFENESTRAMENTO DI PENNELLA


Giuseppe Pennella
(Rionero in Vulture, PT, 8/8/1864-
Firenze, 15/9/1925)
Anche sul fronte dell'VIII° armata alle 08,15 di quello stesso giorno il comando del XXX° C.A. (Montanari) aveva comunicato a Pennella che un soldato nemico fatto prigioniero riferiva di come le truppe austro-ungariche fossero ormai in pieno ripiegamento.
Pennella cadde letteralmente dal pero, non ritenendo assolutamente credibile questa informazione: per lui un ritiro del nemico, tuttora così combattivo, era assolutamente insensato.
Come fa notare il Colloredo Mels era d'altronde lo stesso pensiero del suo avversario diretto Goiginger, per il quale la conquista di fatto di gran parte del Montello costituiva comunque un successo tattico importante, per quanto ben inferiore a quello strategico vagheggiato all'inizio dell'offensiva, e che non poteva non essere capitalizzato in qualche modo, mantenendo almeno le sue truppe in quel settore.

Di Giorgio comandante del XXVII° CA. aveva già ordinato di sua iniziativa alla 51° divisione di mandare in avanscoperta nuclei di arditi per verificare se veramente le linee difensive contrapposte fossero ormai deserte o in via di sgombero, ordinando a quella divisione di prepararsi ad avanzare rapidamente nel settore di Collesel della Zotta e Casa Serena, ma alle 08,45 il comandante dell'VIII° armata, timoroso di un tranello del nemico, pur autorizzando le ricognizioni degli arditi l'aveva gelato con un ordine chiarissimo: 

"Non si faccia alcun movimento in avanti, anzi bisogna che la linea della nostra occupazione si tenga salda e connessa pronta eventualmente ad una resistenza ostinata. I vari comandi provvedano al da farsi nel caso la notizia sia confermata, ma non hanno facoltà di allontanarsi menomamente da queste mie direttive".

A partire da quel momento, nel breve volgere di poche ore, Pennella avrebbe però cambiato più volte orientamento tattico.
Un'ora più tardi, avute conferme sul ripiegamento nemico, avrebbe autorizzato l'avanzata di reparti più consistenti in rinforzo delle pattuglie già in avanscoperta, poi alle 10,30 avrebbe ordinato che dopo una forte preparazione di artiglieria la 51° avanzasse fino alla linea Casa Serena-Collesel della Madonna-Sovilla-Nervesa, che fu in effetti raggiunta senza praticamente opposizione un'ora più tardi.

Finiva così il sogno austro-ungarico dello sfondamento sul Montello e, di conseguenza, di ottenere la vittoria "decisiva".

A quel punto, ormai ringalluzzitosi, Pennella pensò che lo sgombero nemico si sarebbe concluso addirittura in serata, tanto da ordinare di punto in bianco un'avanzata di nuclei d'arditi, mitraglieri e cavalleria sulla riva opposta del Piave.
Alle 18,45, raggiunta la riva del Piave, comunicò a Diaz in maniera magniloquente:


"Il Montello est completamente riconquistato stop. Le valorose truppe di quest'Armata sono già lungo la riva del Piave stop. Esse vanno riordinandosi e rioccupano prime linee della Corda oltre ai reparti lasciati a presidio della linea di Corpo d'Armata stop. Ho disposto che nella sera, appena possibile, il Piave venga passato da cavalleria, nuclei arditi, mitragliatrici e altri nuclei solidi per produrre scompiglio sulla sinistra del fiume, catturare prigionieri ed artiglierie stop. Saranno costituite piccole teste di ponte stop. Si sta procedendo al rastrellamento dei prigionieri cui numero est segnalato superiore a mille stop."

Per supportare questo intendimento offensivo Pennella chiese contemporaneamente al Comando pontieri e barche per il traghettamento, ma subito dopo, forse spaventato da cotanta audacia, cominciò a ripensarci, anche perché nuove informazioni giunte al suo comando riferivano che comunque il nemico era saldamente appostato sulla riva sinistra e per nulla disposto a mollare anche quella, così già un'ora dopo arrivò il contrordine.


(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/en/history/pagine/riconquista-montello.aspx)




Dopo il fallito contrattacco del 16 giugno, sostanzialmente abortito nella confusione più assoluta che aveva fatto temere persino a un certo punto il disastro, dopo il nuovo fallimento del 19, dopo l'errore primigenio di non aver tenuto in alcun conto le parole di Badoglio, quando quest'ultimo l'aveva preavvisato sin dalla immediata vigilia dell'imminente attacco in massa austro-ungarico, tanto da non aver neppure annullato l'ordine di procedere all'avvicendamento tra le due brigate Tevere e Lucca previsto proprio in quel momento, era veramente troppo, la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Esasperato dalle sue continue indecisioni tattiche Diaz, che non aveva assolutamente dimenticato nemmeno il suo improvvido sfogo proprio davanti a lui del 19 giugno, proprio quel 23 giugno avrebbe finalmente firmato il provvedimento con cui destituiva Pennella dal comando, mettendo al suo posto il parigrado Enrico Caviglia.

La Relazione Ufficiale italiana avrebbe bollato l'azione di Pennella di "impazienza-non disgiunta certo da nevrosi", tale per cui "non aveva una valutazione sempre esatta del calcolo delle distanze, dei tempi e delle difficoltà che le truppe dovevano superare", sostanzialmente accusandolo di inadeguatezza umana, tattica e caratteriale.
Pennella se la sarebbe presa moltissimo, ed anche se solo quindici giorni dopo gli sarebbe stato comunque affidato il comando del XII° corpo assegnato alla VI° armata di Montuori, con cui avrebbe partecipato al trionfo finale di Vittorio Veneto, quel tarlo gli avrebbe sempre roso l'esistenza, tanto da cercare disperatamente fino alla morte, avvenuta forse non a caso a soli 61 anni nel 1925, di ottenere giustizia, con la pubblicazione di memoriali e la richiesta formale di commissioni indipendenti d'inchiesta, senza mai ottenere completa soddisfazione.
(Sulla vicenda di Pennella v. anche https://www.corriereditalia.de/cultura/il-generale-giuseppe-pennella-un-protagonista-dimenticato-della-grande-guerra/).

Traggo sempre dal Colloredo Mels che dal 15 al 28 giugno l'VIII° armata avrebbe avuto tra gli ufficiali 96 morti, 300 feriti e 362 dispersi, tra i sottufficiali e gli uomini di truppa 1.714 morti, 7.634 feriti e 13.103 dispersi (gran parte dei quali catturati), per un totale di 23.209 perdite, contro un totale di 17.179 del XXIV° Armeekorps, (1.751 caduti, 9.551 feriti e 5.477 dispersi).
Gli austriaci avrebbero anche avuto 3.691 ammalati, la maggior parte di spagnola che cominciava ormai a diffondersi, un dato che non è presente invece per gli italiani.

Nervesa riconquistata
(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/riconquista-montello.aspx)


GLI ULTIMI SCONTRI SUL BASSO PIAVE
Mentre sin dal pomeriggio gli italiani riprendevano quindi quasi per forza d'inerzia le fin allora contesissime Fagarè e Nervesa, scontri finali durissimi si ebbero tra il 23 e il 24 giugno nell'ansa del Piave all'altezza di Chiesanuova tra le truppe del XXIII° C.A. di Petitti di Roreto e gli Schutzen della 10° divisione imperiale impegnati nel trasbordo sulla riva sinistra: provenienti da Case Gradenigo e dal Canale Mille Pertiche gli arditi del XXIII° reparto d'assalto, i fanti del 225° Arezzo e del 222° Jonio, insieme coi fanti di marina del battaglione Caorle, presa Musile, le località di Paludello e la Castaldia, irruppero all'improvviso in pieno pomeriggio sui reparti nemici impegnati nel pieno dell'attraversamento su improvvisati ponti di barche, e dopo aver causato migliaia di morti, soprattutto per annegamento, alle 16,30 del 24 giugno li costrinsero alla resa, prendendo almeno 1.000 prigionieri, reimpossessandosi così anche della testa di ponte di Capo Sile, addirittura migliorando le posizioni di partenza rispetto all'inizio dell'Operazione Albrecht.
Il trionfo ormai era pressoché completo.
E il Piave, da quel momento Fiume Sacro alla Patria, aveva dato il suo decisivo contributo.
La III° armata del Duca di Savoia-Aosta aveva riportato in totale tra il 15 e il 24 giugno un totale di 41.238 uomini fuori combattimento, l'Isonzo-Armee di 51.900, cui erano da aggiungersi 6.700 ammalati.

IL BILANCIO FINALE
La battaglia era ormai vinta, sia pure ad un prezzo enorme.
Mancano cifre uniformi sul totale delle perdite, nelle stime di parte italiana e di parte austriaca: il solito Colloredo Mels riporta che gli italiani e i loro alleati dal Montello fino al mare avevano avuto in totale 6.111 morti, 27.653 feriti,  51.856 prigionieri e dispersi, per un totale di 85.620 perdite (tra cui un 22% di Arditi, 16% di fanteria, 7% di bombardieri, 6% di bersaglieri, 5% di mitraglieri, 3% di artiglieria e 2% del genio), mentre Wikipedia cita un altro autore, Spencer Tucker, che in World War 1: Encyclopedia, Vol. 1, pag. 919, parla di 87.181 perdite, di cui 8.396 morti, 30.603 feriti e 48.182 prigionieri.

Da parte austro-ungarica le perdite erano state però sicuramente superiori, dovendosi aggiungere ai ben 118.044 uomini fuori combattimento (11.645 morti, 80.852 feriti, 25.547 prigionieri), anche 24.058 ammalati, per un totale di 142.102 perdite.
Non è dato sapere quanti siano stati gli uomini persi per la febbre spagnola da parte italiana, non essendoci dati ufficiali al riguardo, ma è probabile che esse siano state comunque assai inferiori, visto lo stato in generale più in salute delle truppe di Diaz ed il vitto decisamente migliore.


Non si contarono le tante decorazioni individuali, moltissime soprattutto tra gli arditi, ma in particolare vennero decorati con l'Ordine Militare di Savoia comandanti della brigata Bari, Maggior Generale Benedetto Ruggieri, della Ravenna, Brigadiere Generale Vittorio Balbo Bertone di Sambuy, della Sesia, il parigrado Guido Fenoglio, della Basilicata, colonnello brigadiere Giorgio Boccacci, della Ferrara, il parigrado Ferdinando Spreafico, nonché i colonnelli Mario Mariotti, comandante del 92° Basilicata, Romolo Della Noce, del 37° Ravenna, Giuseppe Vitali del 47° Ferrara, Alessandro Pedemonti del gemello 48°, Domenico Mogno del 256° Veneto e il maggiore Achille Meneghini del 48°.
Tutte le unità sopra citate vennero menzionate, unitamente alla VI° brigata della 23° divisione bersaglieri (8° e 13° reggimento) ed a reparti francesi e inglesi, nel bollettino n. 1.120 del 18 giugno.
Vennero decorati con la medaglia d'oro alla memoria  l'aspirante ufficiale Giovanni Lipella del 139° Bari, irredento di Riva del Garda, caduto sull'Asolone sulla sua mitragliatrice, e i due capitani Giovanni Bocchieri e Costantino Crosa del 201° Sesia, caduti il primo a Breda di Piave alla testa della sua compagnia mitragliatrici, il secondo a Molino Vecchio, dopo quattro giorni di strenua difesa in un caposaldo di eccezionale rilievo.

Vennero invece citati ancora nel bollettino n. 1.123 del 21 giugno le brigate Pisa (29° e 30° reggimento), Aosta (5° e 6°), Mantova (113° e 114°), il 68° Palermo, il 215° Tevere e il 270° L'Aquila, unitamente al XXVI° ed al XXVII° reparto d'assalto, al LXXIX° battaglione zappatori, ed ai reggimenti di cavalleria 7° Lancieri di Milano e 10° Lancieri di Vittorio Emanuele II°.
Il bollettino n. 1.125 del 23 giugno avrebbe invece espressamente citato il 111° fanteria della brigata Piacenza, premiato anche con la medaglia di bronzo al Valore, "per il valoroso contegno tenuto nel corso della battaglia".
L'intera brigata sarebbe uscita dalla battaglia con la perdita di 33 ufficiali e 1.209 uomini di truppa.
Il 270° Aquila, fratello in armi del 111° Piacenza, sarebbe stato decorato anch'esso con la medaglia di bronzo al Valore militare, così come i due reggimenti di cavalleria.


Decorazione sul campo di un ardito
(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/riconquista-montello.aspx)



IL PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE III°
Il 26 giugno il Re Vittorio Emanuele III° dal Quartier Generale di Abano inviava all'esercito il seguente proclama (tratto da Pierluigi di Colloredo Melz, cit.):


"SOLDATI D'ITALIA!
Otto giorni di epica lotta, nella quale rifulse il valore, l'abnegazione  e la tenacia di voi tutti, vi hanno dato il premio della vittoria.

Dapprima, la nostra resistenza magnifica spezzò la violenza dell'assalto avversario e ne sconvolse i disegni ambiziosi; poi l'impeto irrefrenabile col quale in fraterna ed ardente gara con gli alleati e i marinai nostri passaste immediatamente alla riscossa, ricacciò il nemico al di là del fiume per noi inviolabile.

Così dal suo sforzo immane col quale sperava di soffocarci per sempre, il nemico non ha raccolto che le sue gravissime perdite. Questo è stato perché voi avete bene obbedito al comando della Patria che ha raddoppiato la vostra volontà di vincere.

SOLDATI D'ITALIA!
Il grande grido di giubilo e di ammirazione con cui l'Italia intera ha salutato la vostra vittoria vi attesta il fervore con cui l'Italia vi segue. La battaglia ora vinta è fulgido e sicuro auspicio per le ulteriori fortune che dovranno guidarci alla vittoria finale. Ad essa dobbiamo tendere con tutte le nostre forze e con tutto l'animo nostro; dobbiamo conseguirla per la memoria dei fratelli caduti e la liberazione dei fratelli oppressi; per la grandezza d'Italia e la vittoria della causa della civiltà per la quale combattiamo a fianco dei nostri alleati".

LE REAZIONI DEI VERTICI ITALIANI
Non c'era ancora in quel momento la piena contezza in Italia di ciò che era avvenuto.
Così Vittorio Emanuele Orlando scriveva a Diaz:

"Mi mancano elementi per valutare tutta la grandezza dell'avvenimento, e soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale nell'esercito nemico da rendere consigliabile non lasciargli prendere respiro. Mi affido completamente al senno di Vostra Eccellenza".

Diaz rispondeva così:

"Confermo che il risultato della battaglia, strategicamente difensivo ma audacemente offensivo nel campo tattico, si presenta come grande vittoria che ritengo debba avere larga ripercussione nel nemico. Sarebbe però, a mio convincimento, e come altre volte espressi, grave errore avanzare oltre il Piave con conseguente dannosa estensione nostro fronte, col grave ostacolo del fiume alle spalle; mentre la fonte di ogni nostro successo è stato l'opportuno schieramento e la concentrazione delle forze che ha consentito rapida ed efficientissima manovra. Oltre il Piave potrà operarsi, ove convenga, con piccole colonne volanti, allo scopo di disorganizzare il nemico. Tale concetto si armonizza pure con la situazione alla fronte nord, che non deve assolutamente sfuggire alla nostra vigile attenzione, per le minacce che possono addensarvisi e che importa ad ogni modo prevenire o parare (...) A noi occorre vincere la guerra ed evitare di farci trascinare ad operazioni che potrebbero compromettere tale scopo essenziale".

D'altronde, avrebbe rilevato lo stesso Emilio Faldella, militare e storico, autore di apprezzatissimi saggi di storia militare sulla Grande Guerra e lo sbarco di Sicilia, allora capitano e capo di Stato Maggiore del 1° gruppo alpino, le truppe impiegate nella battaglia erano stanche e le sole sei divisioni integre rimaste costituivano una troppo modesta massa di manovra da poter utilizzare, per conseguire comunque al massimo una modesta testa di ponte sul Piave che avrebbe richiesto per mantenerla un ulteriore notevole dispendio di forze, senza contare le artiglierie, che per lo sforzo difensivo erano state arretrate molto in profondità e avrebbero dovuto essere nuovamente spostate in avanti, il che avrebbe richiesto molti giorni di tempo, né potevano bastare per un compito del genere le truppe mobili di cavalleria o gli arditi, che potevano conquistare per breve tempo delle singole posizioni, non certo tenerle a lungo da sole, e a maggior ragione si sarebbe rischiato uno stillicidio di perdite tra loro e gli eventuali reparti dell'esercito mandati a consolidare quei modesti successi, a questo punto assolutamente ingiustificato.

Così, nonostante le numerose sollecitazioni politiche e dello stesso Generale francese Foch, Diaz resistette alla pur forte tentazione di passare a sua volta il Piave per porsi all'inseguimento del nemico.
Forti critiche, nemmeno tanto velate, sarebbero state rivolte all'indirizzo del Generalissimo, ma quella decisione si sarebbe rivelata la più opportuna da prendere in quel momento.
E i fatti l'avrebbero dimostrato, solo pochi mesi più tardi.



Manifesto di propaganda inneggiante alla difesa della linea del Piave durante la Battaglia del Solstizio

GLI AUSTRO-UNGARICI VOGLIONO ILLUDERSI, I TEDESCHI NO


Paul Ludwig Hans Anton
von Beneckendorff und Hindenburg
(Posen, 2/10/1847-
Gut Neudeck, 2/8/1934)
Nel campo opposto, per quanto da parte di Vienna ci si sforzasse di far credere a un grosso successo dell'Armeefacendo leva sui guadagni territoriali conseguiti (indubbi, ma limitati e fragili) e sul numero dei prigionieri italiani, praticamente doppio rispetto a quelli asburgici, la realtà dei numeri e dei fatti, per chi la volesse vedere veramente, era sotto gli occhi di tutti, ed  era una sola.
L'Austria-Ungheria aveva perso quella che ora, con un'espressione entrata nell'uso comune, si definirebbe "La madre di tutte le battaglie".


Il Feldmaresciallo Paul von Hindenburg, comandante supremo del Deutsches Heer, avrebbe scritto anni dopo:

"L'offensiva austro-ungarica in Italia, dopo i successi iniziali molto promettenti, era fallita (...) La sfortuna del nostro alleato era una disgrazia anche per noi".

Ancora più pessimista fu il Generale di Fanteria Erich Ludendorff, primo quartiermastro generale dello Stato Maggiore, che a sua volta avrebbe scritto:

"Per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta".

PAGA PER TUTTI FRANZ CONRAD VON HOTZENDORF
Il colpevole di tutto, il Cadorna di turno, venne subito trovato, e francamente in quel momento era difficile trovarne uno più indicato di lui.
Il 13 luglio Franz Conrad von Hotzendorf venne chiamato al cospetto dell'Imperatore a Eckartshau, e, dopo essere stato elevato al grado di Graf (Conte) e onorato del ruolo assolutamente onorifico di colonnello comandante della Guardia Reale (inesistente), fu sostituito al comando del Gruppo d'Armate del Tirolo dall'Arciduca Giuseppe di Asburgo-Lorena, promosso Feldmaresciallo.

11. GLI ULTIMI STRASCICHI DELLA BATTAGLIA

Nonostante la battaglia del Solstizio venga ritenuta formalmente finita alla data del 24 giugno 1918, si sarebbe combattuto ancora duramente almeno fino a metà luglio, più che altro per volontà degli italiani che volevano riconquistare i pochi capisaldi perduti, sia sul Piave che sul Grappa e persino sul Tonale (dove con un colpo di mano gli austro-ungarici proprio il 15 giugno si erano impadroniti del Corno Cavento, una contesissima vetta di ben 3.402 metri del gruppo dell'Adamello, nelle Alpi Retiche, ristrappandolo agli italiani esattamente un anno dopo averlo persa).

LA SECONDA BATTAGLIA DEI TRE MONTI (29-30 GIUGNO)
In particolare, come abbiamo visto fortissima fu la determinazione del Comando Supremo affinché si riprendessero i famosi Tre Monti sull'Altopiano di Asiago, il Valbella, il Col del Rosso e il Col d'Echele, che erano tornati in mano nemica nonostante il tentativo italiano di riprenderseli compiuto nella cosiddetta Prima battaglia dei Tre monti tra il 29 ed il 31 gennaio precedenti, prima offensiva italiana dopo Caporetto.
In quel momento Valbella, Col del Rosso ed Echele insieme con Cima Echar e Monte Melago costituivano una vera e propria enclave austro-ungarica incistata all'interno del dispositivo difensivo italiano, potenzialmente pericolosissima ancora per le nostre armi anche perché presidiata da alcune delle truppe migliori a disposizione del nemico, la 3° divisione da montagna Edelweiss, la 26° Schutzen, la 36° e la 53° fanteria, oltre che da elementi di altre due, la 18° e la 74°.
Per eliminare quel ridotto nemico, e anche per questioni di prestigio, utili a rimarcare plasticamente la vittoria italiana, alle 05,30 di mattina del 29 giugno fanterie e truppe d'assalto delle tre brigate Regina, Lecce e Taranto del XIII° C.A., dopo un'intensa opera di ricognizione, sarebbero avanzate in direzione di quei tre obiettivi, precedute da un intenso fuoco di preparazione dell'artiglieria: un battaglione del 9° Regina, insieme con una compagnia del 3° bersaglieri e due di legionari dell'aggregato 31° reggimento cecoslovacco in direzione del Valbella, due compagnie del 265° Lecce con nuclei di zappatori e arditi verso Melaghetto e altre due di entrambi i reggimenti 241° e 242° della Teramo contro l'Echele.




In quella che sarebbe passata alla Storia come la Seconda battaglia dei Tre monti il Valbella sarebbe stato conquistato di slancio dal 9° Regina e successivamente tenuto sotto il contrattacco nemico della 3° Edelweiss con l'aiuto determinante del sopravveniente 10°, mentre il Col del Rosso e l'Echele, dopo la caduta di Melaghetto sin dalle 10,00 del 29 giugno per opera del 265° Lecce, sarebbero stati strappati al nemico tra la sera del 29 il primo ed alle prime luci del 30 il secondo dagli uomini della Teramo, con l'aiuto delle fiamme cremisi del 3° bersaglieri.
Nonostante si continuasse a combattere ancora, al 2 luglio i tre monti erano ormai stabilmente in mano italiana, con un bilancio finale complessivo di 552 perdite nelle file italiane (tra cui 82 di soldati cecoslovacchi), e di 88 ufficiali e 1.935 uomini di truppa in quelle austro-ungariche, per lo più prigionieri, con in più la cattura di 8 cannoni da montagna, 82 mitragliatrici, 5 lanciafiamme, 4 lanciamine e persino 15 bombarde italiane a loro volta prese dagli austro-ungarici dopo l'Operazione Radetzky.


Cima Valbella dopo la riconquista
(Fonte: http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/battaglia-tre-monti.aspx)


SI AVANZA ANCHE SUL GRAPPA E SULL'ANSA DEL PIAVE
Una serie di azioni locali andate avanti per opera del IX° C.A. fino a metà luglio avrebbe consentito di riprendere e stabilizzare una serie di obiettivi a nord-ovest del Monte Grappa, dal fondo della Val San Lorenzo fino alle Rocce Anzini, ai confini con la Val Brenta, consentendo così di ripristinare una linea continua di difesa, mentre contemporaneamente sul fronte della III° armata le truppe del XXIII° C.A. di Petitti di Roreto lanciavano una serie di offensive ancora più ambiziose da Intestadura fino alla foce del Piave per ricacciare ancora più indietro le forze di Boroevic, teoricamente ancora in grado di bombardare e attaccare Venezia, con lo scopo di allontanarle definitivamente da lì.




Umberto Fadini
(Crema, 19/11/1862- Cavazuccherina, 8/7/1918)
Proprio nel corso di queste operazioni offensive sarebbe caduto anche il Maggior Generale Umberto Fadini, comandante dell'artiglieria del XXIII° C.A., instancabile animatore del fuoco d'interdizione sulle linee nemiche del Basso Piave per tutto il corso della battaglia del Solstizio  e per i giorni immediatamente successivi, morto l'8 luglio a seguito delle gravissime ferite riportate il giorno precedente quando la sua macchina impegnata in un ennesimo giro d'ispezione sulla riva destra del Piave nei pressi di Cavazuccherina venne centrata in pieno da una granata austro-ungarica sparata dalla sponda opposta.
Il 23 marzo 1919 gli sarebbe stata conferita la medaglia d'oro alla memoria.


(Fonte: https://www.storiaememoriadibologna.it/la-guerra-sulle-alpi-1918-adamello-la-guerra-bianc-135-evento)


SUL TONALE IL NEMICO PERDE ANCHE IL CORNO CAVENTO
Ha un qualcosa di simbolico, però, il fatto che l'ultimo residuo successo nemico della battaglia del Solstizio a ritornare in mano italiana fosse proprio quello conseguito nel settore più negletto, quello attaccato per primo, di fatto un obiettivo secondario: il Tonale, dove il Corno Cavento sarebbe stato ripreso definitivamente dagli alpini il 19 luglio.
Logico corollario finale di quel terribile confronto: dal Tonale si era partiti, al Tonale si finiva.

   
12. GLI U.S.A. SPARIGLIANO LE CARTE 

Thomas Woodrow Wilson
(Staunton, 28/12/1856-
Washington, 3/2/1924)
L'entrata in guerra degli U.S.A., indignati dalla dottrina tedesca della "Guerra sottomarina indiscriminata" e dal tentativo di Berlino di spingere il Messico contro di loro, sarebbe stato lo spartiacque decisivo.
A distanza di un anno  dalla dichiarazione di guerra alla Germania del 6 aprile 1917, seguita solo il 7 dicembre successivo da quella all'Austria-Ungheria, ormai oltre un milione di soldati americani era in Europa, come promesso dal Presidente Thomas Woodrow Wilson, un accademico, già Rettore dell'Università di Princeton, profondissimo conoscitore del latino e del greco, ex governatore dello Stato di New-Jersey.
Ogni mese ne arrivavano 250.000 e il loro peso si sentiva eccome, non solo sul piano militare stretto, visto che la loro sola presenza costringeva ormai i tedeschi sulla difensiva sul fronte occidentale, tanto da costringerli addirittura a richiedere all'alleato austriaco ulteriori divisioni di rinforzo (che questo non avrebbe potuto ovviamente usare sul fronte italiano), ma anche su quello industriale, tecnologico e pure politico.

IL DISCORSO DEI QUATTORDICI PUNTI
Già, perché nel discorso sullo stato dell'Unione tenuto dal Presidente Wilson al Congresso riunito in sede plenaria l'8 gennaio 1918 il presidente americano nel parlare del conflitto in corso non si era limitato a scontate espressioni di prammatica, ma aveva annunciato un totale cambio di prospettive in politica estera, in 14 punti programmatici ben definiti.
In soldoni, l'America si impegnava a intervenire in Europa, certo, ma sulla base di un obiettivo generale ben più ampio, quello di ridisegnare un nuovo ordine mondiale non più fondato sulla diplomazia segreta che tanto piaceva ai governi soprattutto europei dell'epoca, ma sull'effettiva volontà proprio dei Popoli e delle Nazioni: allora si parlava di principio di nazionalità, ora si preferisce definirlo principio di autodeterminazione dei popoli, ma sostanzialmente significava che i confini tra le nazioni andavano definiti sulla base delle popolazioni che vi vivevano, e non degli interessi di comodo delle singole Potenze.
Di questo nuovo ordine mondiale, in cui avrebbero dovuto regnare la Democrazia, la Pace, la Pubblicità dei Trattati, la Libertà di commercio, la Concordia tra gli Stati, proprio gli Stati Uniti si ponevano come effettivi garanti ed a tale proposito si sarebbero fatti promotori nel dopoguerra dell'istituzione di un organismo mondiale che servisse proprio a comporre i conflitti potenziali o in corso tra gli Stati, la Società delle Nazioni, antesignano dell'attuale O.N.U. (preannunciata dal 14° e ultimo punto).

IL PATTO SEGRETO DI LONDRA NON VALE PIÙ 
Sulla base di questi principi però era palese come proprio il  Patto di Londra stipulato tra l'Intesa e l'Italia, che sarebbe stato clamorosamente divulgato sul quotidiano Istvestzija dai bolscevichi del nuovo governo comunista sovietico per dare in pasto all'opinione pubblica le trame politiche del deposto (e ammazzato) Zar Nicola II°, fosse un esempio da manuale di cosa NON si dovesse fare.
I punti nn. 9 e 10 dettati da Wilson andavano proprio ad incidere direttamente sulle sue clausole, visto che recitavano rispettivamente:

9) "Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere fatta secondo le linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità";

10): "Ai popoli dell'Austria-Ungheria, alla quale noi desideriamo assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo".

Era evidente che con l'intervento degli U.S.A. in Europa tutti gli accordi intrapresi tra le varie Potenze continentali in vista della guerra non valevano più, perché gli Stati Uniti, non avendoli firmati, non vi si ritenevano in alcun modo vincolati.
Ecco perché l'Italia, anche se sarebbe figurata (giustamente) tra le Potenze vincitrici, non avrebbe avuto (né avrebbe dovuto aspettarselo) alcun trattamento di favore alle Trattative di Pace.
La "Vittoria Mutilata" denunciata da D'Annunzio che tante conseguenze avrebbe avuto sulla nostra Storia recente nacque proprio da quei 14 punti.

LE VIE DELL'INFERNO SONO LASTRICATE DI BUONE INTENZIONI
Quelle di Wilson sembrarono sul momento solo parole e in Europa sarebbero state ascoltate un po' distrattamente, viste come un semplice discorso come tanti, anche perché si era impegnati nel conflitto più atroce della Storia fino a quel momento, ma avrebbero avuto un impatto enorme sia al momento della stipula dei Trattati di Pace, sia dopo.
Ma se l'intento di Wilson era sicuramente nobile e dettato da buona fede e da una sorta di filantropismo ideologico protestante di per sé encomiabile, non si può non riconoscere come nonostante la sincerità del suo pensiero proprio quei 14 punti avrebbero portato alle tantissime contraddizioni del mondo moderno, in cui la potenza tecnologica, industriale, logistica prima ancora che militare degli Stati Uniti, unita alla pratica inviolabilità delle loro frontiere, li rende di fatto gli unici in grado di dominare: così si è partiti dal rispetto delle singole Sovranità di Popoli e Nazioni e si è arrivati al Mondialismo dettato a uso e consumo di un solo protagonista, gli Stati Uniti di America, senza aver eliminato le guerre, le ingiustizie, gli squilibri così come le soperchierie dei paesi più forti (sempre fino a quando non confliggano con gli interessi del padrone).

Tra i punti programmatici il n. 5 recitava: "Regolamento liberamente dibattuto con spirito largo e assolutamente imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali, fondato sulla stretta osservanza del principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei governi, i cui titoli debbono essere stabiliti".
Wilson voleva chiudere tutte le colonie, ma ora noi siamo tutti colonia degli  Stati Uniti.
Perché questo è: ormai a decidere su tutto e a dettare le regole sono solo loro, unica Superpotenza rimasta, e l'Europa, fino a cento anni fa indiscusso faro di civiltà e progresso, arranca penosamente dietro, avvitata in una crisi di identità che sembra non aver mai fine..

(Sul discorso dei quattordici punti v. https://it.wikipedia.org/wiki/Quattordici_punti)

13. COMINCIA IL CROLLO DEGLI IMPERI CENTRALI

Ma ci siamo spostati troppo in là rispetto al tema trattato qui, quindi meglio ritornarci subito.
A partire dalla fine dell'estate del 1918 le cose per gli Imperi Centrali erano cominciate a precipitare su tutti i fronti.

LA GERMANIA NELLA MORSA DEGLI ALLEATI
Tralasciando per un attimo la situazione da noi, era evidente come anche la Germania, dopo le ultime offensive dei mesi precedenti, compiute nel tentativo disperato di chiudere la partita prima che l'arrivo in massa degli americani stravolgesse completamente i rapporti di forza sul fronte occidentale, fosse ormai alla canna del gas.
Il suo formidabile esercito era ancora potente e quasi integro, le sue possibilità industriali intatte, i suoi generali erano largamente i migliori sulla piazza, nemmeno un metro del suo suolo era stato calpestato dalle truppe del nemico e anzi, al contrario, truppe tedesche erano ben presenti su tutti i fronti della guerra, compreso il nostro (pure in Cirenaica e Tripolitania, dove insieme agli agenti turchi non facevano che alimentare la guerriglia senussita contro le nostre colonie).
Eppure la situazione del Deutsches Heer, l'esercito tedesco, era pressoché la stessa della Kaiserliche Marine, la marina imperiale: come questa, altrettanto potente, integra, sempre imbattuta nei grandi scontri in alto mare con la Royal Navy, al largo di Coronel in Cile e sullo Jutland nel Mare del Nord, era ormai costretta a restare inchiodata nei suoi porti del Baltico dal rigidissimo blocco navale inglese in Atlantico, così le armate tedesche di Ludendorff e von Hindenburg erano ormai inchiodate in Francia dalla stretta sempre più forte di quelle alleate, che l'arrivo degli U.S.A. rendeva ancora più avvolgente e mortale.
Così, tra il 12 e il 19 settembre 1918 gli americani, nella prima loro offensiva da soli (salvo il contributo di qualche divisione francese), le avrebbero travolte sul saliente di Saint Mihiel, e le successive controffensive alleate di fine settembre le avrebbero costrette ad un ripiegamento che sapeva già di sconfitta anticipata: gli anglo-francesi a Cambrai-San Quintino, i franco-italiani sullo Chemins de Dames, i franco-belgi nelle Fiandre a Ypres...

BULGARIA E TURCHIA SI ARRENDONO
Ma se la situazione della Germania era ormai quasi compromessa, la Bulgaria in Macedonia e l'Impero ottomano in Medio Oriente erano proprio sul punto di crollare.

La Bulgaria il 14 settembre sarebbe finita sotto scacco a seguito dell'offensiva del Vardar condotta dagli alleati franco-italo-serbo-greci che avrebbe portato alla decisiva sconfitta del giorno dopo di Dobro Polije e all'occupazione francese di Skopije, mentre la Turchia, già ripetutamente sconfitta in Arabia, Sinai e Palestina dagli inglesi, capaci sin dall'estate del 1917 grazie al decisivo apporto delle tribù dello sceicco hascemita  Al-Usayn ibn Alì messe insieme dal colonnello Thomas Edward Lauwrence ("Lawrence d'Arabia"), di interrompere la strategica ferrovia dell'Hegiaz e di occupare il porto di Aqaba, sarebbe stata infine travolta tra settembre e ottobre in Mesopotamia a Megiddo, in Siria, con la conseguente occupazione inglese di Damasco (2 ottobre) e Aleppo (25 ottobre), e nell'attuale Iraq a  Sharqat, con la perdita da parte dei turchi dei pozzi petroliferi nella regione di Mosul-Kirkuk.

Lo Zar di Bulgaria Ferdinando I°, dopo la resa firmata a Salonicco dai suoi rappresentanti il 29 settembre, vistosi ormai abbandonato da intere divisioni ribelli del suo esercito sconfitto e con la capitale e le altre principali sue città scosse dalle manifestazioni pacifiste e rivoluzionarie, il successivo 3 ottobre avrebbe abdicato e subito dopo sarebbe andato in esilio, mentre gli emissari dell'Imperatore ottomano Mehmet VI° Vahideddin, succeduto al fratello maggiore Mehmet V° Rezad deceduto il 3 luglio precedente, avrebbero firmato a loro volta l'armistizio il 30 ottobre a bordo della corazzata inglese H.M.S. Agamemnon ancorata nel porto di Moudros dell'isola greca di Lemnos, nell'Egeo settentrionale: il successivo 12 novembre anche Costantinopoli sarebbe stata occupata dalle truppe alleate.

L'IRRIMEDIABILE CRISI INTERNA DELL'AUSTRIA-UNGHERIA








Se tutto questo accadeva ai suoi alleati, nulla di strano, quindi, che anche l'Impero degli Asburgo di Austria-Ungheria fosse ormai giunto alla fine.
Quell'enorme e vano sforzo sul Piave ne aveva finito col prosciugare del tutto le energie fisiche, morali ed economiche, con spaventosi effetti a cascata sulla stessa Madre Patria, ormai ridotta alla fame visto che gli approvvigionamenti venivano tutti fatti convogliare sulle truppe al fronte, oltre che in preda al caos e all'anarchia generati dalle rivendicazioni irridentiste che ormai si susseguivano a getto continuo da parte di cechi, slovacchi, polacchi, ucraini, slavi e ungheresi...
Proprio per questo, qualche giorno dopo che Guglielmo II°, su consiglio proprio di Ludendorff, aveva fatto riservatamente pervenire il 4 ottobre a Wilson richieste per un armistizio, informandone per correttezza sia l'Austria-Ungheria che l'Impero Ottomano, nel tentativo di fermare quella terribile emorragia interna Carlo I° si era visto costretto il giorno 16 a emettere un Proclama col quale aveva trasformato l'Impero in un vero e proprio Stato Federale.
Da quel momento l'Imperatore aveva ulteriormente incrementato con l'aiuto anche del Papa, cui era devotissimo, i suoi frenetici tentativi diplomatici in tutte le direzioni, rimasti tutti infruttuosi, per cercare, sulla base dei benedetti 14 punti di Wilson, una Pace che rispettasse i confini ante-conflitto, salvo il rispetto volta per volta della volontà delle singole etnie interessate.
La sua presa di posizione, però, era stata avvertita da tutti, all'esterno ed all'interno dell'Impero, come iniziativa pretestuosa, tardiva ed assolutamente inadeguata, non più in grado di risolvere le gravi contraddizioni interne dell'Impero ormai in agonia.
E a parte tutti i discorsi teorici sull'autodeterminazione dei popoli, la democrazia e il libero scambio delle merci e dei servizi assai più prosaicamente le Potenze Alleate, ormai trasformatesi in crudeli cacciatrici, sapevano riconoscere benissimo il tipico odore del sangue della selvaggina ferita che aspetta solo il colpo di grazia.
Ed erano ansiose di darglielo.

Persino Arz von Straussenburg, da sempre devotissimo all'Impero, cominciò pertanto sin dal 14 ottobre a elaborare al Quartier Generale di Baden bei Wien i piani per un "ordinato ripiegamento dal Veneto", per salvare il salvabile ed evitare un tracollo dovuto allo squagliamento a causa degli ammutinamenti e delle diserzioni dell'una volta potentissima K.u.K. Armee in caso di un attacco italiano che ormai presentiva vicinissimo ed inevitabile, decidendo anche di insediare a Trento un'apposita commissione d'armistizio, ponendovi a capo l'esperto General der Infanterie Viktor Weber Edler von Webenau.
Ormai anche lui si era convinto che bisognasse stipulare una pace "a qualunque costo".


PARTE SECONDA

L'INIZIO DELLA RISCOSSA

14. LE IMPRESE DI RIZZO E D'ANNUNZIO INFIAMMANO GLI ITALIANI

Gabriele D'Annunzio
 (Pescara, 12/3/1863-
Gardone Riviera, BS, 1/3/1938)
Tra gli Eventi che avevano contribuito a risollevare il morale di un intero popolo, quello italiano, uscito a pezzi da Caporetto, capace certo di resistere lottando con le unghie e con i denti nella prima battaglia d'arresto sul Piave ma ancora visibilmente bisognoso di ulteriori certezze per dirsi totalmente uscito fuori dai guai, c'erano state le imprese di due personaggi praticamente agi antipodi, ma che avrebbero finito per incontrarsi.

Luigi Rizzo
(Milazzo, ME, 8/10/1887-
27/6/1951)
Da una parte le azioni belliche di un oscuro ufficiale della Regia Marina, il capitano di corvetta siciliano Luigi Rizzo, caposquadriglia sui MAS, i Motoscafi Armati Siluranti, ed eroe simbolo dell'impegno della marina italiana nella resistenza al nemico tra la Laguna di Venezia e il Basso Piave, dall'altra quelle tra il militare ed il propagandistico del famosissimo scrittore, drammaturgo e poeta abruzzese, nonché gran libertino, Gabriele D'Annunzio, il Vate, esponente nazionalista di spicco e interventista della prima ora, colui che insieme con l'ambizioso giornalista ex socialista romagnolo Benito Mussolini aveva contribuito a far cambiare improvvisamente registro, coi suoi infiammati comizi pro-guerra del "Maggio radioso", a un'opinione pubblica inizialmente quasi tutta contraria (e maggioritaria alla Camera grazie all'ancora potente ex primo ministro Giovanni Giolitti), portando invece alla vittoria lo schieramento interventista guidato dal Presidente del Consiglio Antonio Salandra e da Re Vittorio Emanuele in persona, che sin dal 15 aprile avevano già stipulato in totale segretezza a Londra un patto d'alleanza con le forze dell'Intesa (Inghilterra, Francia e Russia). 

IL BOMBARDAMENTO DI CATTARO (5 OTTOBRE 1917)


Luigi Gori, Maurizio Pagliano, Gabriele D'Annunzio e G. B. Pratesi davanti al loro Caproni Ca. 3 Matr. 2378 "Asso di picche"


Questi, spinto dal suo istrionico patriottismo, all'inizio della guerra nel 1915 si era arruolato volontariamente già 52enne in cavalleria, richiamato a domanda come capitano nel 5° Lancieri di Novara, e basato col suo reggimento a Cervignano del Friuli aveva già compiuto diverse azioni di guerra, la più conosciuta delle quali è quella sul Timavo durante la "Decima battaglia dell'Isonzo".
Tuttavia, pur sprovvisto del brevetto di aviatore ma attratto da tutto ciò che era tecnologia, velocità, progresso, dopo aver già partecipato a tre bombardamenti notturni sulla piazzaforte di Pola il 2 marzo, il 3 aprile e il 9 agosto come osservatore sul Caproni Matr. 2378 "Asso di Picche" dei tenenti Luigi Gori e Maurizio Pagliano dell'8° squadriglia,  aveva chiesto direttamente a Cadorna di partecipare il 5 ottobre 1917, solo 19 giorni prima di Caporetto,  al bombardamento aereo dell'importante ed apparentemente inaccessibile base navale della K.u.K. Kriegsmarine di Kotor (in italiano Cattaro), sede di sottomarini, torpediniere e idrovolanti, che già in più occasioni si erano resi autori di incursioni sulla costa adriatica italiana, a Ancona, Barletta e Brindisi, a bordo di uno dei 16 bombardieri Caproni Ca. 3 delle squadriglie 1° bis e 15° bis rispettivamente dei capitani Maurizio Pagliano e Leonardo Nardi sotto il comando del maggiore Armando Armani dell'XI° gruppo del Campo Scuola di Gioia del Colle (BA).













I nuovissimi bombardieri  Ca. 325 appena usciti di fabbrica scelti per la missione, trasferitisi  il giorno prima da Taliedo (l'attuale Linate), sede della Caproni, ed arrivati a Gioia il 25 settembre dopo un breve scalo tecnico a Roma-Centocelle per il rifornimentodovevano partire in una notte compresa tra il 29 settembre e il 2 ottobre, giorno di plenilunio, ma a causa del maltempo e del ritardato arrivo del treno con le bombe (di cui ad un certo punto si erano completamente perse le tracce!), giunto a Gioia solo il 30 settembre, avrebbero aspettato diversi giorni prima di avere il via per la rischiosissima missione, che prevedeva per quegli aerei terrestri 460 chilometri da percorrere tra andata e ritorno, di cui ben 400 in piena notte sul mare aperto e senza scorta, orientandosi solo con le bussole e le stelle: nonostante questo, tante erano state entusiastiche le richieste di parteciparvi, che si dovette procedere ad un sorteggio per la scelta dei piloti!*
Alle 23,00 di sera del 4 ottobre gli aerei decollarono alla volta dell'obiettivo, a 4 minuti di distanza l'uno dall'altro, seguendo la rotta indicata prima dai proiettori luminosi costieri sulla direttrice Gioia-Polignano, poi da quelli di 8 cacciatorpediniere e 2 esploratori, scortati da altre unità navali italiane.






Mentre due di essi furono costretti a rientrare alla base dopo circa un'ora di volo per noie al motore, tutti gli altri avrebbero completato la missione, durata circa cinque ore e mezza in media per velivolo, arrivando uno alla volta alle bocche di Cattaro e rilasciando dalla quota di 3.000 metri il loro carico di bombe, per un totale di circa 3.500 chili di granate-mina, 24 da 260 mm (75 chili) e 72 da 162 mm (25 chili) concentrati soprattutto sugli approdi dei sommergibili e delle torpediniere di Kumbor, sotto un violento ma inefficace fuoco antiaereo.
Nonostante il viaggio di ritorno fosse decisamente più difficile di quello d'andata per la nebbia fittissima ed il progressivo esaurirsi del carburante, tanto da rendere indispensabile l'accensione di tutti i fari tra Vieste e Capo d'Otranto (Manfredonia, Barletta, Bari, Monopoli, Capo Gallo e San Cataldo), identificati con luce verdi quelli da Bari a nord, con luce rossa quelli da Monopoli a sud, e l'illuminazione non solo del campo di Gioia del Colle ma anche dell'area d'atterraggio di Foggia, i Caproni sarebbero tutti rientrati alla base tra le 04,10 e le 05,20 della mattina del 5 tranne uno, quello del tenente Pallavicino, costretto ad atterrare per l'esaurimento del carburante a Gargano, nei pressi di Manfredonia (FG).
A tutti i partecipanti sarebbe stata conferita la medaglia di bronzo al Valor militare.
* Ma D'Annunzio volle comunque con sé i fidi Pagliano e Gori.




Questa la relazione scritta di D'Annunzio, che ne avrebbe parlato successivamente anche nel suo scritto "Il fegato e l'avvoltoio", sulla base degli appunti presi su due piccoli taccuini durante il volo:

"Presa la rotta marina con un allineamento di 51°, passammo sul settimo gruppo di siluranti alle 11,37 a una quota di 2.200 metri. I proiettori di bordo erano visibilissimi ma in seguito non ci fu possibile scorgere le segnalazioni del VI° gruppo né quelle degli altri. Alle 12,45 avvistammo la costa, attraverso strati bassi di cirri che da prima ci diedero l'impressione di trovarci sull'arcipelago. Ma, poco dopo, alle ore 1,15 riconoscemmo la Punta d'Arza. Invece di contornare a levante la penisola per trovare la depressione che è fra Traste e Teodo, preferimmo di risalire la costa fino a Lustica. La sorpresa del nemico era evidentissima, perché i proiettori tardarono ad accendersi e non ci cercarono. Gettammo le prime bombe su Porto Rose, le altre su Kumbur, e seguimmo gli scoppi e le fiamme. La baia di Teodo era in parte celata da nubi, alle ore 1,32, mentre riprendevamo la rotta del ritorno, con un allineamento di 218°, passando sopra Zabardje e Porto Zanjica. Fu allora che partì qualche colpo da una batteria antiaerea che ci parve situata sull'Obstnik. Anche nel ritorno non ci fu possibile scorgere le segnalazioni dei gruppi di siluranti; e deviammo ad austro, verso Brindisi. Poi risalimmo la costa verso borea, giovandoci dei fuochi indicatori Coston rossi. Avvistati i proiettori di Conversano, potemmo pur nella foschia atterrare felicemente sul campo".  

Era presente a bordo di uno dei velivoli anche Guelfo Cevenini, un famoso cronista del Corriere della Sera che Indro Montanelli avrebbe sempre indicato come suo maestro: anche lui ne avrebbe parlato sul suo giornale nei giorni successivi.
L'incursione probabilmente non causò molti danni al naviglio nemico, ma furono avvistate diverse vampe di esplosioni e un incendio, molto probabilmente di un deposito di nafta, e le stesse relazioni austro-ungariche ammisero che qualche bomba giunse a segno.
Per quest'impresa D'Annunzio avrebbe ottenuto la promozione a maggiore.


Alcuni dei piloti partecipanti al bombardamento di Cattaro non sarebbero sopravvissuti a lungo: il tenente Giampiero Clerici, ad esempio, sarebbe stato abbattuto il 1° novembre 1917, meno di un mese dopo, a Fluminiano, nei pressi di Udine, nel corso di una incursione nelle retrovie del nemico per frenarne l'avanzata da Caporetto, e lo stesso sarebbe capitato ai due fedelissimi di D'Annunzio, i capitani Luigi Gori e Maurizio Pagliano, caduti sulla linea del Piave insieme ai due soldati mitraglieri Giacomo Caglio e Arrigo Andri a sud di Susegana alle 12,40 del 30 dicembre 1917, abbattuti dall'Albatros D. III dell'asso Bello Fiala von Fernbrugg (28 vittorie riconosciute e 5 non confermate), comandante della FliK 56 J,  nel corso di un'azione del loro e di altri 6 bombardieri sugli aeroporti nemici di Godega di Sant'Urbano e Aviano.
L'attuale base aerea di Aviano è a loro intitolata.

(V. http://www.gioiadelcolle.info/il-centenario-dellimpresa-di-cattaro/; http://www.ilfrontedelcielo.it/files_3/37_cattaro.htm
https://www.marinaiditalia.com/public/uploads/2016_5_6_32.pdf).

L'AFFONDAMENTO DELLA S.M.S. WIEN  (10 DICEMBRE 1917)


Emanuele Sansolini, L'affondamento della Wien



Al contrario di D'Annunzio, quando compì la sua prima impresa l'allora 30enne sottotenente di vascello Luigi Rizzo, messinese di Milazzo, era praticamente sconosciuto alle folle, nonostante fosse già pluridecorato per essersi fatto già notare in molteplici occasioni durante le azioni di pattugliamento a difesa del Basso Piave e della Laguna Veneta a capo della sua squadriglia di MAS.
Proprio per questo durante la prima battaglia d'arresto sul Piave proprio a lui fu dato l'incarico di attaccare all'interno della base navale di Trieste due importanti unità della K.u.K. Kriegsmarine ancorate nel Vallone di Muggia, le corazzate costiere gemelle S.M.S Wien e S.M.S. Budapest, lunghe 100 metri, con dislocamento di 5.600 tonnellate, armate con quattro cannoni Krupp da 240 mm e sei Skoda da 152, che costituivano una grossa minaccia per le nostre difese costiere sul Basso Piave, da loro più volte già bombardate.
La sera senza luna del 9 dicembre 1917 le due torpediniere 9 PN del capitano di corvetta Silvio Bonaldi e 11 PN del parigrado Mario Pellegrini, sotto la supervisione del capitano di fregata Carlo Pignatti Morano di Custoza (un nobile di Modena!), trainarono fino al centro del Golfo di Trieste il MAS 9 di Rizzo e il MAS 13 del capo timoniere Andrea Ferrarini: una volta sganciati, essi si mossero silenziosissimi coi loro motori elettrici in direzione dello sbarramento davanti alla diga foranea a nord del vallone e, superati i vari cavi di sbarramento tagliandoli con le grosse cesoie e addirittura le lime in dotazione, senza essere visti entrarono nell'oscurità in rada, individuarono le grosse sagome delle due navi e si diressero il primo in direzione della Wien, il secondo della Budapest.
Alle 02,32 di notte dell'11 dicembre, quasi all'unisono, i due MAS lanciarono contro le due navi una coppiola di siluri a testa, Rizzo da soli 50 metri, Ferrarini da circa 300, ma solo i due del primo andarono a segno sulla Wien, mentre Ferrarini mancò la nave gemella: uno dei suoi due siluri esplose però sulla banchina, dando così l'impressione erronea di averla colpita.
La Wien sarebbe andata a picco in soli 5 minuti trascinando con sé 33 uomini di equipaggio.
Per tale atto Rizzo, tornato sano e salvo a Venezia, sarebbe stato decorato con la sua prima medaglia d'oro al valore militare.
(V. https://www.lemarcheelagrandeguerra.it/2015/02/12/laffondamento-della-corazzata-wien/http://cefalunews.org/2017/12/10/prima-guerra-mondiale-l-affondamento-della-corazzata-wien/http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2017/09/01/news/la-corazzata-wien-per-una-notte-riemerge-dalle-acque-di-trieste-1.15798711https://video.gelocal.it/ilpiccolo/locale/alla-scoperta-dei-resti-della-corazzata-wien/30767/30835)

LA BEFFA DI BUCCARI (11 FEBBRAIO 1918)





Era quasi inevitabile, a questo punto, che due personaggi così, il Vate abruzzese e l'Eroe siciliano, incrociassero le loro vite tra di loro.
L'occasione fu memorabile e sarebbe passata alla Storia con l'immaginifico nome datole dal solito D'Annunzio di "Beffa di Buccari".
Si trattò di un'incursione ancora una volta a colpi di siluro compiuta nella notte dell'11 febbraio 1918 contro navi nemiche ancorate nella munitissima base croata di Bakar (italianizzata in Buccari) dai tre MAS 94, 95 e 96 della Regia Marina comandati rispettivamente dall'ora sottotenente di vascello C.R.E.M. Andrea Ferrarini, dal tenente di vascello di complemento Odoardo Profeta De Santis e appunto dall'ora capitano di corvetta Luigi Rizzo.


L'azione, comandata dal capitano di fregata Costanzo Ciano (padre di Galeazzo, futuro Ministro degli Esteri di Mussolini e suo genero per averne sposato la figlia Edda), si era conclusa con un nulla di fatto, ma aveva avuto un impatto mediatico formidabile perché D'Annunzio, presente a bordo del MAS 96 di Rizzo insieme con Ciano, aveva lasciato un messaggio beffardo scritto di proprio pugno in tre bottiglie avvolte nel tricolore lasciate appese ad alcuni galleggianti.
Fu proprio in quest'occasione che l'immaginifico D'Annunzio avrebbe coniato il celebre motto in latino degli equipaggi dei MAS, tramandatosi poi nel tempo, sfruttandone le lettere di quell'acronimo in fondo di per sé abbastanza banale: "Memento Audere Semper!"
Ricordati di osare sempre!




(V.  https://it.wikipedia.org/wiki/Beffa_di_Buccarihttps://digilander.libero.it/casellidomenico/RIZZO-CIANO-D'ANNUNZIO.htm).

L'IMPRESA DI PREMUDA (10 GIUGNO 1918)

Emanuele Sansolini, Affondamento della Szent Istvàn




Ancora Luigi Rizzo, decorato con la medaglia d'argento per la beffa di Buccari, rimasto in agguato in prossimità della costa zaratina tra Guiza e il Banco di Selve al largo dell'isola di Premuda col suo MAS 15 insieme al MAS 21 del guardiamarina Giuseppe Aonzo dopo aver verificato la mancanza di sbarramenti di mine nemici, all'alba del 10 giugno 1918 avrebbe avvistato parte di una grossa formazione comprendente le maggiori unità della K.u.K. Kriegsmarine, uscita in mare aperto su ordine del neo nominato comandante della marina austro-ungarica, l'Ammiraglio ungherese Miklòs Horthy de Nagybania, con l'ordine di forzare il blocco navale del Canale di Otranto messo in atto dalla Regia Marina e indurre magari i nostri incrociatori corazzati Brindisi e Valona a venire incontro alle unità più piccole che avanzavano in avanscoperta verso , con l'intento di attirarli in bocca a quelle da battaglia che dovevano stazionare in settori di mare prefissati più dietro.

Un drammatico fotogramma tratto dal filmato fatto da un operatore a bordo della Tegetthoff che inquadra la Szent Istvàn che affonda e dei marinai che si gettano in mare


Rizzo e Aonzo, individuate da lontano alle 03,15 di notte due navi da battaglia, le gemelle S.M.S. Szent Istvàn (Santo Stefano) e S.M.S. Tegetthoff, unità lunghe 152 metri e di 22.000 tonnellate di dislocamento, armate con grossi cannoni Skoda, ben 12 cannoni da 305 e altrettanti da 150, entrambe in leggero ritardo rispetto ai tempi previsti di arrivo nei punti previsti dal loro piano di battaglia, seguite da una decina tra cacciatorpediniere e torpediniere, sfruttando l'oscurità della notte si avvicinarono in silenzio coi motori al minimo sino a qualche centinaio di metri di distanza, passando in mezzo alle unità di scorta più piccole, per poi dividersi i due obiettivi più grossi e lanciarsi a 12 nodi nella loro direzione.
Alle 03,30 entrambi i MAS lanciarono le loro coppiole di siluri: Rizzo, giunto a 300 metri di distanza, sulla Szent Istvàn, Aonzo da più lontano, 450/500 metri, sulla Tegetthoff.
Entrambe furono colpite, ma il siluro che centrò la Tegetthoff non esplose, al contrario di quelli che presero sulla fiancata destra la più giovane gemella (varata solo 4 anni prima!).
La Szent Istvàn cominciò a inclinarsi, prima piano, poi più velocemente, in media di circa 1° ogni quarto d'ora, rendendo vani tutti i tentativi di prenderla a rimorchio della Tegetthoff, poi, all'improvviso, alle 05,15, quando finalmente si era riusciti ad assicurare una una gomena lanciata dall'altra corazzata, un nuovo sobbalzo più forte portò lo sbandamento a oltre 18°, costringendo a tagliarla.
La nave era ormai condannata: alle 06,00 cominciò a capovolgersi e dopo mezz'ora di agonia andò a fondo, portando con sé 89 uomini, tra cui 4 ufficiali, di cui 3 dispersi, e 85 marinai (13 morti e 72 dispersi), con altri 29 rimasti feriti.
Mentre il fuoco cominciava a divorare la grande nave austro-ungarica, i due MAS erano già sulla strada di casa al massimo della velocità di 24 nodi, inseguiti però con ostinazione da due delle unità di scorta della nave: una di esse, la torpediniera 76, che tallonava da vicino proprio il MAS 15, cominciò a vomitargli addosso tutto il fuoco possibile con tutte le sue armi di bordo, fino a quando Rizzo diede ordine di scagliarle contro un paio di bombe antisommergibili, costringendola a fermarsi.
Alle 07,00 entrambe le nostre unità erano nella loro base di Ancona, sani e salvi.

Solo due giorni dopo, il 13 giugno, giunse la conferma ufficiale del successo dell'azione da parte del Ministero austro-ungarico della Guerra:

"La nave Szent Istvàn è stata silurata nell'Adriatico, durante un viaggio notturno, ed è affondata. Il tenente di vascello Max von Roevid, il capo macchinista Sarniz, il cadetto di marina Antonio Muller e circa 80 marinai dell'equipaggio sono scomparsi. L'aspirante di marina Giuseppe von Serda fu ucciso. Il resto dell'equipaggio si è salvato". 

Dopo quella scoppola l'intera formazione da battaglia asburgica sarebbe ritornata indietro alle sue basi, per non uscirne più fino alla fine della guerra.
La Regia Marina era ormai padrona dell'Adriatico.
In ricordo di questa magnifica impresa il 10 giugno è da allora la Giornata della Festa della nostra Marina Militare e il glorioso MAS 15 è esposto in bella mostra al Sacrario delle Bandiere al Vittoriano degli Italiani a Roma.
Sia Rizzo che Aonzo sarebbero stati decorati con la medaglia d'oro al valore, per Rizzo la seconda.
(V. https://it.wikipedia.org/wiki/Impresa_di_Premudahttp://www.ilgiornale.it/news/cronache/limpresa-premuda-capolavoro-luigi-rizzo-e-marina-1538605.htmlhttps://www.ilprimatonazionale.it/cultura/10-giugno-1918-rizzo-46139/).

IL VOLO SU VIENNA (9 AGOSTO 1918)


Gli aviatori del Volo su Vienna



Ma l'impresa forse più famosa di tutte fu un'altra ancora, quella indubbiamente più "dannunziana" in assoluto.
Fu infatti proprio Gabriele D'Annunzio a ideare e ad organizzare in totale segretezza per un paio di mesi una clamorosa azione aerea, partecipandovi poi di persona, dopo averne scelti uno per uno tutti i piloti, quelli tutti veneti dell'87° squadriglia aeroplani "Serenissima", quella del Leone di San Marco effigiato sulle carlinghe dei suoi biplani ricognitori-bombardieri leggeri S.V.A.
Partiti in 11 all'alba del 9 agosto 1918 dalla base di San Pelagio (PD), persi per strada a causa di avarie i 4 velivoli del capitano Giuseppe Masprone (ex ottimo calciatore, discobolo e arbitro di calcio!), dei tenenti Francesco Ferrarin e Giuseppe Sarti (fatto prigioniero dopo un atterraggio di fortuna a Wiener Neustadt, subito dopo aver incendiato il suo S.V.A.) e del sottotenente Vincenzo Contratti, e rimasti quindi in 7, dopo aver sorvolato impunemente la valle della Drava, le montagne della Carinzia e tre città, ReichenfelsKapfenberg e Neuberg, e superato diversi tratti temporaleschi, oltrepassando anche due caccia della K.u.K. Luftfarhtruppen, l'aviazione austro-ungarica, che piuttosto che attaccarli preferirono atterrare alla loro base e avvisarne i superiori, senza essere creduti, arrivarono alle 09,20 di mattina su Vienna, visibilissimi nel cielo assai terso della capitale nemica.

Gabriele D'Annunzio e Natale Palli 
Mentre le strade cittadine cominciavano immediatamente a riempirsi di gente, spaventata ma anche incuriosita dalla loro improvvisa apparizione, gli S.V.A. del caposquadriglia capitano Natale Palli, con il Vate a bordo del suo aereo, appositamente modificato per ospitarlo, dei tenenti Antonio Locatelli, Aldo Finzi (che sarebbe divenuto, pur se di famiglia ebraica, stretto collaboratore di Mussolini e vice capo della polizia, epurato a seguito del delitto Matteotti, per poi finire tragicamente la sua parabola terrena, dopo essersi allontanato dal Fascismo ed aver iniziato a collaborare con la resistenza romana, tra i 335 fucilati delle Fosse Ardeatine), Piero Massoni, Giuseppe Sarti, Giordano Granzarolo e del sottotenente Girolamo Allegri (soprannominato "Fra' Ginepro" per la lunga barba), da una quota di soli 800 metri di altezza, invece di bombardarla lanciarono sulla ormai indifesa capitale austriaca ben 400.000 volantini tricolori inneggianti alla resa dell'Austria-Ungheria, per poi tornarsene tranquillamente in Italia, ottenendo un successo di propaganda senza pari, ben superiore a quello pur grande di Buccari e con un impatto emotivo sul nemico probabilmente pari a quello di una brutta sconfitta sul campo di battaglia (v. https://it.wikipedia.org/wiki/Volo_su_Vienna).




Il quotidiano austriaco Arbeiter Zeitung avrebbe scritto:

"Dove sono i nostri D'Annunzio?
D'Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l'oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato di essere un uomo all'altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano che a noi certo non piace dipingere come un commediante.
E i nostri D'Annunzio dove sono?
Anche tra noi si contano in gran numero quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie.
Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l'aviatore!"


Proprio per questo, al di là dei numerosi e ripetuti riconoscimenti che ebbero i suoi compagni di ventura in quelle ardimentose azioni, D'Annunzio stesso per tutte le sue "...audacissime imprese in terra, sul mare, in cielo" sarebbe stato decorato al termine della guerra con la medaglia d'oro al valore militare.



15. DIAZ FA PREPARARE IL PIANO DI BATTAGLIA (12 OTTOBRE)

Come quello nemico, anche il nostro governo aveva fretta di chiudere la guerra, ma per ragioni praticamente opposte.
Vittorio Emanuele Orlando era ormai entrato in fibrillazione: dopo che il Maresciallo francese Ferdinand Foch, a capo del Consiglio Interalleato, aveva per tutti i mesi di luglio e agosto chiesto insistentemente a Diaz di lanciare una nuova offensiva in contemporanea con quelle degli alleati sul fronte occidentale, ottenendone sempre dei cortesi dinieghi a causa della stanchezza delle nostre truppe e della necessità di riapprovigionarle di mezzi, materiali e tanti complementi, il nostro Presidente del Consiglio si era accorto che ora nessuno ci inseguiva più e vedeva con terrore l'eventualità di un tracollo nemico senza il nostro contributo, che ci avrebbe esposto ad una figuraccia al Tavolo della Pace con la concreta possibilità di vederci negare le promesse scritte nero su bianco negli Accordi segreti di Londra!
Eppure, nonostante le pressioni politiche, militari e  dell'opinione pubblica, Diaz nicchiava ancora.
Il Generalissimo non era però un pavido e nemmeno un cretino, sapeva perfettamente che l'Impero era alla fine, ma era sinceramente convinto almeno fino a fine agosto come un po' tutte le Cancellerie e gli Stati Maggiori europei che la guerra sarebbe finita nella primavera 1919: per quella data contava di aver ricostruito a puntino il Regio Esercito per averlo pronto per l'offensiva generale conclusiva, per cui anticipare tutto a ora significava essere praticamente costretti a chiedere giocoforza aiuto agli alleati anglo-francesi, di cui si fidava però poco (soprattutto dei francesi), quando invece l'unico da cui volentieri si sarebbe fatto aiutare, il Generale John Pershing, il comandante americano, non aveva alcuna intenzione  di distogliere dal prioritario fronte francese nessuno dei suoi (avrebbe inviato a fine estate solo un reggimento di fanteria!), preferendo rilasciare solo vaghe promesse sull'invio di un contingente di 400.000 uomini nella primavera del '19.
Ma il crollo degli Imperi Centrali si stava rivelando così repentino e di tali proporzioni da sorprendere tutti, compreso Diaz: i giochi si sarebbero chiusi ora, altro che 1919!

Così, dopo essere giunto senza saperlo ad un passo dall'essere sostituito per volontà di Orlando dal Tenente Generale Gaetano Giardino, già Sottocapo di Stato Maggiore, che il primo conosceva bene per essere stato Ministro della Guerra quando lui lo era dell'Interno sotto l'esecutivo Boselli, il Generalissimo si convinse (di malavoglia) a far preparare dal capo ufficio operazioni del Comando Supremo, il colonnello Ugo Cavallero (futuro Capo di Stato Maggiore nella seconda guerra mondiale, nonché il materiale estensore - i paradossi della Storia! - del Promemoria fatto preparare da Mussolini 15 anni dopo per Hitler in vista della imminente stesura del Patto d'Acciaio tra Italia e Germania), lo "Studio di un'operazione offensiva attraverso il Piave in caso di imminente crollo del nemico", da attuarsi in tempi rapidissimi su un limitato fronte di non più di una ventina di chilometri che andava sostanzialmente dalla cittadina di Nervesa, addossata alla parete orientale del Montello, il complesso collinare di soli 371 metri di altezza che domina il sottostante letto del Piave, in quel punto stretto e profondo, fino alle cosiddette Grave di Papadopoli, dove al contrario il fiume è assai più largo e poco profondo: qui sarebbero dovute irrompere con la potenza distruttiva di un maglio implacabile ben 24 divisioni e mezza italiane della VIII° armata di Caviglia e 3 britanniche.
Cavallero lo presentò  il 25 settembre al Quartier Generale di Abano a lui, a Pietro Badoglio ed al comandante dell'VIII° armata del Montello, Enrico Caviglia, deputato a comandare lo sfondamento.

Dopo che proprio Caviglia, pure perplesso per l'evidente poco entusiasmo del Generalissimo, propose di ampliare il fronte dell'offensiva verso nord almeno fino a Vidor, comprendendovi quindi l'intero comprensorio del Montello fino a Crocetta, e di coinvolgere con finalità diversive anche la IV° armata del Grappa di Giardino, la versione definitiva del progetto fu approvata il 12 ottobre, con l'aggiunta di una puntata offensiva in profondità lungo il cosiddetto Corridoio di Feltre, probabilmente per tenere impegnato il neocostituito Gruppo Belluno posto, al comando dell'esperto e gloriosissimo Feldmarescialo ungherese Ferdinand Ritter von Goglia, a protezione diretta del fianco sinistro del Gruppo Armate del Tirolo e di quello destro del Gruppo Armate dell'Isonzo, anche se a causa dell'inizio di un improvviso periodo di piena del Piave addirittura solo il 18 ottobre, ad appena sei giorni dall'attacco, venne deciso di dare alla IV° armata di Giardino un ruolo assai più importante.
Quello di fare attaccare lei per prima sul Grappa all'alba del 24 ottobre e non l'VIII° armata di Caviglia, impossibilitata prevedibilmente a scavallare il Piave: questa sarebbe invece dovuta entrare in azione dopo 12 ore, a piena finita, cogliendo di sorpresa le forze nemiche convinte che il focus dell'attacco fosse sulle montagne più a ovest!
Quest'improvviso cambio di programma, come vedremo, avrebbe dato il la a tutt'una serie di conseguenze di tipo logistico, operativo in senso stretto e persino sul morale dei soldati che avrebbero complicato enormemente le cose.

Il piano così concepito prevedeva in qualche modo una azione uguale e contraria a quella fatta dagli austro-tedeschi a Caporetto: quelli un anno prima erano discesi dalle montagne orientali ed erano dilagati attraverso quel piccolo paesino italo-sloveno nella pianura friulana e nel Veneto, ora gli italiani dovevano invece attaccare a partire dalla linea del Piave con l'VIII° armata, preceduti da un forte assalto diversivo della IV° sul Grappa per assorbire le riserve nemiche su quel fronte ed impedire la saldatura difensiva tra l'XI° armata nemica del Tirolo e la VI° dell'Isonzo, e puntare dritto per dritto, più con un intento simbolico che altro, giusto per avere un punto di riferimento geografico da tenere presente, su un altro paesino, stavolta italianissimo e in pianura, sede del comando del Gruppo d'Armate Boroevic, quello di Vittorio (che nel 1923 sarebbe diventato Vittorio Veneto).
Per far questo, l'VIII° armata avrebbe dovuto far sbarcare sulla riva opposta del Piave, quella sinistra, i suoi corpi d'armata XXII° di Giuseppe Vaccari e XXVII°  di Antonino Di Giorgio, alla sinistra del fronte d'attacco, e l'altro, l'VIII° di Asclepiade (Asclepia) Gandolfo, sulla destra: i primi due avrebbero dovuto sfondare verso nord sull'asse Falzè-Soligo-Tarzo contro il II° C.A. nemico, il terzo verso nord-est sul settore di Conegliano difeso dal XXIV°, e formare poi una gigantesca tenaglia nella quale avrebbero dovuto convergere gli uni da ovest, l'altro da sud, sull'obiettivo designato e spaccare così in due lo schieramento avversario.

Esattamente come allora il nemico aveva spaccato in due lo schieramento nostro ed era dilagato in avanti fino a Udine e oltre con le Sturmtruppen, i battaglioni d'assalto, stavolta gli italiani gli avrebbero restituito la pariglia sfondando al centro delle due armate V° e VI°, con l'intenzione di superare i vecchi confini del 1866 e magari con la speranziella di arrivare fino a Innsbruck e, chissà, magari anche a Vienna.
Con le LORO truppe d'assalto: gli arditi, i bersaglieri ciclisti  e motociclisti e... le cavallerie.
Già, proprio le vetuste cavallerie, quelle i cui squadroni fino a Caporetto erano stati costretti a  restare in parte a presidio delle città, adibiti a semplici mansioni di ordine pubblico o di retrovia, oppure per la maggior parte a combattere appiedati sulle trincee come comuni fanti, trasformati in compagnie mitraglieri, in bombardieri di artiglieria, in battaglioni ciclisti, o al massimo in squadriglie di moderne autoblindomitragliatrici (ne erano state costituite ben 17, nel frattempo, per un totale di 100 mezzi, tutte Lancia 1 Z)...
Certo, i cavalli venivano tenuti in esercizio, a turno si passava al casermaggio, a rotazione venivano sostituiti con i nuovi acquisti, fatti quasi tutti dagli U.S.A., ma...
...Ma quella non era più cavalleria...

Anche per questo la cavalleria italiana aveva conosciuto un clamoroso esodo di tanti suoi figli, spesso i più ardimentosi e capaci, verso le nuove specialità degli arditi e soprattutto dell'aeronautica, vista come continuazione sul cielo dei duelli uomo contro uomo permeati degli ideali cavallereschi: almeno un terzo se non più di tutti i piloti veniva da lì, primo fra tutti proprio lo sfortunato Francesco Baracca, notevolissimo ufficiale del 2° Piemonte Cavalleria prima di diventare il più grande asso italiano della Grande Guerra.
Eppure, nonostante tutto, sarebbe stata lei, proprio lei, la negletta cavalleria, tornata di nuovo e finalmente cavalleria, a chiudere la partita.







SI AFFILANO LE ARMI

In contemporanea con la preparazione del piano d'attacco, si provvide anche a curare con estrema attenzione l'istruzione tattica delle truppe e persino il loro morale, aumentando gli spettacoli al fronte, concedendo con maggior larghezza le licenze, diffondendo i giornali da trincea, favorendo per quanto possibile l'attività dei postriboli sotto controllo militare.

Oltre a questo, vennero ovviamente inviate al fronte anche nuove divisioni fresche coi nuovi complementi della classe '99, spesso già ufficiali o aspiranti tali al termine di corsi accelerati di poche settimane, non più come nel recente passato mescolati indiscriminatamente coi veterani, ma al contrario uniti tutti insieme per quanto possibile in reparti omogenei per età ed esperienza militare, al fine di preservarne il naturale entusiasmo ed empito guerresco tipici dell'età giovanile, che la vicinanza coi più scafati, disillusi e spesso polemici anziani metteva fortemente a rischio.

Infine, si provvide a potenziare ancor di più il nostro strumento militare, già ampiamente ricostruito dopo le batoste di solo dodici mesi prima, facendo affluire in prima linea ulteriori batterie se non gruppi interi di artiglieria, per lo più di grosso e medio calibro, anche britanniche e francesi.
Questo peraltro avrebbe portato molta confusione soprattutto nel settore della IV° armata: Giardino avrebbe fatto sempre notare come l'avergli affidato molto tardi, praticamente una quindicina soltanto di giorni prima, non di più, il compito di attaccare sul Grappa fece sì che le nuove batterie inviate di rinforzo fossero ancora in via di schieramento, con gravi ricadute sull'organizzazione del tiro, nell'imminenza stessa dell'offensiva, tanto che addirittura 12 batterie giunte in posizione solo nella notte del 23 e nelle prime ore del 24 non poterono nemmeno prendere parte all'inizio dell'azione!
Tutto questo avrebbe rappresentato un grave problema, perché, come vedremo, al contrario le artiglierie del contrapposto Gruppo Belluno erano invece state disposte benissimo per tempo da quell'eccellente vecchio artigliere di von Goglia, e gli attaccanti italiani se ne sarebbero accorti ben presto.

Tra le misure prese per il rafforzamento delle nostre forze vi fu anche la costituzione in ottobre, più per motivi di opportunità politica che per effettiva necessità (insomma il prezzo da pagare per gli aiuti ricevuti) di due piccole armate a guida straniera, la XII° italo-francese affidata al generale corso Jean Cesar Graziani, di Bastia, e la X° italo-inglese posta agli ordini di Lord Frederick Lampart, Conte di Cavan, rispettivamente ai lati sinistro e destro della VIII° armata italiana: formalmente poste alle dipendenze di Caviglia, con lo scopo di fiancheggiarla nell'attacco, si sarebbero in realtà mosse un po' come pareva a loro, tanto che non mancano soprattutto all'estero coloro che addirittura ascrivono ad esse il successo finale.
Cosa del tutto errata, come vedremo.
E che conferma una volta di più, però, come forse Diaz non avesse del tutto torto a nicchiare...

Nell'ultima decade di ottobre del 1918 tutti i preparativi, da entrambe le parti, erano stati completati.
I due imponenti schieramenti nemici erano ormai pronti a sfidarsi per l'ultima, decisiva battaglia.
Solo quattro mesi dopo quella che sarebbe dovuta essere l'offensiva definitiva, quella che avrebbe dovuto portare all'annichilimento del secolare e odiatissimo nemico italiano, la situazione era ora completamente ribaltata.
La crisi di struttura dell'Impero di Vienna si sarebbe di lì a pochi giorni palesata in tutta la sua enormità quando le truppe italiane, enormemente rinforzatesi in numero e capacità bellica ed appoggiate dall'aria da migliaia di aeroplani tra caccia e bombardieri e dal mare dai cannoni della Regia Marina ormai padrona dell'Adriatico, sarebbero passate finalmente a loro volta all'offensiva, in contemporanea con quella alleata sulla Mosa contro i tedeschi, in quella che sarebbe stata chiamata la "Terza battaglia del Piave", ma tutti ora conoscono come "Battaglia di Vittorio Veneto".


PARTE TERZA


FINO ALL'ULTIMO SANGUE








16. LO SCHIERAMENTO ITALIANO

Il Regio Esercito aveva apprestato 56 divisioni di fanteria (5 di riserva), di cui 3 inglesi, 2 francesi, 1 cecoslovacca, e 4 di cavalleria (2 di riserva), con 16 reggimenti, cui si aggiungevano sempre tratti dalla cavalleria altri 9 reggimenti, più vari gruppi squadroni autonomi e le 17 squadriglie di autoblindomitragliatrici.
In totale si trattava di 1.100.000 effettivi distribuiti su 700 battaglioni, di cui 8 di battaglioni bersaglieri ciclisti e 31 di reparti d'assalto, con circa 7.750 cannoni (di cui 250 inglesi e 200 francesi).
Il Servizio Aeronautico al comando del Maggiore Generale Luigi Bongiovanni, da poco subentrato all'ottimo Tenente Generale Giovanni Battista Marieni (tornato alla testa del Comando del Genio dopo aver di fatto dato vita all'aviazione militare italiana, fino a quel momento integrata all'interno delle specialità Genio e Artiglieria), aveva messo a disposizione 25 gruppi volo per un totale di 84 squadriglie: di esse ben 64 erano state mandate dietro il fronte (con 6 sezioni autonome), per un totale di 1.055 aerei pronti all'impiego, comprese 20 squadriglie e 6 sezioni da difesa aerea. 

[Nota a margine] 
Sullo schieramento italiano ho fatto principalmente riferimento a http://xoomer.virgilio.it/ramius/Militaria/battaglia_vittorio_veneto_1918.html.

Su un fronte di complessivi 170 chilometri, metà tutti in montagna fino ai Ponti di Vidor e l'altra metà più o meno coincidente col corso del Piave da lì sino a Cortellazzo davanti al Mare Adriatico, ben otto armate di prima linea e una di riserva erano posizionate, da nord-ovest a sud-est, come segue:

SUL FRONTE DEL TRENTINO 


VII° ARMATA DELLE GIUDICARIE 
(TENENTE GENERALE GIULIO CESARE TASSONI)

Giulio Cesare Tassoni
(Montecchio Emilia, RE, 27/2/1859-
Roma, 10/10/1942)
Schierata tra il Passo dello Stelvio e la riva occidentale del Lago di Garda, con vista su Bolzano e Mezzolombardo, divisa su due corpi d'armata:

1) III° C.A. alpino (Tenente Generale Vittorio Camerana):

- 5° divisione alpina del Maggiore Generale Ugo Porta (IV° raggruppamento del parigrado Cesare Caviglia, col 7° e 19° gruppo; VII° raggruppamento di Adolfo Gazagne, con l'8° e il 16° gruppo).

- 75° divisione alpina del Maggior Generale Giovanni Arrighi (III° raggruppamento del colonnello Abele Piva, col 3° e l'11° gruppo; V° raggruppamento del Brigadiere Generale Alfonso Gazzano, col 2° e 15° gruppo), con aggregato il:

LI° reparto d'assalto degli arditi alpini (fiamme verdi)

2) XXV° C.A. (Tenente Generale Edoardo Ravazza):

- 11° divisione del parigrado Ettore Negri di Lamporo (brigata Pavia del Brigadiere Generale Baldassarre Monti, 27° e 28° reggimento; brigata Perugia del parigrado Napoleone Grilli, 129° e 130°).

- 4° divisione del Maggior Generale Giuseppe Viora (brigata Torino del Brigadiere Generale Ettore Buzio, con 81° e 82° reggimento; III° brigata bersaglieri del parigrado Sante Ceccherini, con 17° e 18° reggimento).

A disposizione di Tassoni:

VII° raggruppamento alpino del Brigadiere Generale Luigi Sapienza (12° e 14° gruppo).

- 7° reparto mitraglieri.

- Reggimento di cavalleria 29° Cavalleggeri di Udine del colonnello Giuseppe Manzotti (4 squadroni).

- Comando artiglieria: rispetto alle altre armate l'artiglieria era più modesta ed era formata da 3 reggimenti da campagna, 3 raggruppamenti pesanti campali, 6 raggruppamenti d'assedio, 3 gruppi e 4 batterie di bombarde, un raggruppamento contraereo.

- squadriglie aeree da caccia e ricognizione del IX°, XX° e XXIII° gruppo aeroplani.

OBIETTIVO: A Tassoni era affidato un compito più di presidio attivo e vigilanza che di attacco vero e proprio, ma doveva tenersi pronto ad avanzare rapidamente in caso di collasso nemico.

I° ARMATA DEL TRENTINO 
(TENENTE GENERALE CONTE GUGLIELMO PECORI GIRALDI)

Guglielmo Pecori Giraldi
(Borgo San Lorenzo, FI, 18/5/1856-
Firenze, 15/2/1941)
Schierata dal Garda fino alla Val d'Astico, con tre corpi d'armata:

1) V° C.A. (Tenente Generale Giovanni Ghersi):

- 55° divisione del Maggiore Generale Carlo Ferrario (Piceno del parigrado Giovanni Sirombo, 235° e 236°; Liguria del colonnello brigadiere Umberto Zamboni, 157° e 158°).

- 69° divisione del Maggiore Generale Alessandro Saporiti (Pallanza del Brigadiere Generale Giovanni Battista De Angelis, 249° e 250°; IV° bersaglieri del parigrado Renato Piola Caselli, 14° e 20° reggimento), con aggregato il:

4° gruppo alpino (colonnello Giovanni Faracovi).

2) X° C.A. (Tenente Generale Giovanni Cattaneo):

- 6° divisione del Maggior Generale Annibale Roffi (Valtellina del parigrado Teobaldo Rosati, 65° e 66°; Chieti del Brigadiere Generale Eugenio De Vecchi, 123° e 124°).

32° divisione del Tenente Generale Carlo Bloise (Acqui del Maggiore Generale Gaspare Leone, 17° e 18°; Volturno del Brigadier Generale Clelio Nascimbene, 217° e 218°).

3) XXIX° C.A. (Tenente Generale Vittorio De Albertis):

-26° divisione del Maggior Generale Giuseppe Battistoni (Pistoia del colonnello brigadiere Adriano Alberti, 35° e 36°; Vicenza del Brigadiere Generale Giovanni Guerra, 277° e 278°).

A disposizione di Pecori Giraldi:

XXIX° ed XXXI° reparto d'assalto.

1° reparto mitraglieri.

- Reggimento di cavalleria 14° Cavalleggeri di Alessandria del colonnello Ernesto Tarditi (5 squadroni).

Comando artiglieria: 7 reggimenti di artiglieria da campagna, 7 gruppi da montagna, 3 raggruppamenti e un gruppo autonomo pesanti campali, 12 raggruppamenti d'assedio, 4 gruppi e diverse batterie di bombarde, un raggruppamento antiaereo.

III° e XVI° gruppo aeroplani.

OBIETTIVO: Come per Tassoni, anche per Pecori Giraldi il compito era solo di presidio attivo e vigilanza, ma doveva tenersi pronto a scattare in avanti in caso di collasso nemico.

SUL FRONTE DI ASIAGO


VI° ARMATA DEGLI ALTIPIANI 
(TENENTE GENERALE LUCA MONTUORI)

Luca Montuori
(Avellino, 18/2/1859- Genova, 8/3/1952)
Posta sull'Altopiano dei Sette Comuni fino alla riva sinistra del Brenta, con altri tre corpi d'armata:

1) XII° C.A. (Tenente Generale Giuseppe Pennella):

20° divisione del Maggior Generale Gioacchino Pacini (Parma del colonnello brigadiere Giuseppe Boveri, 49° e 50°; Lario del parigrado Cesare Testafochi, 233° e 234°).

- 48° divisione South Midland inglese del Brigadiere. Generale Sir Harold Bridgwood Walker (143°, 144°, 145° brigata di fanteria, 240° e 241° brigata di artiglieria, 2 batterie di mortai da trincea e una compagnia genio pionieri).

2) XIII° C.A. (Tenente Generale Ugo Sani):

- 14° divisione del parigrado Principe Maurizio Gonzaga del Vodice (Pinerolo del Brigadiere Generale Carlo Perris, 13° e 14°; Lecce del parigrado Ruggero Santini, 265° e 266°).

- 28° divisione del Maggiore Generale Alessandro Tagliaferri (Padova del parigrado Carlo De Antoni, 117° e 118°; Teramo di Stanislao Mammuccari, 241° e 242°).

- 24° divisione francese del Brigadiere Generale Dominique Joseph Oudry (50°, 108° e 126° reggimento di fanteria, 34° artiglieria campale, 3 compagnie del genio zappatori);

3) XX° C.A. (Tenente Generale Giuseppe Francesco Ferrari):

- 7° divisione del parigrado Agostino Ravelli (Bergamo del Brigadier Generale Alessandro Giovagnoli, 25° e 26°; Ancona del parigrado Giulio Zanchi, 69° e 70°).

- 29° divisione del Maggior Generale Giuseppe Boriani (Murge del parigrado Eugenio Lombardi, 259° e 260°; Treviso del Brigadiere Generale Guido Malatesta, 99° e 100°).

A disposizione di Montuori:

LIII° e LXX° reparto d'assalto.

6° reparto mitraglieri.

18° reggimento Cavalleggeri di Piacenza del colonnello Camillo Iannelli (3 squadroni).

- Comando artiglieria: 4 raggruppamenti e 6 gruppi autonomi pesanti campali, 5 da campagna, 4 gruppi da montagna, 9 raggruppamenti d'assedio, 7 gruppi e 5 batterie autonome di bombarde, per un totale di 1.057 cannoni e 215 bombarde.

VII° e XXIV° gruppo aeroplani.

- VI° gruppo sezioni aerostieri.

OBIETTIVO: Anche la VI° armata aveva il compito solo di presidiare l'intero altopiano sulla direttrice Egna (Neumarkt)-Trento, ma le sue artiglierie avrebbero avuto un ruolo chiave di fiancheggiamento delle direttrici d'attacco principali. 

SUL MONTE GRAPPA


IV° ARMATA DEL GRAPPA 
(TENENTE GENERALE GAETANO GIARDINO)

Gaetano Ettore Stefano Giardino
(Montemagno, AT, 24/1/1864-
Torino, 21/11/1935)
Schierata dal versante orientale della Val Brenta fino a Cima Palon, sulle pendici occidentali del Monte Tomba, con tre corpi d'armata:

1) IX° C.A. (Tenente Generale Emilio De Bono).

Schierato sulla sinistra, dalle Rocce Anzini sino a Quota 1.490 (Sud di Casone-Col delle Farine):

17° divisione del Maggior Generale Adolfo Leoncini (Abruzzi del Brigadiere Generale Luigi Franchini, 57° e 58°; Basilicata del parigrado Giorgio Boccacci, 91° e 92°).

18° divisione del Maggiore Generale Luigi Rosacher (Calabria del Brigadiere Generale Filippo Martinengo, 59° e 60°; Bari del parigrado Benedetto Ruggeri, 139° e 140°).

- 21° divisione del Maggior Generale Alberto Cangemi (Forlì del parigrado Giulio Corradi, 43° e 44°; Siena del Brigadier Generale Nestore Fasolis, 31° e 32°), di riserva.

2) VI° C.A. (Tenente Generale Luigi Lombardi).
Schierato al centro, da Col delle Farine sino alla Val dei Lebi:

15° divisione del Tenente Generale Giuseppe Petilli (Cremona del Brigadier Generale Ferruccio Marincola di San Floro, 21° e 22°; Pesaro del Maggior Generale Carlo Castellazzi, 239° e 240°).

22° divisione del Maggior Generale Giovanni Battista Chiossi (Roma del Brigadier Generale Cesare Spalvieri, 79° e 80°; Firenze del parigrado Alberto Rovelli, 127° e 128°).

- 59° divisione del Maggiore Generale Isidoro Zampolli (Modena del Brigadiere Generale Luigi Doniselli, 41° e 42°; Massa Carrara del parigrado Francesco Bellotti, 251° e 252°), di riserva.

3) XXX° C.A. (Tenente Generale Umberto Montanari).
Schierato a destra, dalla Val dei Lebi fino al Monte Tomba (fianco a fianco col I° C.A. della XII°):

47° divisione del  Maggior Generale Nicola Gualtieri (Bologna del Brigadiere Generale Camillo Pagliano, 39° e 40°; Lombardia del parigrado Marcello De Luca, 73° e 74°).

50° divisione del Maggior Generale Giulio Fabbrini (Udine del Brigadiere Generale Arturo Maggi, 95° e 96°; Aosta del colonnello brigadiere Roberto Bencivenga, 5° e 6°).

80° divisione alpina del Maggior Generale Lorenzo Barco (VIII° raggruppamento del colonnello brigadiere Bartolo Gambi, 6° e 13° gruppo; IX° raggruppamento del Maggior Generale Achille Porta, 17° e 20° gruppo), di riserva. 

[Nota a margine sulla 50° divisione] 
La 50° divisione, agli ordini formalmente del Maggiore Generale Giulio Fabbrini, a causa di malattia contratta da quest'ultimo era retta sin dal 21 ottobre dal Brigadiere Generale Arturo Maggi, comandante della Udine, che ne avrebbe ceduto il comando il 26 al Maggior Generale Gastone Rossi.

A disposizione di Giardino:

Cinque reparti d'assalto di arditi (III°, IX°, XVIII°, XXIII°, LV°).

- Reggimento di cavalleria 21° Cavalleggeri di Padova del colonnello Raffaele Salvati.

- Comando artiglieria: un raggruppamento da montagna su 13  gruppi, 10 reggimenti da campagna, 2 raggruppamenti e 16 gruppi autonomi pesanti campali, 9 raggruppamenti d'assedio, 6 gruppi di bombarde più 10 batterie autonome, un raggruppamento contraereo, che insieme a quelle del vicino I° C.A. (2 reggimenti di artiglieria da campagna, 3 batterie di bombarde, un raggruppamento pesante campale) assommavano a un totale di 1.385 cannoni.

- II°, VI° e XII° gruppo aeroplani.

II° gruppo sezioni aerostieri.

OBIETTIVO: La IV° armata aveva l'ordine di prendere con un attacco a fondo l'intero massiccio e la Valsugana e arrivare a Primolano.

SULL'ALTO E MEDIO PIAVE


XII° ARMATA ITALO-FRANCESE 
(GENERALE D'ARMATA JEAN CESAR GRAZIANI)

Jean Cesar Graziani
(Bastia, 15/11/1859- Parigi, 8/2/1932)
Schierata con due corpi d'armata sulla destra del Monte Tomba fino ai Ponti di Vidor sul Piave:

1) I° C.A. italiano (Tenente Generale Donato Etna).
Schierato dal Monte Tomba fino al Piave, a diretto contatto col XXX° C.A. di Montanari, con:

70° divisione del Maggior Generale Giovanni Battista Raimondo (brigata Re del Brigadiere Generale Giusto Macario, 1° e 2° fanteria; Trapani del Maggior Generale Adolfo Bava, 149° e 150°; I° reparto d'assalto).

52° divisione alpina del Maggior Generale Pietro Ronchi (I° raggruppamento del Brigadier Generale Gerolamo Pezzana, 1° e 9° gruppo; II° raggruppamento del parigrado Arnaldo Garelli, 5° e 10° gruppo; LII° reparto d'assalto, fiamme verdi).

- 24° divisione del Maggior Generale Luigi Tiscornia (Gaeta del parigrado Augusto Borra, 263°  e 264°; Taranto del Brigadier Generale Giuseppe Saccomani, 143° e 144°), di riserva in piano, a nord di Pagnano. 

[Nota a margine]
Donato Etna
(Mondovì, CN, 15/6/1858-
Torino, 11/12/1938)
A puro titolo di cronaca, segnalo che del Generale degli Alpini Donato Etna, nato ufficialmente a Mondovì (CN) da genitori ignoti il 15 giugno 1858, un appunto dattiloscritto conservato nella cartella biografica dell'Archivio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (A.S.S.M.E.) lo definisce figlio naturale di Re Vittorio II°, secondo il sito web Genealogie delle Famiglie Nobili Italiane di una ignota maestra di Frabosa (CN), unico tra i figli naturali a non assumere all'anagrafe il cognome Guerriero/i.
(V. https://it.wikipedia.org/wiki/Donato_Etnahttps://notes9.senato.it/Web/senregno.NSF/876b34df7222a9fac125785e003ca629/3616b1245c874f3a4125646f005b70af?OpenDocumenthttp://www.treccani.it/enciclopedia/donato-etna_(Dizionario-Biografico)/)

2) C.A. francese (al diretto comando di Graziani)-
Più addossato al settore dell'Alto Piave, con la sola:

- 23° divisione francese del Brigadier Generale Ernest Bonfait (78°, 107°, 138° fanteria, 21° cacciatori a cavallo, 21° artiglieria campale, 5° gruppo del 112° artiglieria pesante, 3 compagnie del genio zappatori).

A disposizione di Graziani:

- Sei reparti mitraglieri.

- 4° compagnia motomitraglieri.

12° compagnia del genio minatori italiana.

- Comando artiglieria: due raggruppamenti di artiglieria d'assedio, due gruppi di bombarde.

 22° e 254° gruppo caccia francesi, 1° squadriglia autonoma da caccia francese.

OBIETTIVO: Formalmente tutta subordinata all'VIII° armata di Caviglia, in realtà la XII° doveva col suo I° C.A. italiano a destra fiancheggiare e proteggere l'azione della IV° di Giardino, con l'obiettivo di prendere il Monte Madal, Alano, la Stretta di Quero e spingersi fino al Monte Tusno a sud del Tomatico per dominare il corso del Piave, mentre a sinistra col C.A. francese (che poi si identificava come sappiamo con la sola divisione francese di Bonfait) doveva fare lo stesso a favore appunto delle truppe di Caviglia, con obiettivo Feltre.

[Nota a margine]
Di fatto i due corpi sarebbero andati avanti ognuno per conto suo, anche perché la loro linea di avanzata era praticamente coincidente, solo con vista per l'uno sul Grappa e per l'altro più sull'Alto Piave. In particolare erano così individuati

VIII° ARMATA DEL MONTELLO 
(TENENTE GENERALE ENRICO CAVIGLIA)

Enrico Caviglia
(Finale Ligure, SV, 4/5/1862- 22/3/1945)
Schierata tutta da Vidor al Ponte della Priula, la più grossa e potente di tutte, con quattro corpi d'armata "normali" ed uno d'assalto:

1) VIII° C.A. (Tenente Generale Asclepia Gandolfo):

- 48° divisione del Tenente Generale Michele Salazar (Tevere del Brigadiere Generale Augusto Ziliano, 215° e 216°; Aquila del colonnello brigadiere Pietro Belloni, 269° e 270°).

- 33° divisione del Maggior Generale Carlo Sanna (Sassari del parigrado Francesco Corso, 151° e 152°; Bisagno del Brigadier Generale Giuseppe Barbieri, 209° e 210°).

- 58° divisione del Maggior Generale Roberto Brussi (Piacenza del colonnello brigadiere Silvio Egidi, 111° e 112°; Lucca del Brigadiere Generale Pietro Valerio-Papa, 163° e 164°).

2) XVIII° C.A. (Tenente Generale Luigi Basso):

- 10° divisione del Tenente Generale Francesco Gagliani (Toscana del Brigadier Generale Gioachino Nastasi, 77° e 78°; I° bersaglieri del Brigadier Generale Giuseppe Cassola, 6° e 12°).

1° divisione del Maggior Generale Pio Ivrea (Umbria del Maggior Generale Carlo Mercalli, 53° e 54°; Emilia del parigrado Emanuele Del Prà, 119° e 120°).

- 56° divisione del Maggior Generale Alessandro Vigliani (Como del Brigadier Generale Paolo Tommasini, 23° e 24°; Ravenna del parigrado Vittorio Balbo Bertone di Sambuy, 37° e 38°).

3) XXII° C.A. (Tenente Generale Giuseppe Vaccari):

- 12° divisione del Maggior Generale Sigismondo Monesi (Casale del Brigadier Generale Giustino Fedele, 11° e 12°; V° bersaglieri del parigrado Ambrogio Clerici, 5° e 19°).

57° divisione del Tenente Generale Luigi Cicconetti (Pisa del colonnello Ariberto Perrone, 29° e 30°; Mantova del Brigadier Generale Paolo Paolini, 113° e 114°).

- 60° divisione del Maggior Generale Pietro Mozzoni (Piemonte del colonnello Domenico Mogno, 3° e 4°; Porto Maurizio del Maggiore Generale Cesare Salomone Luzzatto, 253° e 254°).

[Nota a margine su Cesare Salomone Luzzatto]
Cesare Salomone Luzzatto
(Trieste, 2/12/1870-
Auschwitz, Polonia, 27/9/1944)
Il pluridecorato Generale d'artiglieria triestino Cesare Salomone Luzzatto, comandante della brigata Porto Maurizio, dopo una vita dedicata alla Patria il 1° gennaio 1939 a causa della sua origine ebraica sarebbe stato posto in congedo assoluto da generale di divisione e privato della cittadinanza in conformità di quanto prescritto dalle leggi razziali.
Nell'agosto 1944 sarebbe stato addirittura deportato insieme con la moglie Elisa Popper prima nella famigerata risiera di San Sabba a Trieste, poi ad Auschwitz, da cui entrambi non sarebbero più ritornati.
(V. http://temidistoria.altervista.org/un-sommerso-di-auschwitz-cesare-salomone-luzzatto/).

4) XXVII° C.A. (Tenente Generale Antonino Di Giorgio):

- 2° divisione del Maggior Generale Vittorio Emanuele Pittaluga (Regina del Brigadier Generale Clemente Assum, 9° e 10°; Livorno del parigrado Francesco Gualtieri, 33° e 34°).

- 66° divisione del Maggior Generale Carmelo Squillace (Cuneo del Brigadiere Generale Enrico Lodomez, 7° e 8°; Messina del parigrado Enrico De Bourcard, 93° e 94°).

51° divisione del Tenente Generale Emanuele Pugliese (Reggio del Brigadier Generale Attilio Zincone, 45° e 46°; Campania del parigrado Vincenzo Carbone, 135° e 136°).

[Nota a margine su Emanuele Pugliese]
Anche il pluridecorato Generale di fanteria vercellese Emanuele Pugliese, comandante della 51° divisione, pure lui di origine ebraica, ebbe l'amarezza di vedersi mettere d'autorità in congedo assoluto da Generale di Corpo d'Armata e privare della cittadinanza italiana nel novembre 1938 a causa dell'entrata in vigore delle leggi razziali: riuscito a differenza di Luzzatto a sopravvivere alla guerra dopo essersi rifugiato presso un convento di suore, ebbe una durissima e pluriennale polemica con Emilio Lussu, ministro dell'Assistenza postbellica nel governo Parri, ex ufficiale della Sassari nella Grande Guerra e leader del Partito Sardo d'Azione, che lo accusava apertamente di alto tradimento da punire con la fucilazione per non essersi opposto, quale comandante della 16° divisione preposta alla difesa della Capitale, alla Marcia su Roma: il durissimo scontro, giunto addirittura alle soglie del duello, finì il 20 gennaio 1961, quando Lussu ritirò l'accusa, ammettendo che il generale si era limitato ad obbedire agli ordini superiori.
Emanuele Pugliese si sarebbe spento 93enne il 26 settembre 1967.
(V. http://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-pugliese_(Dizionario-Biografico)/).

5) C.A. d'assalto (Tenente Generale Francesco Saverio Grazioli):

1° divisione d'assalto del Maggior Generale Ottavio Zoppi (I° raggruppamento d'assalto del colonnello brigadiere Oreste De Gaspari, col 1°, 2° e 3° gruppo d'assalto; III° battaglione ciclisti del 3° bersaglieri; V° squadrone del 18° Cavalleggeri di Piacenza; 15° squadriglia autoblindomitragliatrici; IX° gruppo "Oneglia" del 3° artiglieria da montagna; XCI° genio zappatori).

- 2° divisione d'assalto del Maggior Generale Ernesto De Marchi (II° raggruppamento d'assalto del Brigadier Generale Edoardo Bessone, col 4°, 5° e 6° gruppo d'assalto; XI° battaglione ciclisti dell'11° bersaglieri; VI° squadrone del 18° Cavalleggeri di Piacenza; 12° squadriglia autoblindomitragliatrici; XII° gruppo "Como" del 3° artiglieria da montagna; XCII° genio zappatori).

[Nota a margine sui gruppi d'assalto]
Ogni gruppo d'assalto delle due divisioni, comandato da un colonnello, si componeva di due reparti arditi (fiamme nere) e un battaglione bersaglieri (per i particolari sui nomi dei comandanti e sulle numerazioni dei reparti si veda nei capitoli che li riguardano).

Al C.A. d'assalto, nel corso dell'offensiva, sarebbero state aggregate, tratte dalla riserva d'armata,  anche:

- 1° divisione di cavalleria Friuli (Maggior Generale Pietro Filippini), con la I° brigata del Brigadier Generale Filippo Solari di Recanati (13° Cavalleggeri del Monferrato del colonnello Domenico Maggi e 20° Cavalleggeri di Roma del parigrado Camillo Filipponi di Mombello, entrambi su 5 squadroni) e la II° del Brigadier Generale Giorgio Emo di Capodilista (4° Genova Cavalleria del colonnello Luigi Celebrini di San Martino e 5° Lancieri di Novara del parigrado Maurizio Marsengo, su 5 squadroni), il 1° gruppo bersaglieri ciclisti (III° battaglione del 3° reggimento, IV° del 4° e XII° del 12°), l'8° squadriglia autoblindomitragliatrici e il I° gruppo del reggimento artiglieria a cavallo "Le Voloire".

- 4° divisione di cavalleria Piemonte (Maggior Generale Warimondo Barattieri di San Pietro), con la VII° brigata del Brigadier Generale Arturo Milanesi (1° Nizza Cavalleria del colonnello Luigi Tosti e 26° Lancieri di Vercelli del parigrado Luigi Rochis, su 5 squadroni) e l'VIII° del Brigadier Generale Ettore Varini (19° Cavalleggeri Guide del colonnello Guido Mori Ubaldini e 28° Cavalleggeri di Treviso del parigrado Carlo Giubbilei, su 5 squadroni), il 3° gruppo bersaglieri ciclisti (I° battaglione del 1° reggimento, VII° del 7° e VIII° dell'8°), la 3° compagnia motomitragliatrici, la 9° squadriglia autoblindomitragliatrici e il IV° gruppo del reggimento artiglieria a cavallo "Le Voloire".

- Altri due reggimenti autonomi di cavalleria, il 9° Lancieri di Firenze (5 squadroni, colonnello Paolo Piella) e il 17° Cavalleggeri di Caserta (5 squadroni, colonnello Adolfo Milani).

XXVII° e LXXII° reparto d'assalto.

- 8° reparto mitraglieri.

- 1° compagnia motomitragliatrici.

3°, 6°, 11° e 13° squadriglia autoblindomitragliatrici.

A disposizione di Grazioli:

Gruppo d'assalto di marcia (X° e XI° reparto d'assalto di marcia).

Comando III° gruppo squadroni del 18° Cavalleggeri di Piacenza.

- Commando artiglieria: XXIV° gruppo territoriale del 3° artiglieria da montagna, XXIX° gruppo territoriale del 1° artiglieria da montagna, 4 raggruppamenti da montagna, uno da campagna su sei gruppi, 3 raggruppamenti pesanti campali su 26 gruppi, 11 raggruppamenti d'assedio, 9 gruppi da posizione, 8 gruppi di bombarde, un raggruppamento contraerei.

XV°, XIX° e XX° gruppo aeroplani.

- VII°, IX° e X° gruppo sezioni aerostieri.

OBIETTIVO: L'VIII° armata doveva effettuare lo sforzo offensivo principale, con il compito di sfondare nella pianura e occupare il paese di Vittorio, mentre la X° aveva il compito di fiancheggiarne l'azione sulla destra riconquistando le Grave di Papadopoli, un insieme di isolotti e sabbie ghiaiose affioranti nel bel mezzo del fiume a nord di Treviso, e di occupare Sacile e Portobuffole per tagliare la ritirata al nemico in fuga sulla pianura veneta.
Proprio per questo la maggior parte delle artiglierie era schierata proprio nel settore che andava da Pontebba alle Grave, circoscritto tra le competenze del C.A. francese a sinistra, l'VIII° armata al centro e la X° italo-inglese a destra, per un totale di ben 3.570 cannoni, di cui 1.300 di medio e grosso calibro sul Montello, diverse batterie da 381 a ovest di Nervesa da utilizzare contro Vittorio e 600 bombarde.

X° ARMATA ITALO-INGLESE 
(TENENTE GENERALE LORD FREDERICK LAMBART, X° CONTE -EARL- DI CAVAN)

Frederick Lambart, Lord Cavan
(Ayot St. Lawrence, 16/10/1865-
Londra, 28/8/1946)
Sul suo fianco destro e formalmente alle sue dipendenze, schierata fino a Ponte di Piave con due corpi d'armata:

1) XIV° C.A. inglese (Tenente Generale Sir James Melville Babington):

- 7° divisione del Maggior Generale Thomas Herbert Shoubridge (20°, 22° e e 91° brigata di fanteria, 22° e 35° brigata di artiglieria campale, 2 batterie di mortai da trincea più un battaglione pionieri).

- 23° divisione del Maggior Generale K.M. Thuillier (68°, 69° e 70° brigata di fanteria,  un gruppo squadroni di cavalleria, la 102° e la 103° brigata di artiglieria campale, 2 batterie di mortai da trincea e un altro battaglione pionieri).

- 332° reggimento di fanteria del colonnello William Wallace, l'unica unità americana in Italia.

2) XI° C.A. italiano (Tenente Generale Giuseppe Paolini):

- 37° divisione del Maggior Generale Giovanni Castagnola (brigata Macerata del Brigadier Generale Florenzio Tagliaferri, 121° e 122°; brigata Foggia del parigrado Raffaele Radini Tedeschi, 280° e 281°).

23° divisione bersaglieri del Tenente Generale Gustavo Fara (VI° brigata del Brigadiere. Generale Giovanni Dho, 8° e 13°; VII° del parigrado Alessandro Birzio-Biroli, 2° e 3°).

- XI° reparto d'assalto.

- Uno squadrone di cavalleria dell'11° Cavalleggeri di Foggia.

- Tre battaglioni del genio: due pontieri, uno zappatori.

- 10° e 14° squadriglia autoblindomitragliatrici.

- Artiglieria: 2 reggimenti di artiglieria da campagna ed un gruppo bombarde.

A disposizione di Lord Cavan:

- Comando artiglieria: 2 raggruppamenti di artiglieria da campagna, 3 gruppi di artiglieria da montagna, 2 di artiglieria pesante campale su 15 gruppi, 3 raggruppamenti di artiglieria da assedio.

- 14° stormo aereo britannico (gruppi 28°, 34°, 39° e 66°).

- 28° squadriglia aeroplani italiana.

- III° gruppo sezioni aerostieri.

SUL BASSO PIAVE

III° ARMATA DEL PIAVE 
(TENENTE GENERALE DUCA EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA-AOSTA)

Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta
(Genova, 13/1/1969- Torino, 4/7/1931)
Schierata da Ponte di Piave fino al mare, con due corpi d'armata:

1) XVI° C.A. (Tenente Generale Vittorio Luigi Alfieri):

- 45° divisione del Maggior Generale Giovanni Breganze (Sesia del Brigadier Generale Luigi Coppola, 201° e 202°; Cosenza del parigrado Ermenegildo Padovin, 243° e 244°).

- 54° divisione del Maggior Generale Ulderico Pajola (Granatieri di Sardegna del Maggior Generale Gaetano Rossi, 1° e 2° granatieri; Novara del parigrado Carlo Torti, 153° e 154°). 

[Nota a margine su Vittorio Luigi Alfieri]
Vittorio Luigi Alfieri
(Perugia, 3/7/1863-
Musestre di Roncade, TV, 8/11/1918)
Il Generale degli Alpini Vittorio Luigi Alfieri, uomo di vasta cultura ed apertura mentale, Ministro delle Armi e Munizioni prima di Caporetto con Boselli Presidente del Consiglio e poi Ministro della Guerra col successore Vittorio Emanuele Orlando, nominato anche da Vittorio Emanuele Senatore del Regno subito dopo Caporetto, famoso per essere colui che, conoscendolo sin dai tempi della Scuola di Guerra, fece per primo il nome del quasi sconosciuto Armando Diaz al Re come sostituto di Cadorna, garantendo pubblicamente per lui in Senato ("Me ne faccio mallevadore"), dopo aver ricostruito dalle fondamenta e ridato un'anima all'esercito uscito a pezzi alla fine del 1917 chiese di ritornare in prima linea dopo alcuni dissapori avuti con Orlando, ottenendo il comando del XVI° C.A.
Avrebbe fatto però appena a tempo a vedere i suoi uomini entrare vittoriosi a Trieste: colpito dalla febbre spagnola degenerata in broncopolmonite, si spense a Musestre di Roncade (TV) l'8 novembre 1918.

2) XXVIII° C.A. (Tenente Generale Giovanni Croce):

- 25° divisione del Tenente Generale Giulio Latini (Ferrara del Maggior Generale Ferdinando Spreafico, 47° e 48°; Avellino del colonnello brigadiere Ezio Zanetti, 231° e 232°).

- 53° divisione del Maggior Generale Emanuele Del Prà (Jonio del parigrado Gianni Metello, 221° e 222°; Potenza del Brigadier Generale Emilio Giampietro, 271° e 272°).

A disposizione di Emanuele Filiberto:

Tre reparti d'assalto (XV°, XXVI° e XXVIII°).

- Tre reggimenti autonomi di cavalleria (il 2° Piemonte Reale Cavalleria del colonnello Pio Angelini, su 5 squadroni, l'11° Cavalleggeri di Foggia del parigrado Calisto Gazelli di Rossana, su 4, ed il 27° Cavalleggeri de l'Aquila di Riccardo Devoto, su 4).

- 3° reparto mitraglieri.

- Tre battaglioni della Guardia di Finanza.

- CCXCIC° battaglione costiero.

- Reggimento marina (capitano di vascello Giuseppe Sirianni), coi quattro battaglioni Andrea Bafile, Grado, Caorle e Golametto.

- I°, V° e XVIII° gruppo aeroplani.

- I° raggruppamento aerostieri.

- Un raggruppamento antiaereo.

- Un raggruppamento artiglieria di marina (capitano di vascello Foschini).

- Comando artiglieria: 4 raggruppamenti di artiglieria da assedio, 1 pesante campale, 6 reggimenti da campagna, 3 gruppi e 4 batterie autonome di bombarde.

OBIETTIVO: La III° armata aveva il compito di impegnare sul Basso Piave la V° armata di von Wurm e di passare all'offensiva appena l'VIII° di Caviglia avesse sfondato.

COME RISERVA GENERALE


IX° ARMATA 
(TENENTE GENERALE PAOLO MORRONE)

Paolo Morrone
(Torre Annunziata, NA, 3/7/1854-
Roma, 4/1/1937)
Posta nelle retrovie, con due corpi d'armata:

1)
 XIV° C.A. (Tenente Generale Pier Luigi Sagramoso):

- 9° divisione del Maggior Generale Francesco Bertolini (Catanzaro del Brigadier Generale Augusto Ragusin, 141° e 142°; II° bersaglieri del parigrado Felice Coralli,  7° e 11°).
- 34° divisione del Tenente Generale Cesare Parigi (Venezia del Brigadier Generale Raffaele Rechini, 83° e 84°; Friuli del colonnello brigadiere Carlo Giordana, 87° e 88°).

2) XXIII° C.A. (Tenente Generale Carlo Petitti di Roreto):

- 61° divisione del Maggior Generale Vincenzo Di Benedetto (Catania del Brigadier Generale Angelo Martinengo di Villagana, 145° e 146°; Arezzo del Maggior Generale Riccardo Bonaini da Cignano, 225° e 226°).
- 6° divisione cecoslovacca  del Maggior Generale Luigi Piccione, con l'XI° brigata di fanteria del Brigadier Generale Raffaele De Vita, 31° e 32°, e la XII° di fanteria del parigrado Pietro Cajo, 33° e 34°).


COME RISERVA DELL'ALTO COMANDO


Principe Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta
Conte di Torino
(Torino, 24/11/1870-
Bruxelles, 10/10/1946)
1) COMANDO GENERALE DI CAVALLERIA (TENENTE GENERALE PRINCIPE VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA-AOSTA, CONTE DI TORINO):

- 2° divisione di cavalleria Veneto (Maggior Generale Vittorio Litta Modignani), con la III° brigata del Brigadier Generale Luigi Ajroldi di Robbiate (7° Lancieri di Milano del colonnello Ulrico Pastore e 10° Lancieri Vittorio Emanuele II° del parigrado Pietro Panicali, entrambi su 5 squadroni) e la IV° del Brigadier Generale Arnaldo Filippini (6° Lancieri di Aosta del colonnello Arnaldo De Ruggero e 25° Lancieri di Mantova del parigrado Annibale Avogadro di Collobiano, su 5 squadroni), più il VII° battaglione ciclisti del 7° bersaglieri,  la 7° squadriglia autoblindomitragliatrici e il II° gruppo del reggimento artiglieria a cavallo "Le Voloire".

- 3° divisione di cavalleria Lombardia (Maggior Generale Carlo Guicciardi di Cervarolo), con la V° brigata del Brigadiere Generale Lionello Poveri Fontana (8° Lancieri di Montebello del colonnello Augusto Tavani e 24° Cavalleggeri di Vicenza del parigrado Felice Pasetti, su 5 squadroni) e la VI° del Brigadier Generale Gustavo Berardi (3° Savoia Cavalleria del colonnello Amedeo Marchino e 12° Cavalleggeri di Saluzzo del parigrado Enrico Sarlo, entrambi su 5 squadroni), più la 1° squadriglia autoblindomitragliatrici e il III° gruppo del reggimento artiglieria a cavallo "Le Voloire".

2) Una ulteriore divisione di fanteria:

- 27° divisione (Tenente Generale Giuseppe Cassinis), con la brigata Marche del Brigadier Generale Camillo Lefevre (55° e 56°) e la Taro del Maggior Generale Augusto Testoni (207° e 208°).

A DISPOSIZIONE DEL COMANDO SUPREMO

-Raggruppamento aeroplani da bombardamento del colonnello Ernesto Lapolla (IV°, XIII° e XVI° gruppo bombardamento pesante).
-Raggruppamento aeroplani da caccia del colonnello Ruggero Piccio col X° gruppo aereo (quello delle squadriglie più famose: 70°, 82° e 91°).
- Gruppo dirigibili (dirigibili M1, P1, P2, P3, P5).
- Cinque gruppi sezioni aerostieri (X°, XI°, XIV°, XVIII° e XXII°), più una sezione aerostieri da campo.

13. LO SCHIERAMENTO AUSTRO-UNGARICO

La Kaiserliche und Konigliche (K.u.K.) Armee austro-ungarica, l'Imperial-Regio Esercito, formata dalla truppe imperiali K.u.K. e da quelle territoriali, austriache (Kaiserlisch-Konigliche K.K. Landwehr) e ungheresi (Koniglich-ungarische K.u. Honved), che peraltro inglobavano spesso forze appartenenti ad altre etnie (slave, polacche, cecoslovacche, romene e ucraine), schierava circa 800.000 uomini su 50 divisioni di fanteria (609 battaglioni di fanteria, 20 di LandesSchutzen, tiratori austriaci, e di Kaiserjeger, cacciatori imperiali) e 5 di cavalleria, 3 appiedate e 2 no (erano disponibili in totale 62 reggimenti appiedati e 56 squadroni a cavallo), appoggiate dal fuoco di 6.800 cannoni.

Sembra che la K.u.K. Luftfahrtruppen, l'aviazione austro-ungarica, dal 1° ottobre passata al comando del Maggior Generale Otto Ellison von Nidlef, disponesse al momento della battaglia ancora di un battaglione (l'equivalente di uno stormo), in seno all'XI° armata, di 59 squadriglie autonome (FliegerKompanien, FliK), solo di 5 da bombardamento (tutte in carico alla riserva della V° armata), più 20 di aerostati (tutte a guardia del Piave, i due terzi in seno alla VI°, il resto nella V° armata) e una decina di FliK da addestramento: di fatto però non si videro praticamente mai aerei nemici sui cieli italiani di quei giorni.

[Nota a margine]
Sullo schieramento austro-ungarico ho fatto riferimento a questi due link:  http://xoomer.virgilio.it/ramius/Militaria/1GM_austria_esercito1918_1.html http://xoomer.virgilio.it/ramius/Militaria/1GM_austria_esercito1918_2.html.

Per questioni di spazi e scorrevolezza narrativa ho citato solo le unità principali delle singole divisioni e armate: ovviamente erano presenti anche piccole unità indivisionate e/o inquadrate a parte nell'ambito dei singoli corpi o armate, quali battaglioni e mezzi battaglioni d'assalto, unità di artiglieria, cavalleria, fanteria, genio, etc.
Volta per volta, se necessari al contesto della narrazione, potrebbero essere citati.
Se non ho indicazioni certe sulla natura territoriale K.K. Landwehr o K.u. Honved delle unità citate do per scontato trattarsi di truppe imperial-regie K.u.K.

GRUPPO D'ARMATE DEL TIROLO 
(GENERALE D'ARMATA ARCIDUCA  GIUSEPPE D'ASBURGO -LORENA)


SUL FRONTE DEL TRENTINO E DEGLI ALTIPIANI


X° ARMATA 
(FELDMARESCIALLO ALEXANDER VON KROBATIN)


Alexander von Krobatin
(Olomouc, Cechia, 12/9/1849-
Vienna, 28/9/1933)
Era posizionata dallo Stelvio al fiume Astico, con quattro corpi d'armata su 6 divisioni (una di cavalleria), più una divisione e una brigata di riserva, con 1.230 cannoni:

1) V° C.A. (Feldmaresciallo Arciduca Pietro Ferdinando di Asburgo-Lorena):

- 22° divisione territoriale austriaca K.K. Landwehr Schutzen stiriana di Graz (Tenente Generale Rudolf Muller), con la 43° e 44° brigata di fanteria e la  22° di artiglieria, veterana di Caporetto.

- 164° brigata di fanteria K.K. Landwehr, con aggregate di rinforzo l'altra 163° brigata di fanteria K.K. Landwehr  e la 39° di artiglieria K.u. Honved.

2) XX° C.A. (Feldmaresciallo Franz Kalser Edler von Mansfeeld):

- 49° divisione K.u.K. di Vienna (Tenente Generale Franz Edler von Steinhart, con 97° e 98° brigata di fanteria e 49° di artiglieria.

Raggruppamento "Riva del Garda" del Tenente Generale Anton Schiesser Edler von Reifegg, più di rinforzo la 3° brigata  di artiglieria K.u.K. di Graz.

3) XXI° C.A. (Generale di Fanteria Kasimir von Lutgendorf):

- 3° divisione di cavalleria K.u.K. di Vienna (Tenente Generale Johann Edler von Kopecek), con la 5° brigata di cavalleria e la 19° di artiglieria.

56° divisione K.K. Landwehr Schutzen (Tenente Generale Joseph Edler von Kroupa), con la 111° e 112° brigata di fanteria e la 56° di artiglieria.

4) XIV° C.A. Edelweiss (Generale di Fanteria Ignaz Verdross Edler von Drossberg):

- 8° divisione K.u.K. KaiserJaeger (Maggior Generale Felix Principe zu Schwarzenberg), con la 1° e 2° brigata KaiserJaeger e l'8° di artiglieria di Praga.

- 19° divisione  K.u.K. ceca di Pilsen (Tenente Generale Wilhelm von Elmar), con la 37° e 38° brigata di fanteria e 40° di artiglieria, più di rinforzo la 6° brigata K.u.K. di fanteria.

Riserva d'armata:

- Assegnata dalla X° armata, a disposizione diretta del Feldmaresciallo von Krobatin:

- 159° brigata K.K. Landwehr di fanteria.

Assegnata dal Gruppo d'Armate del Tirolo, a disposizione diretta dell'Arciduca Giuseppe:

3° divisione K.u.K. da montagna Edelweiss stiriana di Linz del Tenente Generale Heinrich Wieden Edler von Alpenbach, con la 5° brigata di fanteria, il 3° battaglione d'assalto, il 3° squadrone del 1° reggimento K.K. Landwehr a cavallo, il 3° gruppo di artiglieria da montagna

XI° ARMATA 
(FELDMARESCIALLO VIKTOR GRAF VON SCHEUCHENSTEL)


Viktor Graf von Scheuchenstel
(Wiktowitz, Moravia, 10/5/1857-
Vienna, 17/4/1938)
Era schierata dalla Val d'Astico al Brenta, con tre corpi d'armata, su 9 divisioni di cui 2 di cavalleria, più 4 divisioni e una brigata d'artiglieria di riserva, e 1.120 cannoni:

1) III° C.A. (Generale d'Armata Hugo Mariny von Malastòw):

- 6° divisione K.u.K. di cavalleria polacca di Jaroslau (Jaroslaw) (Tenente Generale Dom Miguel Herzog von Bragança), col 6° reggimento Dragoni, 15° Ussari, 6° assalto, 6° brigata di artiglieria a cavallo.

- 6° divisione K.u.K. di Graz (Maggior Generale Sigismund Joseph Ritter Schilhawsky von Bahnbruck) con l'11° e 12° brigata di fanteria, 2° brigata di artiglieria, più di rinforzo le aggregate 11° brigata di cavalleria e 28° di artiglieria.

- 52° divisione K.u.K. (Maggior Generale Rudolph Schamschula), con la 103° e 104° brigata di fanteria e la  52° di artiglieria.

2) XIII° C.A. (Generale di Fanteria ungherese Friedrich Csanàdy von Bekes):

- 27° divisione K.u.K. cecoslovacca di Kassa (Kosice) (Maggior Generale Hermann Sallagar), con la 53° e 54° brigata di fanteria, la 16° brigata di artiglieria e di rinforzo la 5° di artiglieria.

- 38° divisione K.u. Honved (Tenente Generale Desiderius Molnàr von Péterfalva), con la 75° e 76° brigata di fanteria, la 74° di artiglieria, più di rinforzo la 10° brigata di artiglieria a cavallo.

10° divisione di cavalleria K.u.K. di Vienna (Tenente Generale Viktor Bauer von Bauernthal), con la 19° e 20° brigata di cavalleria, più il 10° mezzo battaglione d'assalto.

In posizione di riserva del XIII° corpo d'armata:

- 31° brigata di formazione (2° e 138° fanteria, 13° cavalleria Ussari, 3 batterie di artiglieria campale K.u. Honved e 6 di artiglieria pesante).

3) VI° C.A. (Generale di Fanteria Viktor Weber Edler von Webenau):

- 53° divisione K.u.K. (Maggior Generale Karl Korzer), con la 105° e 106° brigata di fanteria, la 6° di artiglieria, più la aggregata 118° brigata di artiglieria di rinforzo.

- 18° divisione K.u.K. bosniaca di Mostar (Maggior Generale Julius Vidalè von San Martino), con la 35° e 36° brigata di fanteria e la 15° di artiglieria.

39° divisione K.u. Honved (Maggior Generale Joseph Breit von Doberdò), con la 77° e 78° brigata K.u. Honved di fanteria e la  36° di artiglieria.

Riserva d'armata:

Assegnate alla XI° armata, a disposizione diretta del Feldmaresciallo von Scheuchenstel:

- 5° divisione K.u.K. morava di Olmutz (Olomouc) (Maggior Generale Adalbert von Felix), con la 9° e 10° brigata di fanteria.

16° divisione K.u.K. ungherese-romena di Nagyszeben (Sibiu) (Tenente Generale Johann Fernengel), con la 31° e 32° brigata di fanteria.

- 38° brigata d'artiglieria K.u. Honved. 

Assegnate al Gruppo d'Armate del Tirolo, a disposizione diretta dell'Arciduca Giuseppe:

- 74° divisione K.u. Honved (Tenente Generale Eugen Perneczky), con le brigate di fanteria "Papp" e "Savoly".

[Nota a margine sulla 74° divisione] 
Sin dagli inizi del mese di ottobre Pernecsky fu sostituito dal parigrado Adalbert Benke von Tardoskedd.

- 36° divisione K.u.K. croata di Zagabria (Tenente Generale Maximilian von Nohring), con la 71° e 72° brigata di fanteria.


GRUPPO D'ARMATE DELL'ISONZO 
(FELDMARESCIALLO SVETOZAR BOROEVIC VON BOJNA)

A seguire dal Brenta fino al mare, a copertura dell'intero corso del Piave, il Gruppo d'Armate dell'Isonzo di Svetozar Boroevic von Bojna:

SUL FRONTE DEL GRAPPA E DELL'ALTO PIAVE

GRUPPO BELLUNO 
(FELDMARESCIALLO FERDINAND GOGLIA RITTER VON ZLOTA LIPA  )


Ferdinand Goglia Ritter von Zlota Lipa
(Budapest, 13/9/1855- Vienna, 17/9/1941)
Era schierato dal Brenta al Fener (Monte Grappa compreso), formato da tre corpi d'armata per un totale di 10 divisioni più 2 di riserva da 13 battaglioni ciascuna, con un totale di 1.460 pezzi di artiglieria.
Comprendeva probabilmente le migliori divisioni di cui gli austro-ungarici potessero in quel momento disporre, tra cui alcune delle migliori di Caporetto: la quattro divisioni di fanteria K.u.K. 4°, 50°, 55° e 60°la 13° K.K. Landwehr Schutzen.

I corpi d'armata erano i seguenti:

1) XXVI° C.A. (Generale di Fanteria Ernst Horsetzky Edler von Hornthal).

Era preposto alla difesa del settore tra il Brenta e  l'Asolone, in contrapposizione diretta al IX° C.A. di De Bono, e ne facevano parte 4 divisioni e una brigata di artiglieria: 


- 40° divisione K.u. Honved ungherese di Budapest (Maggior Generale Paul Edler von Nagy), con la 79° e 80° brigata di fanteria e la 27° di artiglieria.

- 4° divisione K.u.K. ceca di Brunn (Brno) (Feldmaresciallo Karl Haas), con la 7° e 8° brigata di fanteria.

- 42° divisione K.u. Honved croata di Agram (Zagabria) "Domobrana", "Difesa della patria"(Maggior Generale Theodor Ritter von Soretic), con l'83° e 84°  brigata di fanteria e la 53° di artiglieria campale.

- 28° divisione K.u.K. slovena di Laibach (Lubiana) (Maggior Generale Alfred Zeidler von Gorz), con la 55°, 56°, 32° brigata di fanteria e 4° di artiglieria, più di rinforzo la 21° brigata K.u.K. di artiglieria.

[Nota a margine sul XXVI° C.A.]
Horsetzky avrebbe scritto che aveva caverne per 12.000 uomini in piedi e che la condotta del fuoco d'artiglieria era stata "profondamente studiata e regolata sino ai più piccoli particolari" (v. pag. 41, in fine su "Vittorio Veneto -Parte I- La lotta sul Grappa" - Sunto estratto dalla pubbicazione "L'Italia e la fine della guerra", del Generale di Brigata Adriano Alberti, edito dal Ministero della Guerra -Stato Maggiore Centrale- Ufficio Storico, 1924).
Quanto detto da Horsetzky è peraltro tranquillamente estensibile a tutte le forze a disposizione di von Goglia, che da quell'ottimo generale di artiglieria che era organizzò le sue batterie in modo perfetto, così da disporre di eccellenti campi di tiro proprio su tutte le direttrici d'attacco italiane.

2) I° C.A. (Generale di Fanteria Ferdinand Kosak).
Si trovava nel settore dell'Asolone, proprio di fronte alle tre divisioni del VI° C.A. di Lombardi, e disponeva di 4 divisioni ed 1 brigata di artiglieria: 

- 48° divisione K.u.K. bosniaca di Sarajevo (Maggior Generale Michael Gartner Edler von Karstwehr), con la 95° e 96° brigata di fanteria e la 3° di artiglieria, posto a difesa del Pertica.

- 13° divisione K.K. Landwehr Schutzen di Vienna (Feldmaresciallo Ernst Kindl), con la 25° e 26° brigata di fanteria e la 60° di artiglieria), a difesa della testata di Val Stizzone tra il Pertica e Col dell'Orso.

- 17° divisione K.u.K. magiaro-romena di Nagy-Varad (Oradea) (Maggior Generale Vinzenz Stroher), con la 33° e 34° brigata di fanteria e la 55° di artiglieria.

- 9° divisione  K.u.K. ceca di Praga (Feldmaresciallo Leo Greiner Edler von Madonna del Mare), con la 17° e 18° brigata di fanteria, posta sulla sinistra della 17°, e di rinforzo l'aggregata 42° brigata di artiglieria K.u. Honved.

3) XV° C.A. (Generale di Fanteria Karl Scotti).

[Nota a margine su Karl Scotti]
Nonostante a capo del XV° C.A., protagonista a Caporetto e autore dello sfondamento sul Monte Kradfigurasse formalmente ancora Scotti, quest'ultimo al momento dell'inizio dell'attacco non risultava al suo posto di comando, per motivi sconosciuti. 
Pertanto dal 24 alle 12,00 del 26 ottobre venne sostituito dal comandante del XXVI° C.A., il parigrado Ernst Horsetzky Edler von Hornthal, e in seguito dal Tenente Generale Aurel von Le Beau, comandante della 55° divisione.


Schierato nel settore dei Solaroli, del Valderoa e dello Spinoncia a difesa della Val Stizzon e quindi rivale del XXX° C.A. di Montanari, disponeva di 2 divisioni:


- 50° divisione K.u.K. (Maggior Generale Karl Gerabek), posta sul fianco destro della 17° divisione del I° C.A. alla sua destra, con la 99° e 100° brigata di fanteria, la 50° di artiglieria, più di rinforzo l'aggregata 62° di artiglieria).

- 20° divisione K.u. Honved magiaro-romena di Oradea (Feldmaresciallo Stephan Stadler von Monte San Michele), con la 39° e 40° brigata di fanteria e la 20° di artiglieria.

Riserva del Gruppo Belluno:

60° divisione K.u.K. (Maggior Generale Joszef Pacor von Karstenfels und Hegyalja), con la 119° e 120° brigata di fanteria, acquartierata tra Santa Giustina e Sospirolo sulla destra del Cordevole, alla sua confluenza col Piave.

55° divisione K.u.K. bosniaca (Tenente Generale Aurel von Le Beau), con la 109° e 110° brigata di fanteria.


SUL FRONTE DEL MEDIO PIAVE


VI° ARMATA 
(FELDMARESCIALLO ALOIS FURST ZU SCHOMBURG-HARTENSTEIN)

Alois Furst zu Schonburg-Hartenstein
(Karlsruhe, 21/11/1858- Hartenstein, 20/9/1944)
Era schierata dal Fener alle Grave di Papadopoli, con due corpi d'armata, con 6 divisioni in linea (1 di cavalleria) più 3 divisioni ed una brigata di artiglieria di riserva, con un totale però di soli 835 cannoni:

1) II° C.A. (Feldmaresciallo R. Krauss):

31° divisione K.u.K. ungherese di Budapest (Maggior Generale Joseph Lieb), con la 61° e 62° brigata di fanteria e la 17° brigata di artiglieria.

- 25° divisione K.u.K. di Vienna (Maggior Generale Emanuel Werz Edler von Ostenkampf), con la 49° e 50° brigata di fanteria e la 12° brigata di artiglieria a cavallo.

- 11° divisione di cavalleria K.u. Honved ungherese di Debrecen (Maggior Generale Paul Hegedus), con la 21° brigata di cavalleria, il raggruppamento "Heinlein" (10° e 11° Ussari) l'11° brigata di artiglieria a cavallo e la 34° brigata di artiglieria.

- 12° divisione K.K. Landwehr Schutzen a cavallo (Maggior Generale Karapancza von Krajna), con la 23° brigata a cavallo e la 31° brigata di artiglieria.


2) XXIV° C.A. (Generale di Fanteria Emmerich Hadfy von Limno):

- 41° divisione K.u. Honved (Tenente Generale Rudolf Schamschula von Simontornya), con la 81° e 82° brigata di fanteria e la 41° brigata di artiglieria.

51° divisione K.u. Honved (Maggiore Generale Samuel Daubner), con la 101° e 102° brigata di fanteria, la 51° brigata di artiglieria, più di rinforzo la 10° di artiglieria.

Riserva d'armata:

10° divisione  K.u.K. ceca di Josefstadt (Josefov) (Tenente Generale Friedrich Watterich von Watterichsburg), con la 19° e 20° brigata di fanteria.

43° divisione K.K. Landwehr Schutzen (Tenente Generale Karl von Stohr), con l'85° e 86° brigata di fanteria e la 43° di artiglieria.

- 34° divisione K.u.K. (Tenente Generale Eugen Edler von Luxardo), con la 67° e 68° brigata di fanteria.

- 13° brigata K.u.K. di artiglieria.

SUL FRONTE DEL BASSO PIAVE

V° ARMATA 
(FELDMARESCIALLO WENZEL VON WURM)

Wenzel von Wurm
(Karolinenthal, Praga, 27/2/1859-
Vienna, 15/8/1921)
Era schierata dalle Grave di Papadopoli fino a Cortellazzo sulla costa adriatica, con cinque corpi d'armata, su 12 divisioni (1 di cavalleria appiedata) di prima linea e 3 divisioni più due brigate a est del Piave di riserva, con ben 1.500 cannoni:

1) Gruppo "Berndt" (Tenente Generale Otto Joseph von Berndt):

- 29° divisione K.u.K. (Tenente Generale Friedrich Kloiber), con la 57° e 58° brigata di fanteria e la 29° brigata di artiglieria.

- 7° divisione K.u.K. croata di Osijek (Tenente Generale Emil Baumgartner Edler von Wallbruck), con la 13° e 14° brigata di fanteria e la 29° di artiglieria.

-  201° brigata K.K. Landsturm di fanteria.

- IV° C.A. (Feldmaresciallo Arpàd Tamàsy von Gogaras):

- 64° divisione K.u. Honved (Tenente Generale Rudolf Seide), con la 127° e 128° brigata di fanteria e la 64° brigata di artiglieria.

- 70° divisione K.u. Honved (Maggior Generale Bela Berzeviczy von Berzevicze und Kakas-Lomnitz), con  la 207° e 208° brigata di fanteria e la 70° brigata di artiglieria.

- 8° divisione di cavalleria appiedata K.u.K. ucraina di Stanislau (Iwano-Frankiws'k) (Maggior Generale Rudolf Edler von Dokonal), con la 15° brigata di cavalleria e l'8° brigata di artiglieria a cavallo.

-  VII° C.A. (Generale di Fanteria Georg Scharikzer von Reny):

- 33° divisione K.u.K. ungherese di Komorn (Komàrom) (Tenente Generale Arthur Iwanski von Iwanina), veterana di Caporetto, con la 65° e 66° brigata di fanteria e la 33° brigata di artiglieria).

12° divisione K.u.K. polacca di Krakau (Cracovia) (Generale di Fanteria Karl Waitzendorfer), con la 23° e 24° brigata di fanteria e la 12° brigata di artiglieria.

- 24° divisione K.u.K. polacca di Przemysl (Tenente Generale Adolf Urbarz), con la 47° e 48° brigata di fanteria e la 24° brigata di artiglieria.

- XIII° C.A. (Generale di Fanteria Csicerics von Bacsany):

46° divisione Landwehr Schutzen polacca di Cracovia (Maggior Generale Gustav Fischer Edler von Poturzyn), con la 91° e 92° brigata di fanteria e la 46° brigata di artiglieria.

- 58° divisione K.u.K. (Maggior Generale Bogeslav Wolf von Monte San Michele), con la 115° e 116° brigata di fanteria e la 58° di artiglieria.

- XII° C.A. (Feldmaresciallo Ernst Kletter von Gromnik):

- 14° divisione K.u.K. slovacca di Pressburg (Bratislava) (Tenente Generale Franz Szende von Fulekkeleksény), con la 27° e 28° brigata di fanteria e la 14° di artiglieria.

2° divisione K.u.K. polacca di Jaroslau (Jaroslaw) (Tenente Generale Eduard Ritter Jemrich von der Bresche), con la 3° e 4° brigata di fanteria e la 57° di artiglieria.

Riserva d'armata

Assegnate alla V° armata, a disposizione diretta del Feldmaresciallo von Wurm, erano le seguenti:

57° divisione K.u.K. (Tenente Generale Joseph Hroszny Edler von Bojemil), con la 113° e 114° brigata di fanteria.

- 26° divisione K.K. Landwehr Schutzen ceca di Leitmeritz (Litomerice) (Tenente Generale Alois Podahjsky), con la 51° e 52° brigata di fanteria e la 26° brigata di artiglieria.

- 48° brigata di artiglieria.

Assegnati al Gruppo d'Armate dell'Isonzo, a disposizione diretta del Feldmaresciallo Boroevic


Come riserva:

44° divisione K.K. Landwehr Schutzen di Innsbruck (Maggior Generale Wenzel Schonauer), con l'87° e 88° brigata di fanteria e la 44° di artiglieria.

Come reparti autonomi:


- Distaccamento autonomo di Trieste (Ammiraglio di divisione Alfred Freiherr von Koudelka).

- Distaccamento autonomo di Fiume (Tenente Generale Nikolaus Istvanovic Freiherr von Ivanska).

- Comando Difesa costiera di Pola (Contrammiraglio Alfred Cicoli).

PARTE QUARTA


INIZIA LA BATTAGLIA FINALE  
(24 OTTOBRE)

Le ultime direttive emanate dal Comando dell'Armata del Grappa in vista dell'attacco, il 15, il 19 e il 22 ottobre, premettevano che, a quanto risultava, dietro le prime, solidissime sistemazioni difensive del nemico non era stata organizzata nessuna linea difensiva di rilievo, per cui era da presumere che, una volta sfondata con un impegno poderoso la prima cintura di difesa, dietro di essa non vi sarebbe stato nulla di preparato cui dover far fronte.
Quindi, era la conclusione, dopo il primo massimo sforzo iniziale si sarebbe dovuto avanzare utilizzando più colonne leggere, composte per lo più da arditi e artiglierie someggiate, puntate sui vari obiettivi previsti (Col del Gallo, Monte Roncone, sbocco alla Val Stizzone), senza preoccuparsi dei collegamenti, stando solo attenti, a causa delle dorsali montuose estremamente strette che si sarebbe stati costretti giocoforza a percorrere, alle insidie provenienti dai lati.
Il passaggio dalla prima fase più impegnativa a quella più leggera sarebbe stato segnato dall'arrivo sugli obiettivi intermedi, individuati nelle vette del Col Caprile, del Col Bonato, del Prassolan, del Col di Baio, dei Monti Solaroli, del Monte Fontana Secca, Monte Tas, Spinoncia e Punta dello Zoc.

Era però solo teoria, la situazione sul campo si sarebbe rivelata ben diversa.
Sanguinosamente diversa.
Perché i preparativi italiani per l'attacco, divenuti frenetici negli ultimi giorni, non erano affatto passati inosservati a Boroevic, che si aspettava ormai da un giorno all'altro l'inizio dell'attacco, e anzi era giunto a definire con una buona esattezza quel momento intorno alla mezzanotte del 24 ottobre, tanto da inviare alle proprie fanterie l'ordine di tenersi pronti a partire da quell'ora a respingerlo, ed alle artiglierie quello di bersagliare i probabili punti di raccolta del nemico e le vie d'accesso alle sue prime linee.

L'evidente disparità di forze tra i due schieramenti contrapposti, di cui Boroevic era ben consapevole, l'avrebbe comunque portato a decidere negli ultimi giorni, facendo apprestare le opportune misure difensive, di arretrare la sede del comando da Vittorio ai fiumi Monticano (sulla linea cosiddetta KaiserStellung, Posizione dell'Imperatore) e Livenza (KonigStellung, Posizione del Re).


La linea dal Brenta al Piave sul massiccio del Grappa


17. I TRE CORPI D'ARMATA DI GIARDINO ATTACCANO IL GRAPPA

IL PROCLAMA DI GAETANO GIARDINO
Ora toccava ai Generali italiani lanciare il loro proclami. Questo fu quello lanciato alle sue truppe da Gaetano Giardino (v. https://www.montegrappa.org/grande_guerra/24-10-18.php):

"È l'ora della riscossa. È l'ora nostra. I fratelli schiavi aspettano i soldatini del Grappa liberatori. 
Chi di voi non si sente bruciare di furia e d'amore? 
Il nemico traballa. È il momento di dargli il tracollo, che può essere l'ultimo se glielo date secco. 
Ognuno di voi valga per dieci e per cento. Il vostro Generale sa che varrete per dieci e per cento. 
L'Italia vi guarda ed aspetta da ciascuno di voi la liberazione e la vittoria. 
Soldati miei, avanti!"


Fonte: Esercito.Difesa.it








LE ARTIGLIERIE DAL BRENTA AL PIAVE APRONO IL FUOCO
Alle 03,00 del mattino del 24 ottobre 1918, una data che a posteriori si disse scelta perché a un anno esatto da quella di Caporetto ma in realtà frutto semplicemente di un rinvio di sei giorni dell'attacco a causa delle avverse condizioni climatiche, tutte le artiglierie italiane posizionate dal Brenta al Piave, in  particolare quelle più numerose e potenti della VI°, della IV° e dell'VIII° armata, cui peraltro subito risposero fragorosamente quelle avversarie, iniziarono il fuoco di distruzione su tutto il fronte nemico, seguito dopo un paio d'ore da quello di preparazione all'attacco, intensificato al massimo alle 06,45.
Sotto il tormento di una pioggia torrenziale che rendeva ancora più insopportabile il grosso velo di nebbia che avvolgeva come un opaco sudario lo svolgimento delle operazioni, tanto da impedire alle nostre squadriglie da ricognizione e da bombardamento di sollevarsi in volo, consentendo solo una limitata attività della caccia, concentrata soprattutto nel settore tenuto dalla VIII° armata (in cui veniva abbattuto un Draken nemico da osservazione per l'artiglieria a Collalbrigo, nei pressi di Conegliano), a muoversi all'attacco furono per prime come previsto le fanterie della IV° armata di Gaetano Giardino, cui era demandato il compito di spaccare in due il fronte nemico incuneandosi in profondità tra il Gruppo Tirolo dell'Arciduca Giuseppe e il Gruppo Isonzo di Boroevic nei punti di sutura tra i rispettivi settori sulle alture della dorsale nord-ovest del massiccio del Grappa coperti dal Gruppo Belluno di von Goglia.


Una postazione italiana d'artiglieria di grosso calibro pronta a far fuoco


A tal fine, i tre corpi d'armata dovevano agire su tre distinte direttrici:

1) il IX° C.A. di De Bono doveva attaccare il settore difeso dall'intero XXVI° C.A. austro-ungarico (4° K.u.K. , 40° e 42° K.u. Honved) tra il Brenta e l'Asolone con obiettivi Col Caprile, Col della Beretta e Col Bonato, per poi puntare il Col del Gallo alla confluenza tra il Cismon e il Brenta, così da poter dominare il tratto occidentale del solco Primolano-Feltre;

2) il VI° C.A. di Lombardi, schierato a cavallo del costone che unisce il Pertica al Grappa, dall'Asolone alla Croce di Valpore, doveva puntare il Prassolan difeso da due divisioni del I° C.A. nemico (48° K.u.K., 17° K.u.K. e 13° K.KSchutzen) e poi il contrafforte a nord per occupare il Monte Roncone e da lì dominare il Corridoio di Feltre tra il fiume Cismon e Arten (compreso);

3) il XXX° C.A., infine, aveva il compito di attaccare nel settore difeso dal XV° C.A. (50° K.u.K. e 9° K.u.K.) e prendere i Solaroli, il Valderoa ed infine lo sbocco di Val Stizzone per controllare il settore tra Arten e Feltre.

Alle 06,00 di mattina si mosse per primo il VI° C.A. di Stefano Lombardi, in anticipo sugli altri corpi per precedere il più possibile su quel terreno più accidentato il preciso tiro di contropreparazione delle artiglierie nemiche: mentre la 59° divisione di Isidoro Zampolli restava di riserva salvo un battaglione del 252° Massa Carrara inviato a saggiare le difese nemiche sul contrafforte del Col Tasson (Quota 1.443),  la 15° di Giuseppe Maria Petilli si lanciò su più colonne dalle caverne fortificate italiane alle Quote 1.511 e 1.503 contro le cime sul Monte Pertica (Quota 1.549) e sul Prassolan (Quota 1.484), con la 22° di Giovanni Battista Chiossi chiamata invece a formare una colonna mista in direzione della Val Cesilla con un battaglione della sua brigata Roma insieme con uno della Calabria (18° divisione di Luigi Rosacher del IX° C.A.) e ad fornire elementi a una colonna sul Pertica per fiancheggiare l'azione del IX° C.A. di Emilio De Bono, partito a sua volta più tardi alle 07,15, esattamente 30 minuti dopo che le nostre artiglierie avevano intensificato il fuoco di preparazione sulle posizioni nemiche, in contemporanea col XXX° di Umberto Montanari.
Il IX° attaccava con la 17° divisione di Adolfo Leoncini in direzione del Col della Beretta (Quota 1.448) e la 18° di Luigi Rosacher contro la vetta dell'Asolone (Quota 1.520), il XXX° con la 47° divisione di Nicola Gualtieri sui Solaroli (Quota 1.671) e la 50° di Arturo Maggi sul Valderoa (Quota 1.575) e lo Spinoncia (Quota 1.297).
Sin da subito i combattimenti sarebbero stati accesissimi, a causa dell'impetuoso fuoco di artiglierie e mitragliatrici nascoste tra le rocce e le numerose gallerie appostate a caposaldo dagli austro-ungarici.

Si combatte sul Grappa


FALLISCE L'ATTACCO AL PERTICA DELLA BRIGATA PESARO (VI° C.A.)
L'attacco al Pertica della 15° divisione, rafforzata per l'occasione da alcune compagnie del LV° e del XXIII° reparto d'assalto e da una compagnia di mitragliatrici, fu veemente e sembrò sulle prime cogliere un importante successo: mentre una compagnia del XXIII° reparto d'assalto degli arditi bersaglieri (fiamme cremisi) e due dell'80° Roma (22° divisione) attaccavano risolutamente in Val Cesilla le trincee di Quota 1.400 per aggirare da quel lato il Pertica passando attraverso Quota 1.451, senza riuscire nell'intento ma conquistando comunque importanti posti avanzati con poche perdite, il I° e il III° battaglione del 239° Pesaro, trascinati in avanti dai due plotoni d'assalto di entrambe le brigate Pesaro e Cremona, conquistavano rapidamente la cima del Pertica (Quota 1.551), ma ne venivano poi scacciati, presi d'infilata allo scoperto dalle mitragliatrici a Quota 1.451 di un battaglione del 79° K.u.K. e dell'intero 73° K.u.K.
Analogo risultato aveva anche un nuovo assalto tentato verso tarda mattinata dal II° battaglione del 239° e dal II° del 240°, che venivano costretti di nuovo a ritirarsi verso le 14,00, con la grave perdita del sottotenente Alberto Cadlolo di Roma del 240°, caduto sulla cima colpito da una fucilata alla tempia dopo aver trascinato in avanti il suo plotone nonostante una gravissima ferita da bomba a mano alla gamba, e decorato per questo con la medaglia d'oro alla memoria.
Le perdite per il 239° ammontavano a fine giornata a 5 ufficiali morti, 6 feriti  e un disperso, più 11 morti di truppa, 103 feriti e 35 dispersi, mentre dati meno precisi si hanno per il 240°, anche se ebbe sicuramente 2 ufficiali morti e comunque dal 24 ottobre al 2 novembre avrebbe avuto in totale 7 ufficiali caduti, 35 feriti, 52 morti di truppa e 821 dispersi.

FALLISCE L'ATTACCO AL PRASSOLAN DELLA CREMONA (VI° C.A.)
In contemporanea all'attacco al Pertica la Cremona spingeva sul costone Osteria del Forcelletto-Prassolan con altre due colonne, una di sinistra formata dalla 2° compagnia del XXIII° reparto d'assalto e dal II° e III°/22°, e una di destra con la 3° del LV° reparto d'assalto e il I° e III° battaglione del 21°.
La prima ondata della colonna di sinistra travolgeva le difese opposte dal I° battaglione del 120° reggimento nemico e dilagava con la compagnia d'assalto attraverso Quota 1.484 sino alla cima, dove però intervenivano  le riserve austro-ungariche, il III° battaglione del 79° e mezzo battaglione d'assalto, cui si aggiungevano anche altri due battaglioni del 120°, che alla fine costringevano gli italiani a ritornare sulle posizioni di partenza, anche perché il tiro dell'artiglieria nemica aveva finito con l'isolare gli assaltatori dalle truppe più in basso.
Le cose non andavano meglio per la colonna di destra: mentre la compagnia d'assalto del LV° trascinava in avanti la 7° e parte dell'8° compagnia del 21° fino a Malga Bocchette di mezzo, e da lì il comandante degli arditi guidava la carica fino al Prassolan, catturando persino un intero caposaldo nemico compresi 8 ufficiali nonostante l'uccisione di tutti i subalterni, il resto del battaglione veniva preso da tergo dal fuoco delle mitragliatrici nemiche proveniente da Quota 1.443, sul versante orientale di Val Bocchette, e di nuovo le artiglierie isolavano gli assaltatori in cima dalle fanterie più indietro, costringendo a un nuovo ripiegamento generale con gravi perdite.

Esse assommavano per il 21° a 3 ufficiali morti, 9 feriti e 7 dispersi, 25 gregari morti, 281 feriti e 199 dispersi e per il 22° a 3 ufficiali morti, 12 feriti e 2 dispersi, 36 gregari morti, 283 feriti e 80 dispersi (quasi 1.000 perdite per la Cremona in un solo giorno!), cui si dovevano aggiungere i tanti caduti tra le truppe d'assalto: il loro numero sarebbe restato sconosciuto, anche se il solo XXIII° dal 24 al 26 ottobre avrebbe avuto un ufficiale caduto, 10 feriti, 48 morti di truppa, 112 feriti e 4 dispersi, mentre non si sa nulla delle perdite del LV°.
A queste perdite andavano infine aggiunte quelle sopportate dalla brigata Massa Carrara (Brigadiere Francesco Bellotti), il cui III° battaglione del 252°, il solo impegnato, nell'azione dimostrativa verso la contesissima Quota 1.443 di Col Tasson, ebbe 2 ufficiali feriti e 54 tra morti e feriti di truppa.
Nel corso proprio di quest'ultima azione si distinse l'aiutante di battaglia ternano Elia Rossi Passavanti che per dare il suo contributo alla vittoria finale si unì alla lotta dopo aver abbandonato volontariamente l'ospedale in cui era ricoverato a causa della perdita di un occhio riportata da sergente comandante del 1° plotone del 1° squadrone Genova Cavalleria nella durissima battaglia di Pozzuolo del Friuli di quasi un anno prima, meritandosi la medaglia d'oro al valore militare (la motivazione la trovi qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Elia_Rossi_Passavanti).

FALLISCE L'ATTACCO ALL'ASOLONE DEL IX° C.A.
La 17° divisione di Leoncini attaccò suddivisa in quattro colonne composta ognuna da un battaglione della Basilicata (Brigadiere Generale Giorgio Boccacci) più una compagnia mitragliatrici rinforzata da plotoni d'assalto (arditi della fanteria, fiamme nere) di entrambe le brigate: mentre a sinistra la prima guidata dagli arditi della Abruzzi giunse sino al Colle Menegugia, per fermarsi di fronte alla violentissima reazione delle mitragliatrici di Prà Gobbo e delle artiglierie nemiche degli Altipiani, e la seconda riuscì invece a occupare il tratto occidentale di Prà Gobbo, a destra la terza venne annientata dal tiro di sbarramento e la quarta, in un primo momento giunta nonostante tutto su Col del Vecchio, presa d'infilata dalle mitragliatrici posizionate sul versante occidentale dell'Asolone fu poi costretta a retrocedere dalle riserve nemiche, tanto da indurre il Comando a ordinare alle 11,00 il ripiegamento generale sulle posizioni di partenza.
Nell'azione i due reggimenti della Basilicata, il 91° (che aveva fornito i due battaglioni di sinistra) e il 92° (i due di destra), avevano riportato già rispettivamente il primo 8 ufficiali feriti, 52 morti di truppa, 372 feriti e 65 dispersi, il secondo 1 ufficiale morto, 11 feriti, 75 di truppa morti, 373 feriti e 32 dispersi, ma anche i due plotoni di arditi dell'Abruzzi erano usciti molto provati.

Quanto all'azione della 18° di Rosacher sull'Asolone, la brigata Bari (Brigadiere Generale Benedetto Ruggeri) si era mossa su tre colonne sulla direttrice Col del Vecchio-Asolone: la colonna di sinistra (due battaglioni del 140°), pur quasi giunta sul primo obiettivo, ne era stata ributtata indietro ed era stata costretta a rinserrarsi in località Osteria il Lepre, pur avendo disposto alcuni appostamenti in prossimità delle linee nemiche, mentre la seconda colonna centrale, composta da un battaglione del 139° ed un plotone d'assalto del 59°, direttasi contro Quota 1.486, e la terza di destra, con tutto il resto del 139°, sull'Asolone, trascinate in avanti dai plotoni d'assalto, avevano raggiunto entrambi gli obiettivi.
A quel punto gli arditi reggimentali si erano lanciati su Casera Spadoni, col I°/139° che li proteggeva avanzando di conserva sulla dorsale dell'Asolone, ma l'improvvisa apparizione di due reggimenti K.u.K. della riserva, il 9° polacco e il 99° ceco provenienti dalla prospiciente Val Cesilla e appartenenti rispettivamente alla 47° brigata distaccata dalla 24° divisione di Przemysl del Maggior Generale Adolf Urbarz ed alla 7° brigata della 4° di Brno del Feldmaresciallo Karl Haas li costrinse la sera ad un affannoso ripiegamento anche a seguito della perdita di tutti gli ufficiali degli arditi ed a lasciare al nemico pure Quota 1.486, nonostante l'intervento in soccorso della colonna fiancheggiante mista formata da un battaglione del 60° Calabria (18° divisione) del IX° C.A. e da uno del 79° Roma (22°) del VI°, costretta anch'essa a ripiegare dopo essere avanzata fino a Casera delle Fratte.

Le perdite della Bari, pur restando gravi, erano state comunque più contenute rispetto a quelle della Basilicata: il 139° aveva avuto 3 ufficiali morti, 6 feriti e 3 prigionieri, oltre a 5 morti di truppa, 103 feriti e 36 dispersi, il 140° 4 ufficiali e 28 gregari caduti, 162 feriti in totale.

LA BOLOGNA  (XXX° C.A.)  PRENDE IL COL DEL CUC E LA FORCELLETTA
Qualche risultato importante lo otteneva invece il XXX° C.A. di Montanari, che presidiava il saliente verso i Solaroli fra Croce di Valpore (Quota 1.506), Porte di Salton (Quota 1.240), Monte Pallone (Quota 1.215) e Osteria di Monfenera (Quota 854) ed aveva avuto incarico di attaccare sull'intero fronte avverso, comprendente il versante destro di Val Stizzon (Col del Cuc e Monte Forcelletta), la dorsale dei Solaroli, il Valderoa, Val Calino e Spinoncia, per evitare di essere fatto segno di un fuoco concentrato d'artiglieria se avesse attaccato solo degli obiettivi ben definiti.
Così, la 47° doveva attaccare i Solaroli e sulla sinistra la Forcelletta per prendere alle spalle le difese nemiche di Val delle Bocchette e di Val dei Pez, sulla destra la 50° doveva occupare il Valderoa e lo Spinoncia e da lì collegarsi a oriente col I° C.A. di Etna della XII° armata a Punta Zoc, mentre l'80° alpina, che era di riserva sulla Cima del Coston (Quota 1.590) al momento del superamento della prima linea di difesa nemica da parte delle altre due divisioni doveva attaccare il Monte Fontana Secca (versante sinistro di Val Cinespa di fronte al Monte Fontanel) e da lì proseguire a nord verso Schievenin, formando con esse un fronte compatto che doveva puntare con la 47° verso Val Stizzon e con la 50° sul Monte dei Tas.

La brigata Bologna (Brigadiere Generale Camillo Pagliano) della 47° si riversò in direzione del versante occidentale dei Solaroli: una colonna composta dal III°/39°, dalla 2° compagnia del III° reparto d'assalto, il plotone d'assalto reggimentale, una compagnia mitragliatrici e una sezione lanciafiamme di slancio riuscì ad arrivare in cima al Col del Cuc (Quota 1.270), mentre più resistenza incontrò quella del I°/40° con il plotone d'assalto reggimentale e una sezione lanciafiamme, appoggiato dal fuoco di una batteria d'accompagnamento da montagna, per prendere il Monte Forcelletta (Quota 1.299), che fu però conquistato col fattivo aiuto del III°/40° e del I°/39° partiti di riserva: nell'insieme la vittoriosa Bologna ebbe poche perdite (3 ufficiali feriti, 24 uomini di truppa caduti, 63 feriti e 10 dispersi) e riuscì anche a catturare 5 ufficiali e 93 gregari nemici.

LA LOMBARDIA (XXX° C.A.) CATTURA LA POSIZIONE DELL'ISTRICE
La brigata Lombardia (Brigadiere Generale Marcello De Luca) per attaccare la rocciosa e brulla dorsale dei Solaroli si divise in quattro colonne, ognuna formata da un battaglione, una compagnia mitragliatrici e due compagnie del XIX° genio compreso un plotone di telegrafisti, senza però il previsto aiuto di due del III° reparto d'assalto, giunte in ritardo: le due colonne di sinistra (del 73° reggimento), dovevano attaccare da sud-ovest e da sud-est Quota 1.676, le due di destra (del 74°) sul versante orientale rispettivamente Quota 1.672 e Quota 1.601, attaccata sull'altro verso dalla Aosta della 50° divisione.
Le cose non andarono bene sin da subito, perché la prima e la terza colonna vennero fermate dal tiro di sbarramento di cannoni e mitragliatrici nemici e la seconda, pur  raggiungendo Quota 1.676, non riuscì ad aprire dei varchi nei reticolati nemici rimasti quasi tutti in piedi nonostante il fuoco dei nostri pezzi, fallendo poi due altri tentativi, a mezzogiorno e verso le 18,30, condotti insieme con la 9° compagnia del 73°, quella mitragliatrici del 74° e mezza compagnia del III° reparto d'assalto.

Un po' meglio andarono le cose per la quarta colonna: il I°/74°, avanzato verso la selletta tra il Valderoa e Quota 1.672, venne inchiodato a terra dalla pesantissima reazione del nemico dopo aver preso alle 11,30 la posizione dell'Istrice immediatamente sottostante con la cattura anche di 6 ufficiali e 100 gregari nemici con 2 mitragliatrici, e costretto a retrocedere, protetto da una compagnia e mezza del III° reparto d'assalto, nonostante il tardivo arrivo delle riserve chiamate in aiuto sin dalle 12,30, la 7° e 8° compagnia del III°/74°, quest'ultima inviata per cercare un improbabile collegamento con la terza colonna a Quota 1.672.
Non era finita qui, però, perché, richiamato dal Comando dalla 80° di riserva di Lorenzo Barco, alle 17,00 il battaglione alpino Monte Levanna del 4° reggimento (6° gruppo) contrattaccava insieme agli arditi con la sua 132° compagnia all'avanguardia e riconquistava definitivamente l'Istrice, catturando qualche nemico e altre due mitragliatrici!

Al termine di quella prima giornata le perdite per le quattro colonne erano pesanti: nel 73° 2 ufficiali morti, 2 feriti, 13 gregari morti, 100 feriti e 82 dispersi; nel 74° 4 ufficiali morti, 7 feriti, 1 prigioniero, 48 gregari morti, 225 feriti e 70 dispersi; nel Levanna 3 ufficiali feriti, 8 soldati morti e 112 feriti; del III° reparto d'assalto non si conoscono le perdite, ma si sa che durante l'intera battaglia ebbe 3 ufficiali morti, 15 feriti, 3 dispersi, 27 gregari morti, 172 feriti e 104 dispersi.

L'AOSTA (XXX° C.A.) PRENDE IL VALDEROA
Il vero successo arrideva alla brigata Aosta (Brigadiere Generale Roberto Bencivenga) della 50° divisione assegnata interinalmente (col Generale Fabbrini in malattia) ad Arturo Maggi, comandante della brigata Udine: due battaglioni del 5° reggimento (e un terzo in riserva), rafforzati da due compagnie mitragliatrici divisionali e fiancheggiati sul fianco destro dal II°/6°, tutti provenienti dal Monte Medata, sorprendevano completamente infatti il nemico avanzando dalle 05,00 di mattina nell'oscurità attraverso la Val Calcino, stavolta poco infastiditi dal fuoco di contropreparazione delle artiglierie di von Goglia, e dirigendosi direttamente sul lato più ripido che portava alla cima del Valderoa (Quota 1.575), ritenuto inespugnabile e quindi meno presidiato, protetti nell'ultima mezz'ora dal fuoco di accompagnamento dei piccoli calibri e delle mitragliatrici proveniente dalle alture settentrionali del Medata, diretto sulle seconde linee austro-ungariche.

Alle 07,15 in punto, sbucando all'improvviso nella nebbia in via di diradamento e cogliendo totalmente impreparate le difese del 43° reggimento nemico della 17° K.u.K. di Stroher, era proprio il II°/6° sulla destra, tenutosi appositamente sempre assai vicino ai punti di caduta dei proietti d'artiglieria italiani per serrare il più possibile sotto le trincee nemiche, ad arrivare per primo sull'obiettivo e a conquistarne con relativa facilità tutto il versante destro, con la cattura di molti prigionieri e mitragliatrici, mentre il 5°, messo sotto tiro anche da quelle stesse postazioni nemiche di Quota 1.672 alla sua sinistra che stavano rendendo difficile in quello stesso momento la vita alla brigata Lombardia, era costretto a chiedere l'arrivo in rinforzo del III°/6° lasciato fino a quel momento di riserva a Quota 1.422, salvo poi conquistare comunque anche il versante sinistro della cima prima del suo arrivo, alle 12,30, sfruttando magistralmente la ricomparsa della nebbia.
Due ordini di trincee austro-ungariche venivano completamente superati, con la cattura di oltre 400 uomini e la presa anche della Forcelletta di Col Fornel (Quota 950), tanto che pattuglie venivano inviate verso il Monte Fontanel (Quota 1.360) col 43° austriaco a pezzi in fuga disordinata verso Stalle Cinespa (Quota 1.222), porta d'accesso a quella Val Cinespa presidiata dal reggimento fratello 46° della 34° brigata di fanteria della 17° divisione K.u.K. magiaro-romena del General Major Vinzenz Stroher.

A causa del tracollo del 43° il Comando austriaco era costretto a far intervenire a quel punto la 50° divisione K.u.K. bosniaca di Karl Gerabek dalla riserva per occupare il Tas a nord-est del Fontanel, proprio mentre approfittando della nebbia tornata fitta il I°/6° Aosta e il I°/96° Udine rinforzati dalla 572° mitragliatrici ricevevano alle 12,30 l'ordine di attaccare anche lo Spinoncia (Quota 1.297), col primo in direzione della cresta e il secondo sul versante occidentale delle Porte di Salton (Quota 1.277), appoggiati dal fuoco di cinque gruppi di artiglieria da medio calibro e varie batterie di piccolo calibro: l'azione però falliva e i due battaglioni erano costretti a tornare sulle posizioni di partenza, anche se sul versante orientale il II°/95° Udine con un'azione di sorpresa dei suoi plotoni d'assalto era riuscito a prendere sin dalla prima mattina San Lorenzo (Quota 509) in Val Ornic e solo il ferimento del comandante del battaglione ne aveva frustrato l'ulteriore avanzamento in direzione di alcuni posti avanzati sul Col di Vajal, obiettivo su cui nel frattempo stava puntando da destra anche il I° C.A. di Donato Etna della XII° di Jean Cesar Graziani.
Alle 18,00 il Comando italiano ordinava la fine dell'azione per completare il consolidamento dell'occupazione del Valderoa e di Quota 950 in vista di eventuali contrattacchi di un nemico che pur retrocesso molto indietro anche sulla testata della Val Ornic si era comunque dimostrato combattivo e sorretto da forte artiglieria: per l'indomani si annunciava un nuovo attacco sin dalle 08,00 di mattina, sorretto dal solito fuoco di distruzione stavolta in pieno giorno, e proprio per questo al comandante Bencivenga dell'Aosta veniva attribuito il comando di tutte le forze delle tre divisioni impegnate nel settore.
Le perdite per le due brigate della 50° divisione si rivelavano minime, 24 complessive per l'Aosta, tutti gregari, e 2 morti, 4 dispersi e 34 feriti di truppa per il solo 96° reggimento, ma oltre alle conquiste territoriali in mano italiana risultavano catturati anche 1.300 nemici.
Tra i caduti italiani, l'aiutante di battaglia Pasquale Jannello della 572° compagnia mitragliatrici sarebbe stato decorato con la medaglia d'oro alla memoria, per essersi immolato sulla sua arma alle Porte di Salton dopo essersi volontariamente offerto di ritornare al suo posto pur essendo stato già ferito alla testa e ad una spalla e ricoverato al cento di medicazione.

LA TRAPANI (I° C.A.) SI ATTESTA  A FENER SUL TORRENTE ORNIC
Mentre sul massiccio del Grappa al termine della giornata si registravano quindi pochi avanzamenti territoriali e si era ai limiti di un sostanziale stallo, pure costato già ben 3.000 perdite, non molto meglio andavano le cose sugli altri settori prospicienti.
Sul fianco destro della IV° armata di Giardino l'ala sinistra della XII° di Graziani, quella italiana, l'unica a muoversi, le brigate Re e Trapani della 70° divisione di Giovanni Battista Raimondo (I° C.A. di Etna) discendevano con estrema cautela dal Monte Tomba (Quota 715) e dal Monfenera (Quota 868) in direzione del Madal, della Conca di Alano, del Col Frontal e delle Forzellette, vigorosamente contrastate dalla sinistra della 50° K.u.K. di Gerabek e dalla destra della 20° Honved di Stephan Stadler del XV° C.A. austro-ungarico.

A tal fine quelle truppe dovevano effettuare una conversione a destra attorno al perno del Monfenera, tenuto dalla Trapani (Brigadiere Generale Giusto Macario) rafforzata da 6 compagnie mitragliatrici, col 149° reggimento in prima linea che aveva l'ordine di avanzare sulla sponda nord dell'Ornic verso Fener ed il 150° di riserva, mentre la brigata Re ((Maggiore Generale Adolfo Bava), rinforzata da 7 compagnie mitragliatrici, doveva superare il torrente e puntare ai due bersagli grossi di Punta Zoc (Quota 1.034) e Monte Madal (Quota 768), col I° battaglione del 1° reggimento con obiettivo Alano di Piave, due del 2° diretti alle pendici del Madal e la 3° compagnia del medesimo reggimento che doveva prendere contatto col II°/95° Udine attestato a San Lorenzo: proprio per questo alle 07,15 le artiglierie del I° C.A. cominciavano a dirigere il fuoco non più in appoggio al XXX° C.A. bensì sulle direttrici d'attacco della 70° divisione.
Dopo due ore di preparazione la 70° si lanciava in avanti, favorita anche dal fatto che l'aeronautica, sorprendentemente dato il tempo inclemente, attaccava alcuni accampamenti nemici nei pressi della Stretta di Quero:  se però la Trapani, arrivata subito alle Forzellette, giunta alle prime abitazioni del villaggio di Fener vi si attestava a caposaldo, sia il I°/1° della Re, penetrato in profondità sino allo sbocco ovest di Alano dopo aver superato l'Ornic e catturato il caposaldo nemico di Madonnetta, che il II°/2° sul costone del Madal di Quota 776 incontravano una fortissima opposizione, e dopo una serie alternata di attacchi e contrattacchi erano costretti entrambi a ripiegare sulle posizioni di Col Cortès (Quota 449), Toere, Arapè, destra dell'Ornic, Forzellette e Monfenera, anche se con la cattura di alcune mitragliatrici e di un centinaio di prigionieri, con perdite modeste per il 149° Trapani (1 caduto e 6 feriti, tutti gregari) e decisamente peggiori per entrambi i reggimenti della Re (7 ufficiali feriti e 120 gregari morti, feriti e dispersi per il 1°; 4 ufficiali feriti, 4 caduti, 42 feriti e 15 dispersi per il 2°).

IL 126° FANTERIA FRANCESE (XIII° C.A.) SUL SISEMOL 
Mentre più a ovest come previsto la VII° armata delle Giudicarie di Tassoni era ferma e la I° del Trentino di Pecori Giraldi si limitava a puntate di disturbo in Val d'Astico e sul ciglione sud di Val d'Assa, per quanto concerneva la VI° armata degli Altipiani di Montuori alla sinistra di Giardino ad essere protagonista più che altro era il poderoso fuoco d'interdizione della sua artiglieria contro le difese del nemico sul Grappa, anche se venivano occupati i posti avanzati del Redentoro in Val d'Astico e di Cima Tre Pezzi in Val d'Assa, mentre decisamente meglio andava nell'Asiaghese: qui non solo un battaglione inglese faceva da solo circa 200 prigionieri, ma venivano conquistati Canove, Stenfle e Cornove ma soprattutto il Monte Sisemol (Quota 1.262), presso Gallio, che veniva occupato con un magistrale colpo di mano dal II° battaglione del 126° fanteria francese della 24° divisione di Audry aggregata al XIII° C.A. di Ugo Sani, che catturava addirittura l'intero presidio nemico di 800 uomini.

SE GLI ITALIANI PIANGONO, GLI AUSTRO-UNGARICI NON RIDONO
L'insperata occupazione del Sisemol non si esauriva nell'aver colto un bel successo, utile anche per il morale oltre che per il guadagno territoriale in senso stretto, comunque necessariamente circoscritto, ma aveva una conseguenza ben più importante nell'economia dell'intera offensiva, impedendo all'XI° armata di Viktor von Scheuchenstel di poter inviare rinforzi da lì agli strematissimi difensori sul Grappa: proprio per questo motivo il Comando impose ai francesi di tenere quella posizione, nonostante gli immediati tentativi del nemico di riprenderla, il più a lungo possibile e comunque almeno per ventiquattr'ore, nella speranza che la piena del Piave, come le previsioni sembravano assicurare, l'indomani cessasse e fosse possibile finalmente far muovere anche la fremente VIII° armata.
Fino a quel momento, ogni cosa che potesse obbligare l'esercito imperial-regio a utilizzare tutte le riserve nella difesa delle sue linee sul Grappa, così da distoglierle dal fronte dell'offensiva sul Piave, sarebbe stata benedetta.
Così, per quanto le operazioni avviate dagli italiani sul contesissimo massiccio ed i settori ad esso vicini bordeggianti l'Alto Piave sembrassero ristagnare, ed al contrario i difensori contro tutte le previsioni iniziali apparissero ben saldi sulle loro posizioni e vogliosi di non darla vinta, sin d'ora si cominciava a palesare uno dei grandi problemi che avrebbero determinato l'esito della battaglia a loro sfavore: dopo solo il primo giorno di battaglia infatti delle quattro divisioni di von Goglia tenute inizialmente in riserva difesa dovevano già esserne impiegate due, la 28° K.u.K. slovena di Laibach (Lubiana) del General Major Alfred von Zeidler, inviata dietro la 4° nel settore dell'Asolone, e la 55° K.u.K. bosniaca del Feldmaresciallo Tenente Aurel von Le Beau, spedita in treno verso Feltre, a difesa delle infiltrazioni provenienti dalle truppe della XII° armata italo-francese.
Esattamente come Caviglia, suggerendo all'ultimo momento quella mossa, si augurava.

18. I TIMORI DI UN NUOVO CARSO

Come i prigionieri catturati dagli italiani avrebbero confermato, von Goglia si attendeva anche per l'indomani la continuazione dell'attacco su tutto il fronte, tanto che Boroevic nelle prime ore del 25 si sentì in dovere di esprimere al Comando Supremo tutto il suo compiacimento per il valoroso comportamento delle sue truppe sul Grappa, in particolare delle artiglierie:

"Unanime è l'elogio per le nostre artiglierie, le  quali mediante un'efficacissima cooperazione permisero alle nostre truppe di mantenere le nostre posizioni e, ciò che è essenziale, cooperarono alla riuscita di numerosi contrattacchi". 
(http://www.montegrappa100.eu/wp-content/uploads/2011/12/1918-24-ottobre-del-gen.-Adriano-Alberti-La-lotta-sul-Grappa-stralcio.pdf).

LE GRAVE DI PAPADOPOLI IN MANO INGLESE
Ma mentre sul Grappa e zone limitrofe era il valore delle truppe imperial-regie, oltre che la particolare orografia del terreno, a determinare l'incertezza sull'esito del confronto, sul Medio e Basso Piave le operazioni proseguivano ancor più lentamente a causa dell'impressionante  piena del fiume alimentata dalla pioggia incessante: l'acqua era salita nel settore tra Pederobba e Sant'Andrea di Barbarana di quasi due metri, con una corrente che sfiorava i tre al secondo.
Questo impediva od ostacolava gravemente la progettata costruzione da parte dei quattro battaglioni pontieri di Caviglia (II°, IV°, VI° e VIII°) degli 8 ponti (uno a Vidor, tre a nord del Montello nel settore di Fontana di Buoro, uno tra Santa Croce e Falzè, due a Nervesa ed un ultimo proprio alle Grave, a sud di Nervesa) e delle 11 passerelle tra Onigo e Ponte della Priula, per cui erano stati messi a disposizione ben 20.000 metri cubi di legname, sufficienti a costruire addirittura  20 ponti, ben 12 in più di quelli previsti.
A mitigare la frustrazione per questa tragica situazione, la circostanza che con un pizzico di fortuna la X° armata italo-inglese di Lord Cavan, sfruttando una finestra temporale di qualche ora di sereno nella notte tra il 23 ed il 24, proprio nel settore delle Grave di Papadopoli era invece riuscita ad infiltrarsi in silenzio senza alcuna preparazione d'artiglieria sulle isolette di Cosenza, Lido, Grave e Caserta, separate  dalla riva opposta del Piave tenuta dal nemico solo da uno stretto canale facilmente guadabile, mentre sarebbe purtroppo finita in un nulla di fatto l'occupazione di quella di Maggiore da parte della brigata Foggia (Brigadiere Generale Raffaele Radini Tedeschi) della 37° divisione di Giovanni Castagnola (XI° C.A. di Giuseppe Paolini), costretta purtroppo a riabbandonarla nella notte dopo ore e ore di combattimento per evitare di restare isolata sotto il fuoco d'artiglieria nemico a causa della rinnovata piena del Piave.

Proprio quest'insperato successo inglese avrebbe fatto e fa tuttora gridare alla stampa ed anche a diversi commentatori di cose militari del mondo britannico che il merito del trionfo di Vittorio Veneto fosse da ascrivere solo alle armi di Lord Cavan e non agli italiani.
Si tratta però di un giudizio non solo affrettato, inesatto e ingeneroso verso questi ultimi, ma proprio sbagliato concettualmente: se è infatti vero che l'attacco inglese non era stato affatto gradito per niente da Caviglia, perché temeva che esso potesse svelare le linee strategiche del suo piano d'attacco, mentre paradossalmente entrambi i comandanti della V° e della VI° armata nemiche avevano ritenuto che si trattasse di un attacco diversivo rispetto all'attacco principale sul Grappa, quando invece come sappiamo era semmai proprio il contrario, non si può dimenticare che solo il sacrificio della IV° armata italiana sul Grappa, impedendo alle riserve di affluire sul Piave, e lo straripamento dell'VIII° di Caviglia sulla piana di Treviso, dando ampiezza e profondità all'intero fronte d'attacco, avrebbero consentito a quella comunque circoscritta incursione inglese di avere col senno del poi l'importanza che le è stata attribuita.
Senza le due armate italiane, le truppe inglesi sarebbero state sicuramente spazzate via! 


La cosa strategicamente importante comunque, il cui merito è certo tutto inglese e nessuno può contestarlo, è che la riuscita di questo colpo di mano avrebbe comunque consentito alle truppe britanniche di lanciare quattro altri ponti di collegamento con la riva opposta del fiume (però sempre con l'aiuto determinante anche qui del genio pontieri italiano), anche se a fine giornata Caviglia e Lord Cavan concordavano tra loro che con quelle condizioni di tempo era impossibile al momento lanciare la prevista offensiva generale sul Piave, col conseguente rinvio di un giorno.
Come era capitato sia un anno prima nella prima battaglia di arresto dopo Caporetto che il 15 giugno precedente nella seconda battaglia del Solstizio, tuttavia, anche adesso la IV° armata si trovava comunque di fatto costretta a combattere da sola sul Grappa, contro le migliori divisioni austro-ungariche in assoluto, in una situazione di equivalenza teorica, ma di inferiorità pratica, di mezzi, uomini e cannoni.
Non era una cosa bella...

NULLA DI FATTO ANCHE IL SECONDO GIORNO...
Il 25 ottobre, caratterizzato dal cielo sereno al mattino e da nebbia e poi addirittura pioggia al pomeriggio e alla sera, un nuovo attacco notturno su quattro colonne sull'Asolone e sul Col della Beretta delle due brigate Bari e Calabria della 18° divisione di Rosacher (IX° C.A.) fallì ancora, nonostante alle prime luci della mattina la seconda colonna guidata dal IX° reparto d'assalto del maggiore Giovanni Messe (promosso in seguito tenente colonnello e decorato con la medaglia d'argento al valore) giungesse sul Col della Beretta, con la terza arrivata invece sulla cima dell'Asolone, per esserne però entrambe scacciate intorno alle 11,00 dalle riserve della 4° divisione K.u.K. ceca di Brunn (Brno) del Feldmaresciallo Karl Haas del XXVI° C.A.
Sorprendentemente ebbe stavolta successo invece l'attacco della Pesaro della 15° divisione di Petilli che, rafforzata dal XVIII° reparto d'assalto, a differenza della sorella Cremona, respinta  alle Quote 1.484 (Prassolan) e 1.474 dopo una serie di capovolgimenti di fronte, riuscì finalmente a conquistare e tenere il Pertica, nonostante la durissima opposizione della 48° divisione K.u.K. da montagna di Michael Gartner Edler von Karstwehr, costata all'intero VI° C.A. di Lombardi quel giorno ben 1.500 perdite!
Solo poco meno, circa 1.300, furono invece quelle sopportate dal XXX° C.A. di Montanari nel continuo, infruttuoso assalto ai Solaroli: l'intera 47° divisione di Gualtieri (brigate Lombardia e Bologna) venne respinta al mattino dalle determinatissime riserve della 13° K.K. Landwehr Schutzen del Feldmaresciallo Ernst Kindl, mentre un nuovo attacco pomeridiano condotto ancora dalla Lombardia insieme con l'Aosta della 50° di Maggi e sei battaglioni dell'80° alpina di Barco venne totalmente frustrato dalle numerose e potenti artiglierie nemiche, il cui tiro di contropreparazione era particolarmente efficace, e ancora una volta dalla indomabile 17° K.u.K. di Stroher schieratasi ormai interamente sulle cime circostanti.
Nonostante sul fronte del Medio Piave le truppe di Lord Cavan mettessero a segno un altro buon colpo, occupando interamente le Grave di Papadopoli dopo averne scacciato un intero battaglione nemico e consentendo così ai genieri di costruire altre passerelle per permettere a numerosi reparti inglesi e italiani di passare dall'altra parte, lo stallo sul Grappa continuava.

...E NEPPURE NEL TERZO
Il 26 ottobre, nonostante i ripetuti attacchi del IX° C.A. di De Bono, in particolare della 17° divisione di Leoncini, sorretti dal vigoroso fuoco delle artiglierie diretto sui reticolati ed i capisaldi nemici, nessun risultato significativo veniva conseguito sull'Asolone, costringendo anzi ad intervenire intorno alle 13,00 anche le fresche brigate Siena e Forlì della 21° divisione di Alberto Cangemi: la volontà ed il coraggio dei reparti d'assalto divisionali consentivano di prendere per poche ore la cima e addirittura di avanzare lungo la dorsale, ma la forte reazione della 28° divisione K.u.K. di Lubiana di Alfred von Zeidler, di reparti della 60° K.u.K. dell'ungherese Joszef Pacor von Karstenfels und Hegyalja e della formidabile K.u.K. stiriana Edelweiss di Linz di Heinrich Wieden Edler von Alpenbach tratta anch'essa dalla riserva, sorrette dal fuoco delle loro artiglierie diretto sulle avanguardie italiane per isolarle dal resto dei battaglioni avanzanti, costrinse ad un generale ripiegamento sulle posizioni di partenza intorno alle 16,00.

Nel settore del VI° C.A. di Lombardi la fresca 22° divisione di Giovanni Battista Chiossi (brigate Roma e Firenze) falliva con molte perdite l'avanzata dal Monte Pertica verso il Col della Martina e l'Osteria del Forcelletto, contrastata, sotto il fuoco delle artiglierie nemiche, dalle truppe del I° C.A. di Ferdinand Kosak, la 48° K.u.K. bosniaca da montagna di Sarajevo di Michael Gartner Edler von Karstwehr e la 42° Honved croata di Zagabria di Ritter von Soretic, e anzi le due brigate Pesaro e Cremona erano costrette a battersi strenuamente addirittura per conservare il possesso delle Quote 1.549 e 1.551 del Pertica, mentre anche per il XXX° C.A. di Montanari le cose ristagnavano, visto che la 47° divisione di Gualtieri veniva respinta nuovamente con vigore sui contesissimi Solaroli e sullo Spinoncia, l'Aosta della 50° di Maggi non riusciva a prendere ancora il Fontanel e l'80° alpina di Lorenzo Barco, ormai mossasi anche lei interamente dalle iniziali posizioni di riserva, il Fontana Secca.
Gaetano Giardino aveva ribadito sin dalle 16,00 del 25 ottobre, dopo il primo giorno e mezzo di combattimenti, che era sua intenzione continuare a insistere nell'offensiva, in particolare intensificando il fuoco della sua artiglieria, sull'onda anche delle informazioni apprese dalle migliaia di prigionieri già cadute in mano italiana che attestavano come la forza del nemico andasse indebolendosi ogni giorno di più di pari passo col suo morale sempre più basso, ma le sue truppe, logorate dai continui assalti frontali e disilluse dopo l'ottimistico entusiasmo iniziale, cominciavano a essere stanche perché le riserve faticavano ad affluire in prima linea, e di fronte a loro gli austro-ungarici sembravano invece clamorosamente coesi e ancora pienamente in grado di combattere.
Fu per questo motivo che il pur orgogliosissimo comandante della IV° armata chiese ad Armando Diaz, giunto al suo posto di comando nel pomeriggio per esaminare più da vicino la situazione, l'autorizzazione ad interrompere il giorno 27 l'offensiva per consentire alle sue truppe di riposarsi un po' e riorganizzarsi, ottenendone alle 18,00 il suo assenso alla richiesta.
Questa decisione venne accolta da un po' tutta l'opinione pubblica italiana con sconcerto misto a delusione e rabbia, perché l'inevitabilità di proseguire ancora a lungo le operazioni sul Grappa vista l'inagibilità del Piave faceva pensare un po' a tutti ad un sinistro ripetersi del medesimo scenario del Carso, ma la situazione si complicava addirittura ancora di più il giorno dopo, quando all'alba, preceduto da un furibondo fuoco di artiglieria, il Raggruppamento "Kosak", formato da alcuni reggimenti ancora della 48° K.u.K. e della fortissima 55° K.u.K. da  montagna bosniaca di Aurel von Le Beau, si scagliava sui due speroni delle Quote 1.549 e 1.551 del Pertica difesi in particolare da due battaglioni delle stremate Pesaro e Cremona della 15° divisione di Petilli.
A guidare la carica era ancora una volta il 7° reggimento carinziano di Klagenfurt, il "Graf von Khevenhuller" (continuavano tutti a chiamarlo così, anche se era dal 1915 che i riferimenti agli antichi nomi nobiliari erano stati ufficialmente aboliti), i "diavoli bruni", la più prestigiosa unità d'élite austriaca (letteralmente, al 97% lo erano tutti i suoi soldati).
Anche se ormai ridotto all'ombra di sé stesso, con solo poco più di 1.000 uomini, un terzo degli effettivi, per lo più vecchi riservisti della territoriale e ragazzini a cavallo della maggiore età, con solo una piccola percentuale di superstiti delle battaglie precedenti, ormai stanchi, disillusi e vogliosi solo di tornare a casa, il gloriosissimo reggimento non si tirò indietro.
Dopo una marcia notturna di due ore per prendere posizione prima dell'attacco, alle 05,00 i tre battaglioni del reggimento si lanciavano lo stesso in avanti, con forza, con coraggio, ancora con splendida efficienza, ligi al giuramento prestato, nonostante alcuni tiri corti delle loro artiglierie finissero per colpire proprio loro facendo strame soprattutto delle StossTruppen che li precedevano per neutralizzare i nidi di mitragliatrici italiani che li aspettavano al varco.

L'assalto era furibondo, le postazioni delle FIAT 1914 e delle Maxim e Schwarzlose di preda bellica venivano superate una ad una, coi serventi tutti uccisi o messi in fuga, ed alla fine gli uomini del 7° irrompevano come uno tsunami sul Pertica, dov'erano il II°/239° Pesaro ed il II°/21° Cremona: i due battaglioni italiani alle 06,15 venivano letteralmente scaraventati indietro da Quota 1.551 e Quota 1.549 dalla foga di quel nemico fiero, colmo di rancore e irriducibile, poi le riconquistavano, ma passati pochi minuti le riperdevano nuovamente.
Mentre le contrapposte artiglierie si davano battaglia, in una mischia senza capo né coda in cui attaccanti e difensori impegnati in furibondi corpo a corpo quasi si confondevano tra loro nel buio nebbioso delle prime ore di quel nuovo giorno, l'intero settore difeso dalle due divisioni del VI° C.A. era in fiamme, anche se sulle vette vicine le truppe attaccanti cominciavano progressivamente a ripiegare sotto i colpi delle mitragliatrici dei capisaldi italiani tornate a ruggire dopo il primo momento di sbandamento.
Ma sul Pertica no, lì la lotta continuava ancora, accesissima, perché proprio lì si
 stava consumando in quei momenti un autentico dramma: i "diavoli bruni" erano i rappresentanti di un mondo antico che non si rassegnava a morire di fronte a quello nuovo, e pieno di incognite, che doveva subentrargli, che però a sua volta non vedeva l'ora di sostituirlo...

Italiani e austriaci si stavano letteralmente facendo a pezzi dopo ore e ore di scontro durissimo, ma nessuno dei due voleva cedere: la cima passò di mano più volte dagli uni agli altri, ormai era un continuo cozzo di corpi tra le recinzioni abbattute e ciò che restava di quelle trincee, devastate dai proietti dell'artiglieria dell'una o dell'altra parte e passate di mano ormai almeno quattro volte.
Lo schema era sempre lo stesso, prima ci si lanciava le bombe a mano addosso, poi si passava ai fucili, anche da brevissima distanza, ed infine come negli antichi scontri di secoli prima, in quella guerra tornata allo stato primitivo, ci si affrontava con le baionette inastate, con le mazze, le vanghe, ci si avvinghiava nel fango col pugnale in mano, a colpi di elmetto, di tascapane.
Tutto, proprio tutto era possibile usare pur di uccidere il proprio nemico, tuttavia in quel carnaio apparentemente abbandonato totalmente al caso che stavano diventando Quota 1.549 e Quota 1.551 cominciava a prevalere il migliore addestramento, il rancore, l'Alone di Storia che sembrava circondare i carinziani rispetto al semplice coraggio ed all'istinto di sopravvivenza dei sorpresissimi soldati italiani, che non si sarebbero mai aspettati certo una simile cmbattività dal loro nemico, che tutti davano ormai rassegnato a perdere...
Mentre su Quota 1.551 il combattimento era però ancora ben lungi dall'essere concluso, e le posizioni passavano dall'uno all'altro dei contendenti con agghiacciante regolarità, la situazione era ora ben diversa su Quota 1.549, dove invece i fanti italiani erano chiaramente in difficoltà, e questo dava ancor maggiore determinazione agli altri che già si vedevano vittoriosi.

Ormai si combatteva solo sul Pertica, e se nelle alture vicine le truppe di Carlo erano state respinte e solo le artiglierie contrapposte duellavano tra di loro, qui al contrario la pressione dei carinziani cominciava clamorosamente a diventare insostenibile per i due battaglioni italiani, quando improvvisamente il suono inconfondibile delle armi automatiche e delle fucilerie annunciò l'arrivo su Quota 1.549, tornata nel frattempo in mano al "Khevenhuller", delle freschissime riserve inviate dal Comando di corpo d'armata, il II° e il III° battaglione del 41° reggimento della brigata Modena della 59° divisione dei Isidoro Zampolli.
Non se l'aspettavano a questo punto, i carinziani, e dopo aver lasciato sul posto un distaccamento di presidio si erano subito scagliati a dar man forte al resto del reggimento impegnato nella conquista di Quota 1.551 per chiudere la partita e riprendersi finalmente l'intera vetta: ebbe gioco facile, così, il 41° del colonnello Abelardo Pecorini, decorato in seguito per quest'azione con la Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia, a sbaragliare le stanche compagnie nemiche ed a riprendersi per la quinta ed ultima volta Quota 1.549, che da quel momento in poi sarebbe restata in mano sua.
Il 41° Modena sarebbe stato decorato con la medaglia d'argento al valore militare.

La lotta continuava ancora a lungo sullo sperone di Quota 1.551, l'unico ancora in bilico tra gli italiani e i carinziani: questi ultimi continuavano nei loro assalti furiosi, ma dopo averlo preso ne venivano puntualmente cacciati via...
A sorreggere il glorioso 7° era ormai solo la pura tigna, la voglia di non darla vinta agli italiani,  innervata da uno spirito di corpo eccezionale unito ad una forza morale sopra la media, quei due fattori che consentono ad ogni unità militare, anche la più disperata, di osare l'inosabile e ottenere risultati apparentemente impensabili, ma ormai tutto si stava compiendo: così, quando il II°/239° ed il II°/21° nel frattempo vennero raggiunti anche dagli altri battaglioni delle due brigate i carinziani si resero conto di non avere più speranze.
Dietro di loro non c'era nessuno, né della 48°, né della 55°: i loro soldati o erano morti o erano inchiodati dai colpi dell'artiglieria italiana sempre più forte, o semplicemente, non ne avevano più le forze. 
Come ormai non ne avevano più nemmeno loro.
Così, quando furono avvistati, vicinissimi, anche i battaglioni della Roma e della Firenze della 22° divisione di Chiossi, ormai era giorno fatto, l'orgoglioso 7° reggimento di fanteria "Graf von Khevenhuller" onusto di Gloria, nato nel 1691, vincitore di mille battaglie, trionfatore a Curtatone e Montanara, a Custoza, sul San Michele, a Caporetto, cominciò a scappare, buttando i fucili per terra, scompostamente, preso ormai dal panico, come fosse un qualsiasi battaglione di complementi dell'ultim'ora al loro battesimo del fuoco, inseguito da quattro brigate italiane, falcidiato dalle mitragliatrici, sotto i colpi dell'artiglieria e dei caccia italiani.
Almeno otto volte quelle due maledette cime erano passate di mano tra italiani e carinziani, carinziani: questi ultimi non perdevano perché inferiori, o per aver combattuto male, o per aver avuto paura, o per una serie di sfortunate coincidenze, no, ma solo perché gli altri avevano le riserve, loro no, gli altri avevano avuto il soccorso di altri battaglioni e infine di ben 5 reggimenti di tre brigate, loro al contrario si erano dovuti arrendere per sfinimento, senza aver visto un sol uomo degli altri reparti austro-ungarici venirgli in soccorso.

Il 7° morì alle 10,30 del 27 giugno 1918, dopo 228 anni di Storia, lasciando sul terreno quel solo giorno 862 uomini di truppa e 35 ufficiali, i due terzi di quelli che avevano iniziato l'attacco solo cinque ore e mezza prima, ma anche la Pesaro e la Cremona erano ormai ridotte a pezzi: sarebbero state sostituite proprio dalla Modena e spedite sin dal giorno dopo nelle retrovie in Val dei Lebi, dove sarebbero rimaste fino all'armistizio.
La Pesaro, gravata dalla perdita di 88 ufficiali e 1.583 militari di truppa, sarebbe stata citata nel bollettino n. 1.252 del 26 ottobre, unitamente al IX°, al XVIII° e al XXIII° reparto d'assalto ed alla brigata Aosta, e decorata con una medaglia d'argento al valore, così come il 21° fanteria del colonnello Enrico Mettino, mentre il Brigadiere Generale Ferruccio Marincola di San Floro, comandante della Cremona (che nei durissimi scontri di quei tre giorni aveva perso 1.500 uomini tra cui 46 ufficiali), avrebbe ottenuto la Cro9ce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia.

(V. http://www.lindipendenzanuova.com/monte-pertica-lultima-battaglia-dei-diavoli-bruni/)

Ma il 27 non si era combattuto solo sul Pertica, perché contemporaneamente anche l'Aosta sul Valderoa aveva subito un nuovo feroce contrattacco da parte stavolta della 17° K.u.K. di Stroher e del resto della 55° K.u.K. bosniaca, che sfruttando la fittissima nebbia e l'oscurità si erano infiltrate magistralmente sin dalle 03,00 della notte su quelle pendici al termine di un poderoso bombardamento delle artiglierie iniziato alle 01,45: travolte anche le difese del battaglione alpino Pieve di Cadore del 13° gruppo (VIII° raggruppamento) della 80° alpina di Lorenzo Barco, le truppe asburgiche avevano così costretto le fanterie italiane superstiti a ripiegare in disordine sul versante orientale di quella cima, lasciando quello occidentale al nemico.
La situazione cominciava a diventare veramente pesante, così Giardino, che nei primi tre giorni aveva già avuto un totale di circa 15.000 perdite e in quella disgraziata giornata si era addirittura recato in prima linea a incitare i suoi a resistere, dicendogli però di fare per il momento affidamento solo sulle loro esclusive forze senza aspettarsi l'arrivo di riserve, era stato costretto ad insistere presso Diaz, che alle 13,45 aveva ordinato di riprendere l'offensiva per il 28, di posporla almeno di un altro giorno.
Anche stavolta aveva trovato comprensione nel Generalissimo, che diede il proprio assenso.

Non erano pochi però quelli che cominciavano apertamente a paventare a questo punto un nuovo e inaspettato tracollo.
Tra questi c'era il Ministro del Tesoro Francesco Saverio Nitti, che giunse addirittura a scrivere al Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando questo messaggio:

"Siamo battuti, l'offensiva è infranta, si profila un disastro e tu ne sei il responsabile".

Ma non era più il tempo di Caporetto, da allora le cose erano mutate un bel po'.

19. LE PRIME DEFEZIONI INGUAIANO GLI AUSTRO-UNGARICI

Sul Grappa, come abbiamo visto, non era stato fatto solo un enorme lavoro difensivo, che aveva reso pressoché imprendibile quella parte del massiccio in mano italiana, ma anche un notevolissimo sforzo ingegneristico in previsione dell'attacco: 7 strade indipendenti salivano dal piano sino alle linee avanzate, diverse strade d'arroccamento solcavano tutto il massiccio, una quarantina di teleferiche per il trasporto in sicurezza di uomini, animali, mezzi e materiali vari consentivano il rapido approvigionamento da un punto all'altro dello schieramento, mentre centinaia di caverne munite di prese d'aria, illuminate da corrente elettrica e provviste di magazzini con ingenti scorte di acqua, viveri e munizioni, collegate tra loro da un fitto reticolo di tunnel scavati nella roccia, consentivano di ospitare migliaia e migliaia di nostri soldati sia di prima che di seconda linea e di rifornire senza apparente soluzione di continuità tutti i capisaldi, con enorme stupore e rabbia del nemico.
L'intenzione del comandante della IV° armata, coincidente con quella di Diaz, di continuare comunque a tenere agganciate le armate nemiche fino a quando fosse perdurata la piena del Piave al fine di costringerle a impegnare tutte le riserve possibili, grazie all'enorme lavoro dei genieri di Nicolò Gavotti non era affatto peregrina, e per quanto nel campo avverso regnasse comunque un certo ottimismo, dovuto al fatto che nonostante i mille assalti subiti il Gruppo Belluno di von Goglia aveva retto da solo ed anzi era stato addirittura in grado di contrattaccare e riprendersi molte posizioni perdute in precedenza, in realtà nonostante le apparenze non tutto filava così liscio per gli austro-ungarici.

Mentre von Wurm comandante della V° armata, non sembrava affatto preoccupato dalla conquista da parte delle truppe di Lord Cavan delle Grave di Papadopoli, che riteneva semplicemente un attacco diversivo, a maggior ragione col Piave gonfiato dalla pioggia che ne impediva uno sostanziale sfruttamento, von Krobatin al contrario si mostrava estremamente preoccupato per le temute infiltrazioni franco-britanniche sul Medio Piave che iniziavano a coinvolgere da sud-est il settore di competenza della VI° armata di von Schomburg-Hartenstein...
Soprattutto, è vero che le truppe di von Goglia avevano resistito da sole, ma nel frattempo il Feldmaresciallo era stato costretto comunque ad usare ampiamente tutte le sue riserve anche perché all'improvviso la sera del 25 ottobre era giunta dal Comando di Bolzano dell'Arciduca Giuseppe la notizia che molti reggimenti austro-ungarici di seconda schiera sul Grappa, tutti ungheresi, 11 su 51 (quattro divisioni)probabilmente ben più a conoscenza di quelli schierati in prima linea delle continue insurrezioni che stavano in quei giorni furoreggiando nel multietnico Impero di Vienna, oltre che delle sempre più insistenti voci di un vicino armistizio, si erano rifiutati di avvicendare quelli davanti al nemico.
Ad essi erano da aggiungere almeno un paio croati, il 25° e il 26° della 82° brigata, appartenente proprio alla 42° Honved di Theodor Ritter von Soretic, che addirittura sin dalla sera del 22 si erano rifiutati di sostituire in prima linea il 27° e il 28° della brigata sorella 84°!
Un bruttissimo segnale, anche perché tradizionalmente le truppe croate erano reputate non solo tra le migliori dell'Imperial-regio esercito (le migliori come fanterie leggere), ma persino tra quelle in assoluto più fedeli all'Imperatore!

La ribellione dei due reggimenti croati era stata subito sedata, ma essi erano stati comunque inviati in retrovia a Primiero.
Considerata l'esplosività della situazione, lo stesso Arciduca Giuseppe aveva a quel punto raccomandato caldamente di rimpatriare tutte le divisioni ungheresi per evitare che tali ammutinamenti diventassero una vera e propria epidemia e, mentre infuriava la discussione tra lui, Carlo I°, Arz von Straussemburg, von Krobatin e Boroevic sull'opportunità o meno di una misura dirompente come questa, gli Alti Comandi erano stati nel frattempo costretti ad inviare sul posto altre truppe, prelevandole da quelle schierate davanti al Montello e al Medio Piave.
Il fronte nemico davanti all'VIII° armata del Tenente Generale Enrico Caviglia era stato costretto ad arretrare di un paio di chilometri, ed ora era anche assai più sguarnito di prima.


PARTE SESTA


VITTORIO VENETO

20. L'VIII° ARMATA DI CAVIGLIA PASSA IL PIAVE (27 OTTOBRE)

Caviglia, intuendo l'estrema gravità di quanto accaduto, decise così al contrario di Giardino di accelerare i tempi, dando ordine di requisire sin dalla sera del 26 ogni imbarcazione disponibile per poter costruire nel più breve tempo possibile i ponti di barche e le passerelle necessari a superare il Piave in piena, di cui però era attesa a distanza di poche ore la fine

IL PIANO DI CAVIGLIA PER OLTREPASSARE IL PIAVE
Il piano stabilito da Caviglia era apparentemente semplice.
Il XXII° C.A. del Tenente Generale Giuseppe Vaccari doveva forzare per primo il Piave con gli uomini della 1° divisione d'assalto del Maggiore Generale Ottavio Zoppi appena distaccati al suo comando dal C.A. d'assalto del Tenente Generale Francesco Saverio Grazioli, cui dovevano fare seguito le restanti brigate delle altre sue divisioni di prima linea, la 57° del Tenente Generale Luigi Cicconetti e la 60° del Maggiore Generale Pietro Mozzoni.
Tutte queste truppe dovevano costituire una testa di ponte nel settore di Sernaglia, da cui dovevano poi discendere lungo la valle del torrente Soligo in direzione della piana trevigiana, verso Vittorio, con la copertura sulla destra delle truppe del XXVII° C.A. del Tenente Generale Antonino Di Giorgio.


Le truppe italiane passano il Piave alle grave di Papadopoli


Tra il dire e il fare, però, si dice, c'è di mezzo il mare: in questo caso tra la riva destra degli italiani e la riva sinistra degli austro-ungarici c'erano le isole e isolette ghiaiose di quel tratto acquitrinoso di fiume, ricoperte da una fitta vegetazione lacustre, i cascami della grande laguna veneta, quelli che residuavano in quel punto dopo due millenni di civilizzazione umana.
Proprio lì, all'interno di quelle isole e di quei canali melmosi, nascosti tra le tante curve piccole e grandi del corso d'acqua, coperti dalle alte canne palustri che crescevano rigogliosamente sulle sponde silenziose del Piave, si nascondevano in realtà decine e decine di nidi di mitragliatrici pesanti Schwarzlose, a intervallare con frequenza un intricato labirinto di trincee nemiche colme di interi reggimenti armati sino ai denti, irti di bombarde, pezzi di piccolo e medio calibro, lanciabombe, tutti appartenenti alla 11° divisione K.u.K. ungherese-ucraina  di Lemberg (Lvov, Leopoli) del Maggior Generale  Rudolf Metz Ritter von Spondalunga.
Ma non era finita qui.
A completare il complesso, articolato e micidiale apparato difensivo messo su dalla VI° armata del Feldmaresciallo Alois von Schomburg-Hartenstein per difendere fino all'ultimo uomo la linea del Piave erano però soprattutto, appena al di là del fiume, a non più di qualche chilometro di distanza dalle linee italiane, decine e decine di batterie di medio, grosso e grossissimo calibro nascoste anch'esse tra la rigogliosa vegetazione, i roccioni, le gallerie e gli anfratti naturali o scavati dall'uomo che, quasi invisibili, ricoprivano le nervose alture che, vere e proprie torrette naturali, dominavano quel terreno acquitrinoso e gradito solo alle zanzare, che però subito al di là precipitava letteralmente a picco verso la pianura trevigiana.
Ed era proprio preciso compito dell'VIII° C.A. di Gandolfo quello di passare il fiume poco più a est, subito dopo l'ansa che lo stesso faceva qualche centinaio di metri dopo rientrando verso destra, a Nervesa, eliminare quelle batterie, presenti in gran numero proprio sulle alture antistanti a quel piccolo borgo, e da lì andare alla carica verso Vittorio, spinto dalle sue avanguardie, costituite dalla 2° divisione d'assalto del Maggiore Generale Ernesto De Marchi, con la sua punta di diamante costituita dai tre gruppi di fiamme nere del II° raggruppamento d'assalto del Brigadiere Generale Edoardo Bessone, il 4° agli ordini del colonnello Enrico Fasulo (col XIV° e XXV° reparto d'assalto e l'VIII° battaglione bersaglieri), il 5°  del parigrado Pasquale Galiani (col I° e V° assalto e il XIII° bersaglieri), e il 6° di Carlo Trivulzio (col VI° e XXX° assalto e XXXIII° bersaglieri), supportati da un gruppo di artiglieria da montagna.




IL LXXII° REPARTO D'ASSALTO ROMPE GLI INDUGI
Il pomeriggio del 27 ottobre intere compagnie di pontieri, sotto il fuoco dell'artiglieria pesante dalle alture e delle centinaia di mitragliatrici dall'altra sponda del fiume, cercavano di eseguire disperatamente l'ordine di gettare i tre ponti previsti da Fontana del Buoro fino a Casa Guizzo più un quarto proprio di fronte a Falzè.
Quest'ultimo costituiva per il nemico quasi uno sfregio, un autentico guanto di sfida, perché costruito proprio in faccia a lui, letteralmente a pochi metri di distanza dalle sue trincee, e abbatterlo diventava per gli austro-ungarici non solo una necessità militare, ma proprio un obbligo morale e un vanto.
Ecco perché proprio quel ponte sarebbe stato continuamente preso di mira per tutto il tempo dalle artiglierie, continuamente buttato giù dagli austro-ungarici, continuamente ritirato su dagli italiani, in un gioco mortale a rimpiattino, in cui migliaia di uomini, da una parte e dall'altra, avrebbero perso la vita, affogati, mitragliati o fatti a pezzi dagli shrapnel.
Ma il tempo stringeva, sul Grappa le operazioni ristagnavano maledettamente, sul Piave la piena e il tempo brutto stavano rovinando tutti i piani, le bordate dei cannoni asburgici impedivano l'attraversamento del fiume e distruggevano ponti e passerelle, le mitragliatrici falciavano i genieri, insomma ci voleva qualcosa che invertisse l'andazzo, che sparigliasse le carte, facesse saltare il banco...
E quel qualcosa avvenne.

Improvvisamente, proprio sotto gli occhi di Vaccari e dello stesso Caviglia, acquartieratisi al di qua del Piave sul Montello, all'altezza di Casa Benedetti, accadde un fatto incredibile: poco dopo le 22,00 di sera a bordo di alcuni barconi dei pontieri un intero reparto d'assalto di  fiamme cremisi, gli arditi bersaglieri,  il LXXII° del capitano Ettore Marchand, passato al XXII° C.A. poco prima della battaglia del Solstizio in sostituzione del XXII° reparto assegnato alla costituenda divisione d'assalto di Zoppi, si lanciò con un coraggio e una sfrontatezza incredibili in direzione della sponda opposta del fiume, riuscendo non si sa come, senza che il nemico se ne accorgesse, forse favorito anche dalla pesante nebbia che saliva sempre a quell'ora dall'acqua, a prendere terra su un isolotto nel bel mezzo del corso d'acqua, e da lì a spiccare l'ultimo balzo verso l'altra riva!


L'isola dei morti


Il sottotenente degli arditi Umberto Visetti, ex bersagliere del 4° reggimento e futura medaglia d'oro in Etiopia nel 1937 (con altre medaglie sparse), divenuto in tarda età monaco agostiniano col nome di Padre Agostino di Cristo Re, faceva parte di quel valorosissimo reparto d'assalto.
Avrebbe lasciato questa appassionata e terribile testimonianza di quei drammatici momenti in un suo libro autobiografico, "Dalle spalline al camaglio", edito a Firenze, da Sansoni, nel 1955: 

"...Servendoci di barconi del genio pontieri occupammo un isolotto che sarà poi chiamato Isola dei Morti perché vi perdemmo circa 600 bersaglieri arditi con due ufficiali; ma la tenace resistenza del nemico abbarbicato sull'altra sponda con grande abbondanza di mitragliatrici Schwarzlose mai viste, ci impedì di varcare il Piave in piena, che si trascinò via i barconi con il glorioso carico di morti.
Finalmente, sotto l'imperversare delle nostre terrificanti bombarde, che vomitando tonnellate di alto esplosivo volatilizzarono con i reticolati i nidi di mitragliatrice, riuscimmo a passare, buttandoci a nuoto dietro a un barcone superstite che per fortuna aveva qualche fune, reggendoci a catena l'un l'altro, aggrappati chi alle funi, chi al cinturone delle giberne. 
Perdemmo altri arditi, il capitano Marchand scomparve nell'esplosione di una granata di grosso calibro. 
Come ufficiale più anziano, avendo assunto il comando del battaglione puntai decisamente su Pieve di Soligo, obiettivo assegnatoci dal generale Vaccari".
(https://digilander.libero.it/fiammecremisi/carneade/marchand2.htm)

Salvati dalle artiglierie italiane che tanto mirabilmente avevano preso di mira le linee della fanteria nemica, gli arditi non persero tempo a ringraziare il Signore per aver salvato la pellaccia, perché subito dovettero fare fronte al nemico che, riavutosi dalla sorpresa, li attaccava con decisione tra Ca' Mira e Boaria del Magazzeno, in un numero tre volte superiore al loro, eppure riuscivano in un primo tempo a resistere e successivamente, una volta riorganizzatisi, addirittura a contrattaccare ed a metterlo in fuga.
A quel punto il LXXII° si diresse senza indugi proprio su Falzè, con l'intento appunto di arrivare a Pieve di Soligo: erano rimasti solo in 150, ormai, e mancava l'effetto sorpresa, ma il loro compito era proprio quello, a questo punto, cioè tenere impegnato il maggior numero possibile di nemici per consentire agli italiani di passare tutti sulla riva sinistra del Piave.




SI ACCENDE LA BATTAGLIA SULLE DUE RIVE DEL PIAVE
Mentre quel pugno di uomini coraggiosissimi erano costretti ora però a difendersi con le unghie e coi denti tra le rovine della contesissima Falzè, sulla riva destra del Piave alle 23,30 della sera, quando finalmente il nemico si accorgeva di ciò che stava accadendo, dopo essersi concentrati a Santa Mama, passavano il fiume a Fontana del Buoro anche i tre gruppi di fiamme nere del I° raggruppamento d'assalto del colonnello brigadiere Ernesto De Gasperi, già comandante del 14° bersaglieri: il 1° del colonnello Napoleone Grillo (con il X° e XX° assalto ed il I° bersaglieri), il 2° del parigrado Pietro Anselmi (XII° e XIII° assalto, VII° bersaglieri) e il 3° di Roberto Bertolotti (VIII° e XXII° assalto, IX° bersaglieri).
Ci volevano due ondate per sbarcarli tutti, non senza perdite  (circa 200 annegavano travolti dalla corrente): con la prima passarono dall'altra parte l'VIII° ed il XXII° reparto d'assalto, con la seconda il resto delle fiamme nere, al diretto comando di De Gasperi, insieme col gruppo di artiglieria da montagna.

Mentre cominciava il duello delle contrapposte artiglierie, con quelle nemiche di Valdobbiadene, Moriago e Soligo che sin dalle 23,00 cominciavano a indirizzare un poderoso fuoco di sbarramento sul fiume, e un'ora dopo le nostre che replicavano martellando col fuoco di interdizione le posizioni austro-ungariche, i due reparti arditi all'avanguardia si dividevano: il XXII° superava intorno alle 03,00 di notte gli appostamenti difensivi nemici di Molino Pillonetto, dirigendosi senza indugio verso Fontigo, l'VIII° preferiva invece avanzare in una direzione più obliqua a nord-est verso Fontigo. 
Approfittando dell'improvviso squagliamento delle difese fluviali austro-ungariche dovuto alla violenza ed alla rapidità d'azione delle truppe d'assalto, però, nonostante il terrificante fuoco nemico d'artiglieria nello spazio di qualche ora sotto una fitta nebbia passavano dall'altra parte anche l'intera brigata Cuneo (Brigadiere Generale Enrico Lodomez), costretta ad avvalersi dei ponti dell'altro settore a causa della perdita di quello destinato a lei, e tre compagnie del 94° Messina (Brigadiere Generale Enrico De Bourcard) della 66° divisione di Carmelo Squillace (XXVII° C.A.), più la Mantova (Brigadiere Generale Paolo Paolini) della 57° di Luigi Cicconetti (XXII° C.A.), ed infine quasi verso l'alba la Pisa (colonnello Ariberto Perrone) sempre della 57° e persino la Piemonte (colonnello Domenico Mogno) della 60° di Pietro Mozzoni.
Alle prime luci dell'alba, sotto gli opposti scambi di artiglieria che continuavano senza un attimo di respiro, quasi l'intero XXII° C.A. di Vaccari era ormai sbarcato dall'altro lato, magari a spizzichi e bocconi, o partendo su un ponte e poi utilizzando l'altro dopo l'abbattimento del primo, con alcuni reparti mischiati ad altri per fare prima...


Fonte: http://www.frontedelpiave.info




MISSIONE SUICIDA PER IL CAPITANO PONTECORVO 
Nella prima mattina del 28 ottobre però quasi tutte le passerelle e i ponti erano state nuovamente spazzati via, per le rabbiose bordate nemiche o ancora per la piena, portando anche alla morte per annegamento di altri 250 arditi a causa della distruzione del ponte gettato a Falzè e alla decimazione di un'intera compagnia di 150 colti nel pieno attraversamento del ponte gettato davanti a Nervesa finito sotto tiro.
Le truppe d'assalto di Zoppi erano certo riuscite finalmente a prendere in rapida successione i tre villaggi di Mosnigo, Moriago e Sernaglia, dove avevano costretto alla fuga o catturato le batterie che fino a poco prima sparavano contro il fiume, ed erano addirittura avanzate rapidamente ancora in direzione di Pieve di Soligo, Collalto e Falzè, dove si erano ricongiunti con le superstiti fiamme cremisi del LXXII°, ma poi erano state state costrette a ripiegare nuovamente a Sernaglia, pur portando con sé addirittura ben 3.200 prigionieri.


Nell'impossibilità di avere e dare notizie sull'andamento dei combattimenti, Zoppi si sarebbe rivolto agli uomini di una sua speciale unità, il "reparto nuotatori", passati alla storia col nome di "Caimani del Piave".

Inventati nel corso della Prima battaglia del Piave dal capitano di corvetta e futuro ammiraglio Vittorio Tur, comandante del battaglione Caorle del Reggimento di Fanteria di Marina basato nella laguna veneta, selezionandoli tra volontari per lo più del posto appartenenti agli arditi di quel reparto, i Caimani, chiamati così per il particolare modo con cui muovevano gambe e braccia in acqua, sporgendo la testa solo a pelo d'acqua, assai simile a quello degli omonimi rettili, avevano trovato il loro inquadramento ufficiale nella nuova 1° divisione d'assalto di Zoppi: vi avrebbe fatto parte, tra gli altri, un giovanissimo personaggio destinato a diventare assai famoso durante il Fascismo, passato alla storia come il soldato più decorato d'Italia, il rude e allora sconosciuto Ettore Muti ("Gim dagli occhi verdi", l'avrebbe tempo dopo soprannominato  D'Annunzio).

Si trattava, si può dire, degli arditi più arditi di tutti: usciti da una rigorosa e spietata selezione all'interno di quel corpo già così speciale, da mesi essi combattevano una silenziosissima guerra notturna sul fiume col delicato ruolo per lo più di portaordini, una guerra "sporca" fatta anche di subitanee imboscate ed infiltrazioni ai danni del nemico sulla riva opposta, condotta indossando in genere solo calzoncini da bagno, col corpo ricoperto di grasso e nerofumo per sopportare al meglio il freddo dell'acqua e non essere visti nella notte, armati solo di pugnale stretto tra i denti, di petardi Thevenot chiusi in un contenitore stagno legato al corpo e della loro conoscenza delle arti marziali imparate dagli istruttori reduci dalla Guerra dei Boxer in Cina. 
Il più famoso di tali reparti era quello del capitano Remo Pontecorvo, unanimemente riconosciuto come il primo a organizzare un nucleo specializzato da utilizzare per passare a nuoto il Piave con funzioni di trasmissione notizie: proprio a lui il colonnello Campi diede incarico di passare a nuoto il fiume per contattare i reparti impegnati, averne preziose notizie sulla loro situazione sul terreno, recar loro gli ordini di Zoppi e consegnare dei piccioni viaggiatori.
Pontecorvo decise di guidare personalmente lui la missione, scegliendo per quest'operazione suicida solo 4 volontari, tutti senza una famiglia alle spalle e "votati alla morte": il sergente Perini, il caporal maggiore Broggi, il caporal maggiore Foce e il caporale Emanuelli.
Giunti alla riva del fiume i cinque uomini si chinarono e, raccolte le sue acque tra le mani giunte a coppa, le baciarono, con una sorta di cerimoniale misto tra lo scaramantico e il religioso, prima di immergersi lentamente nella forte corrente e cominciare a nuotare nel buio pesto verso la riva opposta, sotto l'intensissimo fuoco nemico.


Ottavio Zoppi
(Novara, 16/1/1870- Milano, 17/3/1962)
Sarebbero riusciti ad arrivarvi ed a infiltrarsi tra le linee nemiche fino a raggiungere la Piana di Sernaglia: qui Pontecorvo in persona si sarebbe incaricato di parlare ai comandanti delle truppe italiane in quel momento sulla difensiva nel settore di Moriago, De Gasperi, Paolini, Gabrielli, il maggiore Gatti e altri.
Date e ricevute le informazioni, consegnati i piccioni viaggiatori, subito dopo i cinque fegatacci fecero ritorno al fiume per ripassare dall'altra parte, ma purtroppo stavolta il viaggio di ritorno sarebbe stato decisamente peggiore di quello, pur periglioso, dell'andata, perché nel corso della marcia sotto il fuoco del nemico due uomini sarebbero caduti sulla riva sinistra, altri due appena toccata quella destra: solo Pontecorvo, unico scampato, sarebbe riuscito, praticamente nudo, stanco morto per lo sforzo, intirizzito dal freddo, pieno di graffi e coi piedi lacerati dai reticolati nemici, dai rovi e dall'erba alta dei boschetti d'acacia, una volta raggiunta la sponda italiana, a raggiungere le prime linee italiane e, salito in groppa ad un cavallo prestatogli da un cavalleggero, a presentarsi al cospetto del Generale Zoppi per relazionarlo sulla sua missione, trascorse poche ore dal suo inizio.
Così avrebbe descritto quel momento l'Onorevole Luigi Gasparotto, futuro primo ministro della difesa della Repubblica italiana, nel suo "Diario di un fante" (1919):

"Arriva alla nostra sponda, interamente nudo, con la rivoltella alla cintola e pugnale in bocca, un giovane erculeo, bruno. È il romano Pontecorvo, capitano degli Arditi, il capo della squadra nuotatori. Viene da Moriago e narra..."

Per tale azione in particolare e per tutto il suo operato nella creazione, addestramento e  conduzione del suo reparto scelto il capitano Pontecorvo sarebbe stato decorato con la medaglia d'argento al Valor militare.
Del suo reparto, composto da 82 uomini scelti da lui personalmente al termine di una scrematura di oltre 400 volontari, solo in 32 sarebbero sopravvissuti alla fine della guerra.
(V. http://www.battagliadelsolstizio.it/2017/10/23/i-caimani-del-piave/https://cefalunews.org/2018/06/20/prima-guerra-mondiale-i-nuclei-nuotatori-della-grande-guerra-i-caimani-del-piave/)

FIATO SOSPESO IL 28 OTTOBRE
La cosa che più preoccupava Caviglia era che in tutto quel caos organizzato in cui si stava svolgendo il passaggio sulla riva sinistra del Piave non era però sbarcata ancora nemmeno una brigata dell'VIII° C.A. di Gandolfo, che pure aveva il compito di effettuare lo sfondamento definitivo.
Di Gandolfo Caviglia si fidava moltissimo: accidenti, era l'eroe di Bosco Cappuccio, colui che all'alba del 29 giugno 1916, allora colonnello comandante del 10° Regina, aveva spinto alla riscossa ciò che restava del suo reggimento attaccato coi gas a Monte San Michele, dopo aver visto le Stosstruppen austriache, le truppe d'assalto, finire a colpi di mazza ferrata i poveri fanti agonizzanti per il cloro, e riconquistato rabbiosamente tutte le posizioni perse, facendo guadagnare a quel reggimento la medaglia d'oro al valore e a sé stesso la promozione al grado superiore di Maggiore Generale per meriti di guerra!
Lo stesso che alla fine del 1916 al comando della Pisa si era guadagnato due medaglie d'argento e la Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia, oltre che l'incarico di grado superiore, e che al comando prima della 31° divisione e poi dell'intero IV° C.A. era riuscito comunque dal Carso in soli cinque giorni a portare tutte insieme le sue truppe, inseguite dal nemico straripato a Caporetto, attraverso la Valle del Natisone fino alla salvezza sulla linea del Tagliamento!
E ancora, era sempre lui che solo quattro mesi prima proprio al comando dell'VIII° C.A. posto a difesa del Montello e dei Ponti della Priula aveva prima fortificato, poi tenuto ed infine ricacciato indietro gli austro-ungarici nel corso della Battaglia del Solstizio, dopo nove giorni di durissimo combattimento, tanto da meritarsi la promozione anche a Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia!
Come mai solo le sue divisioni al contrario delle altre non riuscivano a passare il Piave???

Considerato che proprio in quel preciso momento gli arditi erano assediati a Sernaglia dal nemico tornato in forze al contrattacco, e insieme a loro combatteva disperatamente persino la brigata Pisa, appena sbarcata, c'era il fortissimo rischio che potessero essere tutti tagliati fuori e annientati, prima che anche le altre forze già sbarcate potessero consolidare le loro teste di ponte.
Già il 3° gruppo d'assalto del colonnello Bertolotti, trovatosi totalmente scoperto sulla sua sinistra, era riuscito a sventare per un pelo un tentativo di aggiramento nemico, grazie soprattutto al sapiente utilizzo delle sue batterie di artiglieria da montagna, ma considerando che già era stato distrutto il LXXII° reparto d'assalto (che sarebbe stato poi decorato con la medaglia d'argento al valore, così come un'altra medaglia d'argento, purtroppo alla memoria, sarebbe stata data allo sfortunato capitano Marchand), la situazione poteva precipitare da un momento all'altro se nel frattempo le cose non fossero migliorate sul campo di battaglia ma soprattutto, a questo punto, anche per il tempo.
Eppure, nonostante il momento estremamente difficile proprio in queste ore, per dare un segno tangibile di vicinanza ai suoi uomini, anche il Tenente Generale Giuseppe Vaccari passava il Piave pur sotto il continuo fuoco delle artiglierie e delle maledette Schwarzlose nemiche, fissando il suo nuovo Comando a Mulino Manente.
"Ali alle ali, qualunque crisi deve risolversi sull'altra sponda!", avrebbe detto.

Era fondamentale che la piena cessasse: le previsioni andavano in questo senso, ma ancora nulla faceva presagire che effettivamente le cose sarebbero andate proprio così.
A quel punto però Caviglia ebbe una nuova intuizione.
Nel frattempo infatti Lord Cavan sin dalle 12,30 del 27 ottobre aveva fatto avanzare da Salettuol attraverso la testa di ponte delle Grave di Papadopoli, protetti da tutte le batterie italiane e britanniche della sua X° armata, entrambi i suoi corpi, il XIV° britannico di Babington e l'XI° italiano di Paolini.
In tal modo non solo l'intera 7° divisione inglese di Shoubridge aveva potuto dirigersi decisamente verso Borgo Malanotte, ma persino la brigata Foggia della 37° divisione di Castagnola e la 23° bersaglieri del Tenente Generale Gustavo Fara (VI° brigata del Brigadiere Generale Giovanni Deo e VII° del parigrado Alessandro Birzio Biroli), pur se attardati dal terreno paludoso, avevano preso Roncadelle e Stabiuzzo e catturato migliaia di prigionieri e una quarantina di cannoni nemici!
Così, nell'euforia di quel successo Caviglia si accordò col comandante inglese per poter utilizzare anche i suoi ponti, rimasti tutti clamorosamente intatti, e ricevutone l'assenso fece immediatamente passare attraverso le Grave di Papadopoli l'intero XVIII° C.A. di Luigi Basso, composto dalla 1° divisione di Pio Ivrea (brigate Umbria del Maggiore Generale Carlo Mercalli ed Emilia del parigrado Emanuele Del Prà), dalla 10° di Francesco Gagliani (Toscana di Gioachino Nastasi e I° bersaglieri di Giuseppe Cassola) e dalla 56° di Alessandro Vigliani (Como di Paolo Tommasini e Ravenna di Vittorio Balbo Bertone di Sambuy), col compito specifico di dirigersi senza indugio verso nord, in direzione di Santa Lucia di Piave e Conegliano, settori presidiati dal XXIV° C.A. nemico, per aprire la strada al fremente VIII° C.A. di Gandolfo, ancora inchiodato sulla riva destra.
Prima ancora, però, parte di queste truppe appena traghettate dovevano avanzare sulla riva sinistra fino a Nervesa ed ai Ponti della Priula per liberarne i punti di accesso dal nemico e consentire così alle prime luci dell'alba di far passare dall'altra parte anche alla 2° divisione d'assalto di De Marchi e le fanterie di Gandolfo: la 33° divisione di Carlo Sanna (brigate Sassari del Maggiore Generale Francesco Corso e Bisagno  del Brigadiere Generale Giuseppe Barbieri), la 48° di Michele Salazar (Tevere del Brigadiere Generale Augusto Ziliano e L'Aquila del colonnello brigadiere Pietro Belloni) e la 58° di Roberto Brussi (Piacenza del colonnello brigadiere Silvio Egidi e Lucca  del Brigadiere Generale Pietro Valerio-Papa).

Rassicurato su questo punto, Caviglia non poté comunque non accogliere con un sospiro di sollievo la fine dell'ondata della piena, che come previsto sin dalle 16,30 di quello stesso pomeriggio cominciò a scemare, per terminare del tutto di lì a poche ore.
Questo avrebbe dato comunque modo di rilanciare ancora l'offensiva, consentendo di far passare all'alba del 29 dai settori originariamente previsti anche le restanti truppe del XXII° C.A. di Vaccari, la brigata Porto Maurizio della 60° (Maggiore Generale Cesare Salomone Luzzatto) e persino da ultime quelle della riserva d'armata, la Casale (Brigadiere Generale Giustino Fedele) e la V° bersaglieri (del parigrado Ambrogio Clerici) della 12° di Sigismondo Monesi.

21. IL PROCLAMA DEL GENERALE CAVIGLIA (28 OTTOBRE)

Alla sera del 28 ottobre, con ben 29 battaglioni già sull'altra riva del fiume destinati a diventare in sole 24 ore 15 divisioni, con le teste di ponte ormai perfettamente saldate tra loro, a formare un fronte unico compatto, potentemente armato e motivatissimo che ogni ora che passava si contrapponeva con sempre maggior vigore ad un nemico ormai chiaramente in difficoltà, Caviglia emanava un famoso Proclama:

"Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest'ora le sorti della Patria. 
La storia d'Italia futura, forse per un secolo, dipenderà dalla fermezza e dal fervore di cui saranno capaci, nelle prossime ventiquattro ore, gli animi nostri. 
È necessario che stanotte tutti i ponti siano nuovamente gettati. 
È necessario che il maggior numero possibile di unità passino sulla sponda sinistra del fiume. 
È necessario, infine, che le truppe che si trovano oltre Piave attacchino violentemente, tendano con ogni ardore al raggiungimento degli obiettivi prefissi. 
È l'Italia che l'ordina, noi dobbiamo obbedire". 

22. LA GIUBILAZIONE DEL GENERALE GANDOLFO

Asclepia Gandolfo
(Porto Maurizio, IM, 22/7/1864-
Roma, 31/8/1925)
Nel momento in cui si decideva letteralmente la Storia d'Italia, Enrico Caviglia prendeva una decisione molto difficile.
Indispettito e deluso per l'atteggiamento apparentemente rinunciatario e poco convinto delle divisioni dell'VIII° C.A. di Asclepia Gandolfo nell'attraversamento del Piave, decise nel pomeriggio di sostituirlo col Tenente Generale Francesco Saverio Grazioli, rimasto privo di un comando dopo l'assegnazione delle ex sue due divisioni d'assalto ai due corpi d'armata di Vaccari e Di Giorgio.
L'offesissimo Gandolfo non sarebbe stato zitto e il 3 novembre avrebbe inviato questa missiva proprio a Enrico Caviglia:

"Carissimo Caviglia
Per quanto abbia tentato di persuadermi che il trattamento che mi è stato fatto sia stato benevolo non ci sono riuscito.
L'affronto di togliermi il comando mentre le mie truppe stavano iniziando il passaggio del Piave, disonorandomi in faccia ai miei soldati ed a tutto il Paese, è così atroce che non riesco a spiegarne le cause. In tutta la mia azione non vi è ragione di biasimo, anzi non vi è neppure pretesto di biasimo e lo dimostro nella lettera che ho scritto a Badoglio e della quale ti unisco copia.
Devo quindi ritenere che si sia a mio riguardo (adottata) una decisione precipitata in un momento in cui il Comando Supremo fremeva di sapere tutte le truppe sulla sinistra del Piave.
Ora che quel brutto momento è da tempo trascorso e che la fortuna ha arriso alle nostre armi ritengo necessario che si ritorni su quanto è stato fatto, senza che si siano richieste le mie discolpe.
Mi affido alla tua anima retta ed al tuo cuore di amico.
Un soldato che ha fatto tutto ciò che ho fatto io per il mio Paese durante tutta la guerra e nei giorni che precedettero il forzamento del Piave non deve essere disonorato senza ragione.
Tanti rispettosi e cordiali saluti, tuo aff.mo subordinato

A.Gandolfo"

Lettera in dd. 3 novembre 1918
Gandolfo-Caviglia
(MRM, Archivio Storia Contemporanea, Cartella 156)

Proprio durante la battaglia Caviglia su Gandolfo avrebbe scritto questo:

"È da notare che il 28 alla 14 ebbi con lui un colloquio. Mi pareva stanco e glielo dissi, e gli dissi che abbisognava di riposo. Egli accettò e mi sorprese. Speravo in una reazione. Invece avendo accettato dimostrò che non aveva fiducia nella riuscita dell'azione".

E ancora, in un successivo "rapporto personale":

"Durante la battaglia di Vittorio Veneto (...) tutte le belle qualità di decisione, di risolutezza, di tenacia che gli sono attribuite dai più recenti rapporti personali (...) non corrisposero alla prova, per cui ho attribuito le indecisioni, le titubanze nella sua azione di Comando ad un affievolimento fisico causato dall'eccessivo lavoro al quale si è assoggettato durante la rapida preparazione del passaggio del Piave.
Il 28 ottobre, quando la situazione era difficile, quando si doveva decidere un secolo di storia di Italia, ed era necessario che tutti fossero all'altezza della situazione, S.E. il Generale Gandolfo non mi dava piena sicurezza di saper imprimere alla Sua azione l'energico e decisivo impulso. Il mio dovere era chiaro e netto come il mio scopo; se avessi tralasciato qualsiasi mezzo per raggiungere il mio scopo, avrei mancato il mio dovere. Perciò ho proposto che fosse sostituito nel Comando dell'VIII corpo e gli fosse data una licenza per riposare".

E per concludere il cerchio, Caviglia proprio sul retro della missiva inviatagli da Gandolfo avrebbe scritto:

"Questa lettera è stata scritta dopo il successo.
Il 28/10 quando la situazione era difficile ed incerta, ed io l'ho fatto sostituire sono rimasto sorpreso dalla facilità con cui egli ha accettato la mia soluzione.
Può darsi però che egli non abbia reagito per deferenza verso di me, che egli ha sempre avuto, e non già perché toccasse a lui di decidere".


La situazione per Gandolfo sarebbe comunque finita al meglio: la sua dismissione, secondo la biografia Treccani edita negli anni del Fascismo, sarebbe stata motivata con ragioni di salute, cioè il riacutizzarsi di un problema alla gola causato dai postumi dell'intossicazione da cloro subita nell'attacco di due anni e quattro mesi prima, tanto che l'uomo, rimessosi dopo pochi giorni, si sarebbe visto affidare proprio da Badoglio il XXVI° C.A. "con il quale inseguì il nemico, ormai in rotta [e ti credo, dico io, l'armistizio era scattato il 4!], sino a Fiume dove giunse il 17 novembre 1918".
(V. http://www.treccani.it/enciclopedia/asclepia-gandolfo_(Dizionario-Biografico)/)

Succede, in situazioni come queste, in cui ci si gioca la faccia, una carriera, se non proprio la vita, che si vada in cerca della pezza d'appoggio scritta, quella che ti salva l'Onore, per il presente e anche per i posteri (se ne facevano di nomi, all'epoca, e più d'uno), inoltre l'autodifesa di Gandolfo aveva evidentemente fatto colpo su Badoglio (uno che ne aveva già viste di tutti i colori, senza immaginare che il Futuro gliene avrebbe fatte vedere anche di peggiori), visto che lui stesso l'aveva reimmesso al comando di un corpo d'armata operativo...
Si sa, queste vicende a certi livelli si trattano da uomini di mondo, senza fare chiasso, civilmente, una volta può andare bene a me e un'altra a te, e poi alla fin fine le cose erano andate a finire bene, la guerra era stata vinta, il nemico era battuto e in fuga, quindi perché fare delle storie, da una parte e dall'altra?
La soluzione della licenza per i motivi di salute era perfetta, consentiva di salvare capra e cavoli, non umiliava Gandolfo che anzi, come abbiamo visto, sarebbe subito ritornato in auge, e al contempo favoriva l'intento di Caviglia: se poi l'autorevolissima ed ufficialissima Treccani l'avallava in toto, chi avrebbe potuto dire più nulla?

Ma forse a tutto questo non sarebbe stato estraneo in realtà l'essersi accostato Gandolfo a partire dal 1920 al nascente fascismo, dopo essere stato obbligato a mettersi "a disposizione" a seguito del suo rifiuto nel settembre 1919 di obbedire all'ordine di sparare contro i legionari di D'Annunzio diretti a Fiume, per poi transitare "in ausiliaria speciale" a domanda dopo l'avvio di un'indagine a suo carico su quei fatti.
Entrato a tempo pieno nella macchina del partito, dopo aver contribuito a scrivere presso proprio la sua residenza di Oneglia insieme con Italo Balbo, Dino Perrone Compagni e Ulisse Igliori il primo regolamento delle camicie nere, divenuto membro del Gran Consiglio del Fascismo, sarebbe stato prima nominato il 1° gennaio 1923 prefetto di Cagliari (dove sin da subito si sarebbe messo in feroce contrasto con un altro eroe della Grande Guerra, l'ex capitano Emilio Lussu della Sassari, feroce antifascista social-repubblicano, durissimo esponente del rivale partito sardo d'azione), per poi divenire in seguito comandante generale della neonata Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale (M.V.S.N.) al posto di Emilio De Bono (proprio lui!), destituito dopo il delitto Matteotti.
Tutto chiaro, allora?

Eppure, guarda tu il caso, sarebbe stato proprio un riacutizzarsi improvviso dei postumi di guerra a portare l'ora Console Generale della Milizia Asclepia Gandolfo alla morte il 31 agosto 1925, appena 61enne.
Ma allora la storia dei problemi di salute poteva essere vera?
Non lo sapremo mai, probabilmente.
È il bello e forse anche il brutto della Storia, quello di dover spesso rimettere in discussione ciò che si dava per scontato fino a poco prima.
Perché la storia non è altro che un continuo revisionismo, signori miei.


(Ringrazio l'amico Belisario Porfirio, che ha postato queste testimonianze in una specifica discussione nel gruppo "La Grande Guerra 1915-1918" su Facebook, di cui ringrazio gli amministratori e tutti i membri per le importantissime annotazioni che vi si possono trovare, alcune delle quali mi sono state utilissime per questo e altri capitoli del mio lavoro).

23. VIENE LANCIATA IN AVANTI  LA CAVALLERIA (29 OTTOBRE)


La cavalleria passa il Piave


Ma torniamo ora al nostro racconto...
Mentre dopo che un nuovo attacco iniziato alle 09,00 di mattina del 29 ottobre sui loro soliti obiettivi sul Grappa da parte del IX° C.A. di De Bono e del VI° di Lombardi era stato facilmente rintuzzato dopo i primi promettenti risultati iniziali conseguiti dagli arditi, tanto per cambiare, costretti infine a ripiegare con parecchie perdite (anche il maggiore Messe veniva ferito), tanto da costringere il Comando Supremo a ordinare alle 18,00, piuttosto tardivamente, una nuova sospensione, invece sul Piave anche le restanti truppe del XXVII° C.A. di Antonino Di Giorgio passavano sull'altra riva.
A farlo a Fontana del Buoro erano il 93° ed il resto del 94° Messina della 66° divisione di Cicconetti, su una traballante e precarissima passerella alle Grave di Ciano presso Crocetta del Montello le due brigate Reggio (Brigadiere Generale Attilio Zincone) e Campania (del parigrado Vincenzo Carbone) della 51° divisione di Emanuele Pugliese e la Livorno (Francesco Gualtieri) della 2° di Vittorio Emanuele Pittaluga.
A quel punto tutte le divisioni dell'VIII° armata erano al di là della riva sinistra: l'avanzata italiana diventava a quel punto letteralmente infermabile e le truppe italiane dilagavano a raggiera sull'intero settore.


Soldati italiani sul Montello


L'intera 60° divisione di Pietro Mozzoni (Piemonte e Porto Maurizio) si lanciava su Pieve di Soligo in soccorso della Pisa della 57° di Luigi Cicconetti, delle fiamme cremisi del LXXII° e delle fiamme nere del I° raggruppamento d'assalto che da oltre 24 ore stavano valorosamente resistendo a truppe assai superiori di numero e come potenza di fuoco.
L'impatto dei nuovi arrivati sulle stanche forze dell'11° divisione nemica era perentoriamente devastante: gli ucraini si volgevano indietro e scappavano scompostamente dietro le retrovie, così le fanterie del XXII° C.A. di Vaccari conquistavano di slancio anche Soligo e Solighetto, per poi con una improvvisamente conversione verso destra puntare su Refrontolo, aprendo la strada a tutte le altre truppe seguenti da presso.
Per la saldezza d'animo e il carisma dimostrati in battaglia e per la tenuta sotto l'imponente fuoco nemico dei suoi reparti d'assalto, artiglieri e genieri fino al successo finale tra Falzè di Piave, Pieve di Soligo e Sernaglia il colonnello brigadiere Ernesto De Gasperi del I° raggruppamento d'assalto sarebbe stato decorato con la medaglia d'oro al valore.

Il nemico cominciava ormai a dare segni vistosi di stanchezza, ma continuava ancora a combattere.
Tuttavia, mentre sulla sinistra a una a una tutte le batterie nemiche del II° C.A. austro-ungarico sulle alture rivierasche ed in quelle immediatamente seguenti cominciavano a tacere, polverizzate dal sempre più preciso ed impetuoso fuoco di controbatteria italiano, bombardate o mitragliate dal cielo dai nostri aerei finalmente decollati in massa grazie al tempo più favorevole, oppure catturate tutte intere con tutti gli artiglieri dagli arditi, dai bersaglieri o dai fanti di Vaccari e Di Giorgio, lo stesso accadeva anche a destra, dove a farla da padrone stavolta erano le forze dell'VIII° C.A. ora agli ordini di Grazioli.
Finalmente quelle truppe facevano esattamente quello per cui Caviglia le aveva chiamate a intervenire: sfondavano l'intera linea nemica presidiata dal XXIV° C.A. austro-ungarico.
Mentre gli uomini della 2° divisione d'assalto di Ernesto De Marchi, appena attraversato il Ponte della Priula, attaccavano e liberavano immediatamente da ogni reparto nemico Susegana, aprendo il corridoio giusto dal quale fare dilagare le fanterie, le brigate Tevere e Aquila della 48° divisione di Michele Salazar si lanciavano in direzione di Santa Maria di Feletto, la Lucca della 58° di Roberto Brussi attaccava Manzana e tutte e quattro le brigate Sassari e Bisagno della 33° di Carlo Sanna e Como e Ravenna della 56° di Alessandro Vigliani puntavano risolutamente su Conegliano.

Le quattro brigate, con quelle della 33° in testa, venivano affrontate disperatamente dal nemico proprio davanti a Conegliano, tra i villaggi di Ramera, Sarano e Campolongo, a cavallo del fiume Monticano, nell'intento più che altro di rallentarne l'azione e consentire lo sgombero della cittadina da parte del resto delle truppe imperial-regie.
Al termine di un duro confronto, gli austro-ungarici erano costretti a ripiegare in disordine, lasciando in mano italiana migliaia di prigionieri e centinaia di cannoni, così a mezzanotte anche Conegliano cadeva in mano italiana, con l'entrata in paese della Sassari..
Per la loro azione entrambi i reggimenti 151° e 152° della Sassari sarebbero stati decorati per la seconda volta nella guerra con la medaglia d'oro al valore militare (caso unico!), mentre il colonnello comandante Francesco Corso avrebbe avuto la Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia.
I due 209° e 210° della Bisagno, entrati in città subito dopo, sarebbero stati a loro volta decorati con la medaglia d'argento.

Nonostante quegli indubbi successi, ottenuti tra l'altro con prepotente sicurezza, le semplici fanterie non potevano però mai essere così veloci nell'avanzata come pure era desiderio dei nostri Stati Maggiori.
Proprio per questo motivo Caviglia a suo tempo aveva avuto la decisiva intuizione di utilizzare come massa mobile d'urto in direzione della piatta pianura veneta tutti i 136 squadroni della cavalleria disponibili, posti tutti finalmente alle dipendenze di un unico centro di comando, il Comando Corpo di Cavalleria, fiancheggiati da tutte le squadriglie di autoblindomitragliatrici disponibili, oltre che dalle batterie di tutti i gruppi del reggimento artiglieria a cavallo del colonnello Giacomo Papi, le "Voloire", dai battaglioni di bersaglieri ciclisti e motomitraglieri e dai reparti d'assalto degli arditi.
A tutti questi reparti, protetti dall'alto dai caccia della nostra aeronautica e quella alleata, era affidato l'affondo finale: lanciarsi alla conquista di tutti i ponti sulla Livenza, sul Tagliamento e sull'Isonzo, con l'ordine di superare e tagliare fuori tutte le truppe nemiche incontrate a nord della ferrovia Conegliano-Codroipo e poi puntare su quello sconosciuto paesino, Vittorio, ultimo comune della provincia di Treviso, che già il II° C.A. di Boroevic stava abbandonando, dopo averlo completamente saccheggiato e ridotto in fiamme.
Oltre ai numerosi reparti indivisionati già presenti in zona, assegnati alle truppe dei singoli corpi d'armata in misura più o meno varia e suddivisi in colonne celeri di formazione che comprendevano, oltre ai cavalieri, anche bersaglieri ciclisti e altre truppe mobili, il Comando Supremo fece affluire anche due intere divisioni di cavalleria, quelle della sua riserva, la 1° Friuli del Maggior Generale Pietro Filippini e la 4° del parigrado Warimondo Barattieri di San Pietro.

IL PROBLEMA "GEOGRAFICO" DI ARMANDO DIAZ
Per il suo valore simbolico Vittorio avrebbe finito per dare a quella battaglia il nome con cui la conoscono tutti, eppure, in quel preciso momento, Armando Diaz nella sede del Comando Supremo di Abano, chinato col monocolo sulle carte topografiche, non aveva le idee chiare sulla sua ubicazione.
Sotto il nome di Vittorio erano stati unificati al momento dell'annessione nel 1866 del Veneto all'Italia due distinti borghi, Cereda (patria del famoso librettista Lorenzo da Ponte) e Serravalle, per cui niente di più facile che quella sotto gli occhi del Generalissimo non fosse esattamente la carta più aggiornata disponibile.
Fatto sta che, pur in una situazione di estrema tensione nervosa come quella che doveva esserci in quel momento, dovette riuscire estremamente difficile non ridere per i collaboratori al tavolo del folcloristico comandante napoletano, abituati com'erano stati fino a un anno prima a rapportarsi all'austero, laconico e rigoroso conte piemontese Luigi Cadorna, quando Diaz, spazientito per non riuscire a trovare sulla mappa quella cittadina, proruppe in dialetto in una clamorosa espressione che Indro Montanelli avrebbe poi tramandato alla Storia:

"...Ma addo' cazz' sta chist' Vittorio???"

Come se fosse un cristiano qualsiasi...

Truppe italiane a Vittorio Veneto
(Fonte: Storiaememoriadibologna.it)






24. CARLO I° VUOLE L'ARMISTIZIO IN FRETTA 

PRIME SPACCATURE TRA I GENERALI
Il comandante della VI° armata, Alois von Schomburg-Hartenstein, fino a tutto il 27 e parte del 28 ottobre nonostante i primi segni di insofferenza delle sue truppe ungheresi era rimasto ottimista, confidando nella compattezza delle altre: contava molto poi sulle sue tre divisioni di riserva per respingere gli arditi a Sernaglia e nel prossimo arrivo delle altre quattro promesse da Boroevic per battere gli inglesi, la 10° K.u.K. ceca di Josefstadt (Josefov) del Maggior Generale Friedrich Watterich von Watterichsburg, la 24° K.u.K. polacca di Przemysl del parigrado Adolf Urbarz e le fortissime due Landwehr Schutzen, la 26° del Feldmaresciallo Alois Podahjsky e la 43° del parigrado Karl von Stohr.
Al contrario proprio Boroevic era invece preoccupatissimo, vedendo il Gruppo Belluno di von Goglia dissanguato ormai dalle continue defezioni di ungheresi e slavi, oltre che finito sotto la pressione sia della XII° armata italo-francese di Graziani nel frattempo passata interamente anche lei sul Piave ed irrotta a Valdobbiadene che della stessa X° italo-inglese giunta a Cimadolmo, anche perché pienamente consapevole delle bruttissime notizie provenienti dal Trentino, dove mentre anche la febbre spagnola cominciava a mietere molte vittime ormai le defezioni non si contavano più, così come in gran parte della Imperial-Regia Marina asburgica ormeggiata tra Pola e Fiume, composta per lo più da equipaggi italiani e dalmati.
Il grande avversario degli italiani per tutto il corso della guerra aveva capito che a quel punto non c'era alcuna alternativa all'abbandono integrale del Veneto, per proteggere la via di fuga verso Vienna e la stessa sopravvivenza della Monarchia asburgica di cui era fedelissimo servitore, eppure cercava comunque di mantenere unite tutte le sue forze opponendosi per quanto poteva all'avanzata italiana, anche se le sue divisioni cominciavano ad essere squassate dalle diserzioni di interi reparti.

CHE ARMISTIZIO SIA!
Il primo a crollare, il 27 ottobre,  fu però proprio Carlo I°.
Dopo aver doverosamente informato l'Imperatore di Germania Guglielmo II° che entro 24 ore l'Austria-Ungheria avrebbe chiesto l'armistizio all'Italia, il giovane Sovrano, stavolta contro il parere di Arz von Straussenburg, inviò una lettera a Wilson, chiedendo un armistizio immediato e una pace separata, e consegnò al governo neutrale svedese una comunicazione ufficiale con la quale, riconoscendo il diritto all'indipendenza nazionale di Cecoslovacca e Jugoslavia, rompeva l'alleanza con la Germania e richiedeva anche la cessazione dei combattimenti su tutti i fronti.


Viktor Maria Willibald Weber 
Edler von Webenau
(Neuhaus, 13/11/1861-
Innsbruck, 6/5/1932)
Come logica conseguenza, si può dire, ordinava il ripiegamento generale di tutte le sue armate sui vecchi confini col Regno d'Italia, invitando al contempo Viktor Weber Edler von Webenau, da qualche giorno posto a capo della Commissione d'armistizio austro-ungarica insediatasi a Trento ed ora trasferitasi a Rovereto, ad intavolare sin da subito trattative armistiziali con gli italiani.
Pertanto, già la mattina del 29 un emissario di Weber, il capitano dello Stato Maggiore Camillo Luigi Maria Ruggera, ufficiale di etnia italiana, partito da Serravalle d'Adige, a due passi dalle prime linee italiane, con in mano una lettera autografata di Weber, si presentò con la bandiera bianca, accolto all'inizio con qualche raffica di mitragliatrice, al Comando italiano di Avio, sede della 26° divisione di Giuseppe Battistoni  del XXIX° C.A. di Vittorio De Albertis (I° armata di Guglielmo Pecori Giraldi), per offrire la resa immediata delle truppe imperial-regie.
Ma Carlo I° la faceva troppo facile.
Gli fu detto tanto per cominciare che un atto così importante non poteva non essere trattato da uno o più ufficiali superiori muniti di credenziali amplissime, non certo da un semplice capitano, per quanto dello Stato Maggiore.

La notizia si sparse in un baleno, creando un terribile contraccolpo sulla volontà combattiva degli austro-ungarici, che in un battibaleno si trasformò in una rotta disordinata.
Tutta la VI° armata, ormai anch'essa in preda alle defezioni e colpita dalle prime febbri di spagnola, sotto le continue incursioni aeree italiane e flagellata dalle artiglierie cominciò a ripiegare disordinatamente con la cavalleria e i reparti di arditi, bersaglieri ciclisti ed autoblindo che la tallonavano alle calcagna, tentando di frapporre una disperata linea di difesa sul triangolo Aviano-Vivaro-Arzene nel settore del torrente Meduna contro l'VIII° armata di Caviglia.
Anche il Gruppo Belluno di von Goglia, fino a quel momento impavido protagonista di quella lotta contro le soverchianti truppe di Gaetano Giardino, si vedeva costretto dalla defezione di quasi tutte le sue truppe di seconda e terza linea a questo punto ad abbandonare a mezzanotte del 30 il Grappa e ad unirsi con tutti i suoi 70.000 uomini del I° e del XXVI° C.A. alla ritirata generale, lasciando sul posto pure tutte le artiglierie che fino a quel momento avevano ben contrastato l'assalto italiano.

LA "COMPAGNIA CAMALEONTE"
Al riguardo, è interessante questa testimonianza scritta rilasciata nientepopodimeno che dallo stesso Feldmaresciallo Ferdinand von Goglia:

"(...) Una voce della truppa riferiva convintamente che il 29 e 30 ottobre alcune nostre postazioni sul Monte Asolone erano state invase senza sparare un colpo da soldati "spuntati dalla terra". Ovviamente non detti peso a questa fantasia, dato che non mi risultava niente del genere, e tuttavia la ritenni quanto mai significativa della spossatezza morale del Gruppo Belluno"
(tratto da Objektiven Beobachtungen uber den Ruckzug im Oktober 1918, Kriegsarchiv, 1921, in Die letze Schlacht des Reichs, Grosz Ltd, Wien, 2014, cit. in 
https://enriconeami.net/2015/12/27/wu-ming-linvisibile-ovunque-e-la-guerra-mimetica/ ).

Esploratori del 64° Cagliari con l'elmetto "Adrian"
dotato di visore sperimentale "Dunand"
Che l'incredulo e sconcertato generale si riferisse, senza saperne nulla, alla fantomatica, è il caso di dirlo, "Compagnia Camaleonte" degli arditi, dotata di strumenti fuori ordinanza e delle prime uniformi mimetiche in senso moderno, istituita nel gennaio 1918 in seno al 1° reggimento genio zappatori quale reparto sperimentale di camouflage e guerra mimetica del Regio Esercito su impulso del pittore surrealista Francesco Paolo Bonamore e di Achille Piersanti ed aggregata nel successivo mese di marzo alla IV° armata del Grappa?


GLI ITALIANI E I LORO ALLEATI SI GETTANO SULLA PREDA
Com'è, come non è, col ripiegamento del Gruppo Belluno la XII° armata di Graziani poteva agevolmente aggirare da est  il Grappa e puntare su Feltre a cavallo del corso dell'Alto Piave, sconfiggendo le due fin allora irriducibili divisioni del XV° C.A. nemico, la 50° di Karl Gerabek e la 20° Honved di Stephan Stadler, costringendole alla fuga verso Follina.
Così, mentre il C.A. francese arrivava sulla riva sinistra a Segusino con la 23° divisione di Ernest Bonfaitil I° C.A. italiano di Donato Etna giungeva invece su quella destra con la 70° di Raimondo, a Quero con la brigata Trapani (Maggiore Generale Adolfo Bava) e ad Alano di Piave con la Re (Brigadiere Generale Giusto Macario), e con la 24° di Luigi Tiscornia, nel villaggio di Faveri con la Gaeta (Maggior Generale Augusto Borra) ed in quello di Campo la Taranto (Brigadiere Generale Giuseppe Saccomani).
Contemporaneamente, anche la 52° alpina di Pietro Ronchi occupava anche il Monte Cesen (Quota 1.570), nelle Prealpi Bellunesi, scalandone entrambi i versanti coi suoi due raggruppamenti, il I° del Brigadiere Generale Gerolamo Pezzana (col 1° e 9° gruppo alpino) ed il II° del parigrado Arnaldo Garelli (col 5° e 10° gruppo alpino).
Per queste azioni sarebbero stati decorati con la medaglia d'argento al valore i reggimenti 1° e 2° della brigata Re e con quella di bronzo il 149° e 150° della Trapani, e sia queste unità che il I° raggruppamento alpino, coi battaglioni Stelvio, Tirano, Morbegno del 5° reggimento (1° gruppo) e Bassano, Verona, Monte Baldo del 6° (9° gruppo), unitamente alla 23° divisione francese ed alla 742° compagnia mitragliatrici, sarebbero stati espressamente citati nel bollettino n. 1.272 del 7 novembre.

Alle 06,00 di mattina del 30 ottobre si muoveva a questo punto anche la III° armata del Piave comandata dal Tenente Generale Emanuele Filiberto Duca di Savoia-Aosta, che attraversava per la prima volta il Basso Piave a Salgareda, Romanziol, San Donà di Piave, Chiesanuova e Revedoli e investiva in pieno il settore difeso dalla V° armata austro-ungarica di Wenzel von Wurm, fino a quel momento relativamente tranquillo.
Quello stesso giorno, però, si sarebbe verificato l'evento più significativo di tutti.
I tre corpi d'armata italiani impegnati nello sfondamento, da sinistra il XXII° di Vaccari e il XXVII° di Di Giorgio e da destra l'VIII° di Grazioli, stavano ormai convergendo, da ovest i primi, da sud l'altro, verso il tanto agognato obiettivo.
Vittorio, sede del Gruppo Armate dell'Isonzo di Boroevic.

25. LA CAVALLERIA LIBERA VITTORIO (30 OTTOBRE)

Due distinte colonne celeri, entrambe del 9° Lancieri di Firenze, quella del I° gruppo al comando dello stesso comandante del reggimento, il colonnello Paolo Piella, aggregata al XXII° C.A., e quella del II° gruppo agli ordini del tenente colonnello Arrivabene aggregata all'VIII° C.A. di Grazioli, stavano entrambe raggiungendo la cittadina contesa, all'insaputa l'una dell'altra, rispettivamente da ovest e da sud.

La prima a partire, sin dalle 21,10 del 29 ottobre, su ordine del Maggior Generale Roberto Brussi, comandante della 58° divisione (VIII° C.A.), era stata quella del II° gruppo, basato in quel momento a Susegana ed affidato al tenente colonnello Arrivabene, composto da due squadroni di cavalleria del Firenze e dalla compagnia del tenente Tosti del III° battaglione ciclisti del 3° bersaglieri.
Partita verso le 22,15 di quella sera col III° ciclisti all'avanguardia, si era diretta protetta dall'oscurità lungo la direttrice  San Vendemiano-Menaré-San Giacomo di Veglia, e dopo essere stata rallentata a causa della strada intasata da una brigata di fanteria era arrivata a San Giacomo intorno alle 04,15 del 30 ottobre, senza quasi incontrare opposizione nemica: Vittorio era circa due chilometri più a sud, ma le avanguardie avevano sconsigliato di entrarvi, comunicando alle 04,45 che l'obiettivo era presidiato da "notevoli forze avversarie e mitragliatrici".
Arrivabene aveva così inviato i ciclisti di Tosti a occupare Serravalle, per impedire vie di fuga al nemico verso settentrione, e i due squadroni di cavalleria presso il quadrivio a sud, con l'intenzione di lanciarli alla carica alle 06,30 di mattina su tutte le strade cittadine attraverso gli sbocchi della circonvallazione per cogliere di sorpresa e disarticolare tutte le truppe nemiche ivi presenti.


I ciclisti a Vittorio Veneto (Fonte: Storiaememoriadibologna.it)

Contemporaneamente però era arrivato in zona proveniente da Refrontolo anche il I° gruppo di Piella: a differenza del precedente era un gruppo misto, cioè di formazione, composto da un totale di 421 uomini, tutti tratti da diversi squadroni di cavalleria dei reggimenti Firenze, Caserta e Piacenza integrati da alcuni plotoni di bersaglieri ciclisti, per un totale di 29 ufficiali (compreso Piella), 294 cavalieri e 98 bersaglieri.
Dopo aver attraversato il Piave a tarda sera del 29 sul Ponte "B" davanti alla strada n. 12 del Montello, la Colonna Piella si era mossa da Fontigo con l'ordine di Vaccari di "portare scompiglio nelle retroguardie nemiche, catturando il maggior numero possibile di prigionieri", e passata Sernaglia era giunta a Pieve di Soligo alle 0,30 della notte del 30, rallentata anch'essa dai numerosi ingombri e interruzioni stradali: qui le era stato ordinato di andare a disturbare le truppe nemiche del II° C.A. austriaco che stavano sgomberando Vittorio, ponendosi di copertura alle fanterie di Vaccari in avanzamento.
Superato il Ponte di Maset poco oltre Refrontolo, Piella distaccò due pattuglie in avanscoperta: quella del tenente Airoldi del 17° Cavalleggeri di Caserta doveva puntare in direzione nord-est sulla tratta Tarzo-Ravine-Serravalle, proprio la stessa che veniva nel frattempo impegnata dai bersaglieri ciclisti del II° gruppo, mentre una seconda agli ordini del tenente Pittarelli, con il tenente di complemento Giacomo De Carlo del 9° Lancieri di Firenze quale guida, doveva invece raggiungere direttamente l'abitato da ovest lungo la direttrice Villa De Bernardi-Cozzuolo-Vittorio.


Artiglieria a Ceneda




Dopo che la pattuglia Airoldi aveva già riferito a Piella di aver osservato l'affannoso ripiegamento nemico protetto dalle mitragliatrici sulla strada da Fornariga a Vittorio, essa si imbatté a Serravalle nei ciclisti di Tosti, nel frattempo già duramente impegnati dal nemico, in cerca di una disperata via di fuga verso nord.
Proprio mentre anche la pattuglia Pittarelli-De Carlo, dopo aver superato e catturato alcuni nidi di mitragliatrice, entrava finalmente da ovest a Ceneda, ormai libera da truppe nemiche, accolta festosamente dalla popolazione locale che per la prima volta da tanto tempo tornava a vedere truppe italiane, l'intera Colonna Arrivabene si trovava invece assolutamente bloccata davanti a Serravalle, dove decine di mitragliatrici nemiche nascoste al riparo degli anfratti e delle caverne tra le rocce che circondavano quel borgo stavano opponendo una tenacissima resistenza, favorita anche dal fatto che sempre la natura del terreno impediva il dispiegamento della cavalleria ed ancor di più dei bersaglieri ciclisti.
Con le prime fanterie ancora almeno a quattro ore di distanza il tenente colonnello Arrivabene era così costretto a chiedere al Comando l'impiego della 1° compagnia motomitraglieri del tenente Bertone (11° bersaglieri), una speciale unità di motocarrozzette (sidecar) armate di mitragliatrice, e successivamente, perdurando l'ostinata opposizione nemica, anche di una sezione d'artiglieria a cavallo, che sin dalle 14,00 del pomeriggio cominciava a battere con sistematica regolarità i nidi nemici nascosti tra i contrafforti rocciosi.
Mentre a Ceneda la Colonna Piella completava l'occupazione del borgo, procedendo alla cattura degli ultimi difensori rimasti, a Serravalle invece il duro scambio a fuoco proseguiva incerto ancora a lungo, con diverse perdite da ambo le parti, tanto che a metà pomeriggio vi prendevano parte persino dei civili armati.
Terminava solo verso le 17,00 del pomeriggio quando gli arditi del 6° gruppo d'assalto del colonnello Carlo Trivulzio (II° raggruppamento di De Marchi), tra cui le poche fiamme cremisi superstiti dell'indomabile LXXII° reparto d'assalto, conquistavano una ad una le posizioni nemiche, con la cattura di centinaia di uomini.

Poco più tardi il Maggior Generale Roberto Brussi, comandante della 58° divisione, entrava in città e vi fissava il suo Comando.
Vittorio era ormai definitivamente liberata, al prezzo di 3 morti e 8 feriti per la Colonna Piella, e di 2 morti e 6 feriti per la Colonna Arrivabene.
Per tale successo il 9° Lancieri di Firenze di Piella sarebbe stato decorato con la medaglia di bronzo al valore militare.

Con il II° C.A. nemico in fuga verso Polcenigo, sulla Livenza, le truppe di Caviglia potevano dispiegarsi ormai inesorabilmente anche nel settore del XXIV° C.A. nemico, costretto ora alla fuga oltre il fiume Monticano verso Brugnera, con le due brigate Como e Ravenna della 56° divisione di Vigliani (XVIII° C.A. di Luigi Basso) ormai lanciate al suo diretto inseguimento e la X° armata italo-inglese di Lord Cavan anch'essa ormai passata sulla sponda a nord di quel nervoso corso d'acqua e giunta ben oltre Cimetta di Codogné, sotto la protezione dal cielo della strabordante aeronautica italo-inglese, che aveva l'assoluto dominio dell'aria.
Il Veneto era ora completamente libero da truppe nemiche. Ora si passava a riprendere il Friuli.
Soprattutto, però, il fronte difeso dal Gruppo d'Armate dell'Isonzo di Svetozar Boroevic von Bojna era finalmente rotto.
Tra la VI° e la V° armata si era creata la tanto temuta (dagli austro-ungarici) frattura!



Vittorio Veneto liberata (Fonte. Fondo Marzocchi, Museo della battaglia)



PARTE SETTIMA

IL CROLLO AUSTRO-UNGARICO

26. GLI ITALIANI PRENDONO TEMPO SULL'OFFERTA DI RESA

Proseguendo nella loro azione verso nord-est in direzione del Bellunese due squadroni del 9° Lancieri di Firenze ed uno del 18° Cavalleggeri di Piacenza del colonnello Camillo Iannelli si spingevano ancora più a nord-est verso l'enorme Bosco di Cansiglio, ai piedi delle Prealpi, il secondo d'Italia per estensione dopo quello della Sila calabrese, e di fatto avviavano in tal modo anche la dissoluzione del Gruppo d'Armate del Tirolo.

Mentre sotto la spinta italiana interi reparti territoriali cominciavano a sbandarsi e ammutinarsi, preferendo arrendersi armi e bagagli al nemico o, più spesso, ripiegare indietro verso le loro Patrie di sangue, quelle che una volta formavano l'ormai morituro e quasi ex Impero, il General der Infanterie Viktor Weber in persona, il colonnello Karl Schneller ed il tenente colonnello Viktor von Seiller alle 17,00 del 30 si recavano così da Rovereto al  Comando italiano di Avio con la documentazione richiesta dagli Alti Comandi italiani al capitano Ruggera per trattare la resa.
Gli italiani li tennero però ancora un po' a bagnomaria.
Diaz si prese tempo prima di decidere di inviare Badoglio quale suo rappresentante al tavolo dell'armistizio, si esaminarono bene bene bene le credenziali di accredito dei plenipotenziari del nemico, si scelse con calma la sede del negoziato, da gentiluomini si fecero un po' di giusti onori di casa ai rappresentanti della Potenza sconfitta...
E nel frattempo passò un altro giorno.

L'UTI POSSIDETIS JURIS
La verità è che gli italiani non avevano alcuna fretta di concludere l'armistizio, visto che le sue condizioni avrebbero sempre avuto un carattere provvisorio e condizionato alla ratifica al momento della stipula dei trattati definitivi.
Era quindi loro intenzione quella di ritardare al massimo tutta quella "manfrina", per aver tempo di conseguire una clamorosa vittoria campale, possibilmente definitiva e in anticipo rispetto a quella che presumibilmente sarebbe arrisa alle truppe alleate sul fronte occidentale, al fine di conquistare quanto più territorio possibile da far poi pesare sul prossimo tavolo della Pace di fronte alle altre Potenze vincitrici, per volgere al massimo a nostro favore (e non farcelo invece subire a nostro danno) l'applicazione di un antico principio giuridico del diritto internazionale bellico, l'Uti possidetis juris, quello efficacemente descritto da un brocardo latino presente nei Commentarii di Gaio:


"Uti nunc possidetis, quominus ita possideatis, vim fieri veto" (Gaio, Institutiones, IV)

Tradotto in italiano significa letteralmente "Dispongo affinché non si faccia violenza per impedirvi di possedere così come ora possedete" ed altro non era che la formula giuridica dell'interdetto emesso dal Praetor romano a favore del possessore attuale di un bene immobile in caso di molestie o turbative a suo danno effettivamente già verificatesi o di cui si temeva la messa in atto da qualcun altro.

Trasposto in ambito internazionale, di cui costituiva (almeno allora, in un mondo senza O.N.U., senza diritti di autodeterminazione dei popoli né crimini internazionali di guerra, tutto affidato ai rapporti di forza tra i singoli Stati), un architrave fondamentale, questo principio generale implica l'obbligo di rispettare da parte di un nuovo soggetto di diritto internazionale le frontiere stabilite dal predecessore (http://www.enciclopedia-juridica.biz14.com/it/d/uti-possidetis/uti-possidetis.htm) e quindi per estensione serve a dare legittimità e copertura giuridica anche alle occupazioni militari, in particolare dei territori di confine tra gli Stati in guerra tra di loro, in cui in genere convivono etnie diverse per lingua, religione e cultura e pertanto sono più facili i ribaltamenti di titolarità tra soggetti egualmente provvisti di titoli validi, se non diversamente stabilito dai Trattati.
Per gli italiani, in poche parole, tutto il territorio che si fosse preso dal momento della stipulazione dell'armistizio a quello dell'effettivo cessate il fuoco doveva rimanere nostro o essere utilizzato come oggetto di scambio per altre concessioni al momento delle trattative per la firma dei Trattati di Pace veri e propri.
In quel momento eravamo i più forti, e dovevamo approfittarne al massimo.

C'è un detto napoletano che nella sua semplicità popolare dice la stessa, identica cosa: 


"Chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato a dato, scurdammoce o' passato..."


Credo che non occorra in questo caso una traduzione.

Poiché nel frattempo alcuni soggetti rispetto all'inizio della guerra si sarebbero letteralmente volatilizzati (la Russia zarista, l'Impero Austro-ungarico, l'Impero Ottomano), coi relativi sommovimenti popolari, rivoluzionari ed etnico-geografici, altri vi sarebbero subentrati (i nuovi Stati derivanti dalle dissoluzioni degli Imperi di Vienna e Costantinopoli), altri ancora sarebbero entrati a guerra in corso (in particolare il più forte di tutti, gli Stati Uniti d'America, con la fregola di Wilson di mandare in soffitta tutti gli accordi stipulati in precedenza), noi, che bene o male avremmo finito prima il nostro impegno bellico, con davanti altri 7 giorni prima che venisse chiusa la pratica sul fronte occidentale e addirittura mesi prima dell'inizio delle Trattative di Pace vere e proprie, be', come dire, visto l'andazzo che sembrava prepararsi da lì a qualche mese per non farci fregare con l'Uti possidetis qualche libertà ce la saremmo presa...

Per intanto, cercammo di tirarla al massimo per le lunghe anche per l'armistizio, così alla fine le trattative poterono iniziare ufficialmente solo alle 10,00 dell'1 novembre a Villa Giusti, in località Mandria a 5 chilometri da Padova, un'antica residenza patrizia di proprietà del Conte Vettor Giusti del Giardino, di nobile famiglia veneta.
Tanto per essere chiari, il giorno prima era stata emanata dal Comando Supremo la Direttiva n. 14.619 che, premettendo che "il nemico accenna a ripiegare su tutto il fronte", chiamava VII°, I° e IV° armata ad attaccare su tutto il saliente del Trentino per bloccare le linee di ritirata al nemico e VIII°, X° e III° a sfondare nella pianura veneta in direzione del Tagliamento e dell'Isonzo.
Perché nel frattempo si continuava a sparare, a uccidere, a morire.

La prima pattuglia di cavalleria entra a San Martino al Tagliamento accolta festosamente dalla popolazione


27. TUTTO IL FRONTE AUSTRO-UNGARICO CROLLA (31 OTTOBRE)

Le truppe sul Grappa di Gaetano Giardino per tutto il giorno 30 si erano limitate ad un mero presidio delle loro posizioni, pur dopo aver notato i primi movimenti in ripiegamento delle divisioni austro-ungariche con sempre maggior stupore misto a gioia mescolata a diffidenza per il timore di un eventuale "trappolone" del nemico, ma quando la realtà dei fatti emerse ormai palese e da Abano arrivò il sospirato ordine d'attacco si prepararono immediatamente a venire avanti.
Così, pur anticipata a Cismon dalla VI° armata degli Altipiani di Luca Montuori, alle 08,45 del 31 ottobre la IV° armata del Grappa si scagliò su tutte le posizioni fino a quel momento strenuamente difese dal Gruppo Belluno: mentre il I° gruppo squadroni del 21° Cavalleggeri di Padova del colonnello Raffaele Salvati giungeva in cima al Grappa, il VI° C.A. di Lombardi e il IX° di De Bono occupavano finalmente i tanto contesi Asolone, Col della Berretta e Monte Prassolan, e lo stesso faceva il XXX° di Umberto Montanari che arrivava finalmente sui Solaroli e lo Spinoncia.
L'esausta brigata Aosta, ancora capace di lanciarsi all'inseguimento del nemico per Val Cinespa, il Monte Tas e Val Maora, arrivava all'imbrunire alla Conca di Schievenin, dove finalmente riceveva l'ordine di fermarsi ed alloggiare: entrambi i suoi reggimenti, il 5° (34 ufficiali e 1.005 uomini di truppa perduti) ed il 6° (16 ufficiali e 419 gregari perduti), sarebbero stati decorati con la medaglia d'oro al valore, mentre il suo comandante, il Brigadiere Generale Roberto Bencivenga, che si era visto assegnare l'onere di comandare tutte le truppe divisionali impegnate sul campo in quel settore, sarebbe stato decorato con l'Ordine Militare di Savoia.

Ma non era finita qui per Giardino, che voleva anticipare a tutti i costi i francesi a Feltre ed anche per questo aveva subito spedito in quella direzione il 21° Cavalleggeri di Piacenza.
Non furono loro ad arrivare per primi, però, perché a farlo fu invece l'VIII° raggruppamento (6° e 13° gruppo) del colonnello brigadiere Bartolo Gambi dell'80° divisione alpina di Lorenzo Barco, che li anticipò di un giorno entrando in città proveniente da Monte Fontana Secca alle 17,30 di quello stesso giorno con due battaglioni del 7° alpini (13° gruppo), il Pieve di Cadore, espressamente citato nel bollettino n. 1274 del 9 novembre, e subito dopo il Val Cismon, cui fece seguito il battaglione Aosta del 4° alpini (6° gruppo).
Jean Cesar Graziani, che sull'Alto Piave vedeva la 23° divisione francese di Bonfait tuttora ferma nel villaggio di Caorera e la 52° alpina di Pietro Ronchi a Busche e Lentiai, era stato battuto in quella corsa, ma per quello sforzo l'VIII° raggruppamento aveva comunque pagato un altissimo prezzo, con la perdita in quei pochi giorni di ben 88 ufficiali e 3.042 uomini di truppa, tra cui il sottotenente Franco Michelini Tocci del Pieve di Cadore, caduto sul Valderoa alla testa del suo plotone nei duri scontri del 27 ottobre, medaglia d'oro alla memoria.
Il colonnello Ottorino Ragni, comandante del 13° gruppo, sarebbe stato decorato con l'Ordine Militare di Savoia, mentre il battaglione alpino Aosta per i combattimenti sulle cime dei Solaroli sarebbe stato decorato con la medaglia d'oro al valor militare.

In pianura le cose andavano decisamente più spedite contro la VI° armata asburgica, perché l'VIII° di Caviglia e la X° britannica di Lord Cavan continuavano la loro inarrestabile avanzata penetrando in Friuli, precedute dalla 3° divisione cavalleria Lombardia del Tenente Generale Carlo Guicciardi Conte di Cervarolo che spingeva più  a nord coi suoi quattro reggimenti (l'8° Lancieri di Montebello, il 24° Cavalleggeri di Vicenza, il 3° Savoia Cavalleria e il 12° Cavalleggeri di Saluzzo) e più a sud dalla 1° Friuli del Maggior Generale Pietro Filippini (il 20° Cavalleggeri Roma, il 13° Cavalleggeri del Monferrato, il 4° Genova Cavalleria e il 5° Lancieri di Novara): il 12° Cavalleggeri di Saluzzo al comando del colonnello Enrico Sarlo travolgeva diverse batterie nemiche tra Istrago e Tauriano dirigendosi verso il Ponte di Pinzano e ottenendo per il suo stendardo la medaglia di bronzo al valore militare, mentre l'intera II° brigata cavalleria di Giorgio Emo di Capodilista, quella che un anno prima aveva salvato il ripiegamento post-Caporetto della III° armata immolandosi a Pozzuolo del Friuli, col 4° Genova Cavalleria del parigrado Luigi Celebrini di San Martino e il 5° Lancieri di Novara di Maurizio Marsengo, superata la Livenza sul Ponte di Fiaschetti, liberava anche Polcenigo, mettendo in fuga l'intero II° C.A. austro-ungarico.
Proprio il Novara,  proseguita la sua cavalcata verso nord, il 2 novembre avrebbe catturato a Stazione della Carnia il comando e gran parte della 34° divisione K.u.K. magiara-romena di Temesvar (Timisoara) del Maggior Generale Eugen Edler von Luxardo.

Anche la III° armata del Piave lanciata all'inseguimento della V° asburgica di von Wurm in direzione del Tagliamento, nonostante le fanterie fossero enormemente rallentate dal terreno paludoso, arrivava in breve tempo a Motta di Livenza con le sue due divisioni di cavalleria, la 2° Veneto del Tenente Generale Vittorio Litta Modignani (7° Lancieri di Milano, 10° Lancieri Vittorio Emanuele II°, 6° Lancieri di Aosta e 25° Lancieri di Mantova) e la 4° Piemonte del Maggior Generale Warimondo Barattieri di San Pietro (1° Nizza Cavalleria, 26° Lancieri di Vercelli, 19° Cavalleggeri Guide e 28° Cavalleggeri di Treviso): il 19° Cavalleggeri Guide del colonnello Guido Mori Ubaldini entrava per primo a Sacile, ma non si fermava troppo tempo, perché subito puntava su Pordenone e Cordenons, costringendo ad un nuovo tormentato ripiegamento il XXIV° C.A. nemico.

28. L'AFFONDAMENTO DELLA CORAZZATA S.M.S. VIRIBUS UNITIS (1 NOVEMBRE)

Alle 06,44 del mattino dell'1 novembre, con un ritardo di quattordici minuti rispetto a quanto programmato col timer, nel porto di Pola, già scosso dalla ribellione di ben 15.000 marinai italiani e dalmati avvenuta solo pochi giorni prima, saltava in aria la corazzata S.M.S. Viribus Unitis, gemella della perduta S.M.S. Szent Istvàn, della S.M.S. Tegetthoff e della S.M.S. Prinz Eugen e ammiraglia della flotta asburgica (peraltro in quelle ore in corso di passaggio alla flotta del neonato "Stato Sovrano degli Slavi meridionali" proclamato a Sarajevo, che avrebbe preso il nome di Jugoslavia).

Raffaele Paolucci
(Genova, 12/7/1881-
 Milano, 24/12/1951)
Raffaele Paolucci
(Roma, 1/6/1892- 4/9/1958)
A farla saltare in aria furono due coraggiosissimi ufficiali della Regia Marina, il maggiore del genio navale Raffaele Rossetti ed il tenente medico Raffaele Paolucci, trasportati all'imbocco della base da due MAS, il 94 e il 95, rimorchiati fino alla prossimità della costa dalle due torpediniere 65 PN e 66 PN, e giunti fin lì a cavallo di una mignatta (una torpedine semovente subacquea munita di due cariche di tritolo da 175 chili ognuna), che dopo aver trascorso sei ore in acqua e superato numerosi sbarramenti di reti avevano agganciato alle 16,30 sotto la chiglia dell'imponente nave lunga ben 152 metri una delle due cariche esplosive munite di congegno a tempo tarato sulle due ore successive.
Anticipando quasi alla lettera ciò che sarebbe avvenuto 23 anni dopo ad Alessandria d'Egitto ai danni delle corazzate inglesi H.M.S. Valiant e H.M.S. Queen Elizabeth ad opera degli incursori subacquei di Luigi Durand de la Penne a bordo dei nipoti della mignatta, i siluri a lenta corsa S.L.C. Maiali, i due ufficiali, catturati mentre cercavano di applicare la seconda carica sulla gemella Tegetthoffavevano lealmente avvisato il comandante della nave, il contrammiraglio croato Janko Vukovic, della esplosione ormai prossima, senza dire né il come, né il dove e né il quando, ma a differenza di quanto sarebbe successo il 19 dicembre 1941 il ritardo del timer aveva fatto sì che i marinai, fatti sbarcare in un primo momento tutti a terra, ritornassero sulla corazzata pensando ad un falso allarme: così quando avvenne lo scoppio e la nave si rovesciò su un fianco, andando a fondo in soli 10 minuti, ben 300 di essi morirono o andarono dispersi, compreso il povero Vukovic.



L'affondamento della Viribus Unitis (Fonte: Difesaonline.it)






Rossetti e Paolucci, rimasti prigionieri per soli 4 giorni, avrebbero visto Pola, già antico possedimento della Serenissima Repubblica di Venezia, ritornare il 5 novembre nuovamente in mano italiana dopo 121 anni di dominio austriaco: sarebbero stati decorati entrambi con la medaglia d'oro al valore militare, anche se il primo, divenuto negli anni '20 acceso antifascista repubblicano (al contrario del secondo, rimasto sempre monarchico e fedelissimo alla Corona), ne sarebbe stato privato con un provvedimento di inusitata stupidità, salvo vedersela restituire con tutti gli onori alla caduta del Fascismo.

29. IL RIPIEGAMENTO NEMICO DIVENTA ROTTA (1-2 NOVEMBRE)


Le truppe italiane avanzano




Quello stesso 1 novembre, mentre tutto il fronte difensivo tenuto dal Gruppo Armate dell'Isonzo di Boroevic crollava sotto la spinta della cavalleria e delle fanterie appoggiate dal fuoco delle artiglierie delle armate VIII° di Caviglia, XII° di Lord Cavan e III° del Duca di Savoia-Aosta, contemporaneamente il Gruppo Armate del Tirolo, passato sin dal 27 formalmente al comando di Alexander von Krobatin dopo che l'Arciduca Giuseppe, recatosi a Vienna il giorno prima su invito del suo Imperatore, era stato nominato da Carlo I° Reggente del Trono d'Ungheria, iniziava una penosa ritirata da Folgaria in direzione di Trento, inseguito da presso dalla VI° armata di Luca Montuori e dalla XII° di Jean Cesar Graziani, cui si aggiungeva nel primo pomeriggio del giorno 2 anche la I° armata di Guglielmo Pecori Giraldi: le due brigate Pistoia del colonnello brigadiere Adriano Alberti e Vicenza del Brigadiere Generale Giovanni Guerra della 26° divisione di Giuseppe Battistoni (XXIX° C.A. di Vittorio De Albertis) si muovevano infatti a cavallo della Val D'Adige alle dirette calcagna di von Krobatin in direzione di Rovereto, fiancheggiate lungo la prospiciente Val Lagarina dalle due della 32° divisione di Carlo Bloise (X° C.A. di Giovanni Cattaneo), l'Acqui del Maggiore Generale Gaspare Leone e la Volturno del Brigadiere Generale Clelio Nascimbene.

LA I° ARMATA DI PECORI GIRALDI ARRIVA A ROVERETO
Mentre sulla riva destra dell'Adige il V° C.A. di Giovanni Ghersi avanzava rapidamente senza quasi trovare resistenza in Vallarsa, sul Pasubio e in Val Posina  con le due brigate Piceno (Maggior Generale Giovanni Sirombo) e Liguria (colonnello brigadiere Umberto Zamboni) della 55° divisione di Carlo Ferrario, in direzione di Rovereto le avanguardie della 26° di Battistoni, partite sin dall'alba e formate dalle fiamme verdi del XXIX° reparto d'assalto del maggiore Gastone Gambara provenienti da Serravalle d'Adige e dal 4° gruppo alpino del colonnello Giovanni Faracovi disceso da Quota 1.865 di Coni Zugna (battaglioni alpini Feltre e Monte Pavione del 7° reggimento, Monte Arvenis dell'8°), trovavano maggior opposizione nel villaggio di Marco, presidiato da munite e combattive fanterie armate di mitragliatrici lasciate di retroguardia per proteggere il ripiegamento del grosso delle truppe in direzione nord.
Suddivisi in quattro colonne d'attacco tutte convergenti su Marco, gli italiani erano costretti a sostenere un duro combattimento, ma grazie al prezioso appoggio di fuoco degli obici da 65/17 delle batterie del 10° gruppo da montagna, che cominciarono a battere con regolarità ed  efficacia le posizioni nemiche distese tra il paese e le due rive opposte dell'Adige,  le due colonne degli arditi del XXIX° provenienti da sud e le due degli alpini discese invece a nord del paese dal costone dello Zugna travolsero i reticolati e penetrarono attraverso le linee difensive austro-ungariche ormai sgombrate dal nemico, in fuga a rotta di collo verso nord.
Alle 21,00 di sera, le fiamme verdi di Gambara e i tre battaglioni alpini entravano a Rovereto, totalmente libera di truppe nemiche, in ripiegamento verso Trento, seguiti dopo qualche ora da tutti gli squadroni del 14° Cavalleggeri di Alessandria del colonnello Ernesto Tarditi e dalle prime fanterie della 26° divisione di Battistoni.
Per quest'azione il maggiore Gastone Gambara (che avrebbe partecipato da discusso generale alla seconda guerra mondiale, protagonista sui fronti greco, africano e jugoslavo, con gravi accuse di crimini di guerra a suo carico rimaste sempre solo sulla carta), sarebbe stato decorato con la medaglia d'argento al valore militare.

GLI ALTOPIANI, PORDENONE, PORTOGRUARO IN MANO ITALIANA
Lo sfacelo delle truppe austro-ungariche coinvolgeva ormai tutto il fronte, perché l'XI° armata di von Scheuchenstel sentiva sul collo anche il fiato della VI° di Montuori, ormai impadronitasi dell'intero Altopiano di Asiago, che la tallonava da presso con la 20° divisione di Gioacchino Pacini (XII° C.A. di Giuseppe Pennella), la 14° del Principe Maurizio Gonzaga del Vodice (XIII° di Ugo Sani) e la 48° britannica South Midland di Sir Harold Bridgwood Walker, mentre l'VIII° di Caviglia, la XII° di Graziani e la X° di Lord Cavan incalzavano da vicino sul Tagliamento la VI° di von Schomburg-Hartenstein ed il pur tignosissimo Gruppo Belluno di von Goglia, con Pordenone già tornata completamente in mano italiana, ed infine la III° di Emanuele Filiberto era ormai a Portogruaro, esercitando una costante e fortissima pressione sulla V° armata di von Wurm ormai in rotta.

L'UNGHERIA SI RENDE INDIPENDENTE (2 NOVEMBRE)
A conclusione di quella mestissima giornata per Vienna, l'Ungheria, fino a quel momento fedele alleata dell'Impero, si rendeva ufficialmente indipendente, obbligando  tutti i reparti ungheresi a disarmare per volontà del Primo Ministro Conte Mihày Kàrholyi e del neo Ministro della guerra Bèla Linder, tra mille contatti radio-telefonici tra quest'ultimo e gli irriducibili von Krobatin, von Straussenburg e Boroevic, contrarissimi a tali misure.
Per quanto esse venissero formalmente sospese, l'ordine di Linder giungeva comunque lo stesso in prima linea senza trovare alcun filtro tra i vari Stati Maggiori, da quello più in alto fino a quello di battaglione, e l'intero fronte altoatesino crollava: un'intera divisione ungherese di cavalleria disertava, materiali, automezzi ed equipaggiamenti venivano abbandonati e tutti i treni in partenza da Trento venivano presi d'assalto dai soldati verso nord.
Lo squagliamento delle truppe asburgiche era ormai inarrestabile.

PARTE OTTAVA


LA FINE DI UN IMPERO

30. LA RESA DI VILLA GIUSTI (3 NOVEMBRE)

I plenipotenziari asburgici a Villa Giusti
Non c'era alternativa alla capitolazione ormai per l'esercito imperiale e non più regio: alle 23,30 del 2 novembre il Consiglio della Corona convocato a Schoenbrunn, dopo un incontro con i più alti Comandi militari, decideva di accettare le condizioni armistiziali proposte dagli italiani a Weber, informandone per conoscenza il Generale Johan Freiherr von Waldstatten al Comando Supremo di Baden.
Schneller alle 01,20 di notte fu incaricato di recarsi a Villa Giusti con l'accettazione delle condizioni di resa, mentre di propria iniziativa il quartier generale austro-ungarico inviava alle 01,30 e poi alle 03,30 alle proprie truppe l'ordine di cessare il combattimento e deporre le armi.

Pietro Badoglio, posto da Diaz a capo della delegazione italiana, si rifiutava però al momento dell'incontro finale a Villa Giusti, alle 15,00 del 3 novembre 1918, di aderire alla richiesta di Weber di far sospendere a sua volta le operazioni da parte delle truppe italiane: le condizioni armistiziali concordate con gli alleati e scritte in francese e in italiano, che prevedevano sostanzialmente il rispetto di quanto sancito nel Patto di Londra nel 1915 con le Potenze della Triplice Intesa, erano infatti subordinate a ratifica nelle successive Trattative di Pace ed erano pertanto ancora suscettibili di modifiche pregiudizievoli per gli interessi italiani.
Per tale motivo, ribadì a Weber, la data del cessate il fuoco, stabilita per le 15,00 del 4 novembre, sarebbe rimasta esattamente la stessa.
Alle 18,20, con la morte nel cuore, i plenipotenziari austro-ungarici firmavano la resa.

Gli italiani si sarebbero ritenuti legittimamente in guerra ancora per 20 ore e 40 minuti.
Ne avrebbero approfittato per avanzare implacabilmente ancora, come un coltello nel burro fuso, sfruttando la confusione del campo avverso dovuta anche all'ordine diramato dal quartier generale di Vienna di cessare i combattimenti, con lo scopo non nascosto di raggiungere e se possibile superare i confini di prima della guerra e catturare il maggior numero di prigionieri, mezzi, armi, cannoni ed equipaggiamenti, visto che le ostilità sul fronte occidentale contro i tedeschi stavano ancora continuando.
Il compito fu devoluto soprattutto alle unità più mobili di tutte: ancora una volta i reparti di cavalleria, a cavallo e sulle autoblindomitragliatrici, quelli dei bersaglieri, gli arditi.

31. UDINE LIBERATA, TRENTO E TRIESTE REDENTE (3 NOVEMBRE)

Prima pagina del Corriere delle Puglie (ora La Gazzetta del Mezzogiorno) del 4 novembre 1918



La pattuglia del tenente Carlo Baragiola
Intorno alle 13,00 del 3 novembre 1918 le truppe italiane raggiungevano finalmente Udine, felice ma esausta ed alla fame, riportandola alla Madre Patria dopo un anno di durissima occupazione nemica: ad entrare per prima in città era la pattuglia al comando del tenente Carlo Baragiola del 3° Savoia Cavalleria del colonnello Amedeo Marchino, poi seguita da altre dello stesso reggimento e dell'8° Lancieri di Montebello del parigrado Augusto Tavani, seguite dappresso dall'intero 3° squadrone Savoia al comando diretto di Marchino (che recava con sé una lettera diretta al Sindaco della città liberata) e da un altro dell'11° Cavalleggeri di Foggia  di Calisto Gazelli di Rossana, reggimento di stanza proprio a Udine prima della guerra.

Solo poco più tardi, alle 15,15, a circa 200 chilometri di distanza più a ovest il 14° Cavalleggeri d'Alessandria del colonnello Ernesto Tarditi proveniente da Rovereto entrava per primo tra il tripudio della cittadinanza a Trento, insieme con gli arditi del XXIX° reparto d'assalto di Gambara e gli alpini del 4° gruppo di Faracovi, seguito dopo qualche ora dalla brigata Pistoia della 26° divisione di Battistoni (XXIX° C.A. di De Albertis), e dopo aver accettato la resa dei comandi austriaci issava il Tricolore sabaudo sul Castello del Buonconsiglio, dove due anni e qualche mese prima erano stati incarcerati, processati e messi a morte per alto tradimento i tre patrioti irredentisti Damiano Chiesa, sottotenente d'artiglieria del Regio Esercito, di Rovereto (fucilato il 19 maggio 1916), Cesare Battisti, tenente negli alpini, di Trento (impiccato il 12 luglio dello stesso anno), e Fabio Filzi, sottotenente anche lui negli alpini, istriano di Pisino (impiccato lo stesso giorno di Battisti).


La cavalleria italiana a Trento, 3 novembre 1918
Infine, l'apoteosi vera e propria avveniva circa un'ora dopo, sull'altro lato del fronte, quando alle 16,20 arrivava l'ora tanto agognata della Liberazione di Trieste, il più grande porto dell'ex Impero, una delle sue perle più luminose.
Già sgombrata sin dal 30 ottobre dalle truppe austro-ungariche a seguito della sollevazione dell'intera città e ora in mano ad un neocostituito Comitato Civico, la capitale giuliana veniva raggiunta dal mare dalle truppe italiane della IX° armata della riserva del Tenente Generale Paolo Morrone.
Al comando del parigrado Carlo Petitti di Roreto comandante del XXIII° C.A. a bordo del cacciatorpediniere Audace gli uomini della brigata Arezzo della 61° divisione del Maggior Generale Vincenzo Di Benedetto del XXIII° e quelli della II° bersaglieri del Brigadiere Generale Felice Coralli del XIV° C.A. del Tenente Generale Pier Luigi Sagramoso, trasportati da alcune navi scortate da sei unità militari (i caccia Audace, La Masa, Missori e Fabrizi partiti da Venezia, le torpediniere Climene e Procione da Cortellazzo) sbarcavano al Molo San Carlo accolti da tutta la popolazione italiana festante.
Il Molo San Carlo avrebbe preso da allora il nome di Molo Audace, il contiguo lungomare quello di Riva 3 novembre: l'ancora dell'Audace è ora esposta alla base del Faro della Vittoria della città.


Il cacciatorpediniere Audace a Trieste (3 novembre 1918)


Trento e Trieste erano finalmente redente, la sventurata Udine era liberata, ma l'avanzata italiana non si fermava qui, non si fermava ancora.

32. LE CAVALLERIE AVANZANO ANCORA

Solo il Gruppo Belluno di von Goglia della VI° armata era riuscito a ripiegare a Cortina d'Ampezzo, Corvara e Arabba, nonostante i suoi soldati si rendessero autori di alcuni disordini, saccheggi ed ammutinamenti tra Brunico (Bruneck in tedesco) e San Candido (Innichen).
Al contrario, il Gruppo del Tirolo era ormai crollato.

I due corpi della X° armata austro-ungarica presenti nel settore di Trento si erano arresi alla I° armata di Guglielmo Pecori Giraldi, mentre altri tre corpi dell'XI° avevano fatto altrettanto nel corso del ripiegamento innanzi alle truppe della III° armata delle Giudicarie di Giulio Cesare Tassoni, i cui due corpi d'armata, il III° C.A. alpino di Vittorio Camerana ed il XXV° di Edoardo Ravazza, dopo essere rimasti a lungo inattivi si erano ormai mossi, esondando con estrema facilità lungo tutto il fronte al di qua e al di là del Garda: il 3° gruppo alpini  del III° raggruppamento del colonnello Abele Piva della 75° divisione alpina del Maggior Generale Giovanni Arrighi aveva infatti superato il Passo dello Stelvio ed era disceso su Trafoi; altri reparti alpini della stessa 75° e della 5° divisione del parigrado Ugo Porta avevano valicato il Gavia e il Tonale e raggiunto Peio e Fucine; dall'Adamello altre truppe italiane marciavano su Pinzolo, con obiettivo finale Merano e Bolzano; infine, lungo la valle del Sarca la 4° divisione di Giuseppe Viora (brigate Torino e III° bersaglieri) raggiungeva Tione proseguendo anch'essa verso Trento, mentre la brigata Pavia dell'11° divisione di Ettore Negri di Lamporo, superata senza opposizione Riva del Garda, si spingeva fino ad Arco con le sua avanguardie.
Ciò che restava dell'XI° armata, ormai rimasta assolutamente priva di  viveri e di munizioni e col morale e la disciplina a pezzi, si sarebbe così visto tagliare la ritirata  nel Tirolo Occidentale sulla strada per Malè tra Dimaro e Cles dal 29° Cavalleggeri di Udine e dai reparti alpini: lo stesso 29° si sarebbe spinto fino al Passo della Mendola per poi dirigersi con una colonna a Bolzano e un'altra a Mezzolombardo, che avrebbe raggiunto ad armistizio ormai in vigore.

Ad approfittare dello sfacelo del nemico fu così il Corpo di Cavalleria, ormai passato tutto alle dipendenze del Duca di Savoia-Aosta e lasciato libero di esondare nella pianura friulana a est del Tagliamento contro la V° e la VI° armata nemiche: 

- la 1° divisione di Filippini il 4 novembre raggiunse Tolmezzo, bloccando la ritirata della VI° armata austro-ungarica;

- la 2° di Litta Modignani con in testa il 1° Nizza Cavalleria del colonnello Luigi Tosti giunse tra l'1 e il 2 sino a Palmanova e San Giorgio di Nogaro;

- la 3° di Guicciardi di Cervarolo riprese in successione al nemico tra il 3 ed il 4 Cividale, Robic e Creda nella Valle del Natisone, ormai alle porte proprio di Caporetto;

- mentre  la 4° di Barattieri di San Pietro arrivò sino a Cormons.

Nella cavalcata finale verso tutte queste conquiste si distinsero il 26° Lancieri di Vercelli del colonnello Luigi Rochis, che si guadagnò per i fatti d'arme a San Odorico e sul Tagliamento la medaglia d'argento al valore militare, il 25° Lancieri di Mantova del parigrado Annibale Avogadro di Collobiano, che riconquistò Palmanova, il 7° Lancieri di Milano di Ulrico Pastore e il 10° Lancieri di Vittorio Emanuele II° di Pietro Panicali, per i combattimenti tra la stessa Palmanova e Cervignano, e il 6° Lancieri di Aosta al comando di Arnaldo De Ruggero, autore di una gloriosa carica a Corgnolo di Porpetto, i cui stendardi vennero tutti decorati con la medaglia di bronzo al valor militare.

Si era ormai alla fine, ma l'armistizio era fissato per le 15,00 del 4 novembre, e fino a quel momento l'ordine per gli italiani era di avanzare.

33. CODROIPO OCCUPATA DAL 332° REGGIMENTO U.S.A.

Proprio il 4 novembre 1918 il 332° reggimento americano dell'Ohio agli ordini del colonnello William Wallace, otteneva il suo primo, ultimo e unico alloro della campagna italiana.
A parte 54 piloti, per lo più volontari e italo-americani, tra i quali il giovane avvocato Fiorello La Guardia, membro del Congresso e futuro Sindaco di New-York, che durante la battaglia di Vittorio Veneto presero parte a bordo dei nostri bombardieri pesanti Caproni alle numerose e pericolosissime incursioni sulle retrovie nemiche, e fatte salve alcune unità sanitarie con due ospedali militari da campo, per un totale di qualche decina di persone, l'unica unità militare americana operativa inviata in Italia fu il 332° reggimento del colonnello William Wallace, appartenente all'83° divisione di fanteria.





Formato il 30 agosto 1917 a Camp Sherman in Ohiolo Stato che insieme al confinante Indiana forniva i soldati alla divisione, finito l'addestramento il reggimento l'8 giugno 1918 si era imbarcato a New-York sulla RMS Aquitania con destinazione Liverpool, dov'era arrivato il 15 giugno.
Portato a Southampton, da qui attraversata la Manica si era trasferito in Francia, con l'idea di andare a combattere sul fronte occidentale, ma era stato destinato a luglio sul fronte italiano, a seguito delle pressanti richieste del governo Orlando, prima nel Veronese, tra Villafranca e Valeggio sul Mincio, poi a Treviso.
Qui, assegnato alle forze della riserva prima alle dipendenze della 31° divisione italiana di Ciro De Angelis, poi nell'imminenza dell'attacco finale al XIV° C.A. inglese della X° armata di Lord Cavan, fino al 24 ottobre 1918 aveva passato il tempo a farsi addestrare dagli arditi e a compiere lunghe e visibilissime marce con lo zaino (rinforzato) sulle spalle, più che altro per rassicurare gli italiani e al contempo spaventare gli austro-ungarici.
Ma anche per il reggimento americano venne finalmente l'ora di combattere.

Il 29 ottobre giunse l'ordine anche per lui di partecipare all'avanzata, e lo fece alla testa dell'intero XIV° C.A. inglese.
Dopo una lunghissima e stancante marcia a piedi durata ben quattro giorni, il 3 novembre l'intero reggimento ebbe il primo, duro scontro a fuoco col nemico, un battaglione lasciato di copertura sul Tagliamento presso il Ponte della Delizia a Casarsa.
Il giorno dopo, il 2° battaglione, passato sulla riva sinistra del fiume nelle prime ore del mattino attraverso uno stretto pedonale, sorprese e scacciò dopo un altro breve scontro le retroguardie nemiche fino a quando, avanzando lungo il corso della ferrovia Treviso-Udine entrò nello giubilo della popolazione a Codroipo ormai sgombra di truppe nemiche, catturando anche grossi depositi militari di munizioni e materiali vari.
Alcune pattuglie ebbero il tempo di avanzare ancora e spingersi fino a Villaorba di Basiliano, quando alle 15,00 entrò in vigore l'Armistizio.
La sua avventura bellica finì lì, ma sarebbe restato ancora in Europa per qualche mese, poiché fece parte del contingente di pace americano, chiamato a effettuare puntate in Austria, in Dalmazia e persino a Cettigne, ex Capitale del Montenegro annesso al nuovo Stato di Jugoslavia.
Ritornato in Patria a New-York il 29 marzo 1919 a bordo del transatlantico italiano SS Duca d'Aosta, dopo aver partecipato a diverse sfilate per la vittoria prima proprio a New-York, poi a Cleveland, principale città dell'Ohio, venne finalmente sciolto il 5 maggio 1919 senza più essere ricostituito.
Nel corso della sua campagna italiana ebbe in totale un caduto e sei feriti.

UN FAMOSO FERITO NELLA A.R.C.
Ambulanze della Croce Rossa Americana
Furono le uniche perdite della spedizione ufficiale U.S.A. in Italia, anche se in realtà tra gli americani ve ne furono altre: oltre alle unità sanitarie dell'esercito, infatti, erano presenti anche diverse ambulanze di volontari della A.R.C.-American Red Cross, la Croce Rossa Americana.
Proprio tra le loro file vi fu almeno un altro caduto, in assoluto il primo americano sul suolo italiano, il 19enne Richard Cutts Fairfield, autista di ambulanza, ucciso il 26 gennaio 1918 mentre ne scortava una in motocicletta durante un bombardamento aereo su Mestre.
Tra i feriti della A.R.C. vi fu anche un nome allora sconosciuto ma destinato a diventare famosissimo, quello del 18enne Ernest Hemingway, che insieme ad altri insigni personaggi (ad esempio lo scrittore John Dos Passos), operò come autista di ambulanze, nello specifico nel distaccamento di Ca' Barsisa (poi Ca' Erezzo), presso Bassano del Grappa.


Ernst Hemingway 18enne nella Croce Rossa Americana
Proprio in queste circostanze avrebbe conosciuto ed amato alla follia gli arditi, che avrebbe sempre ritenuto i migliori soldati del mondo, ma soprattutto, dopo esser stato ricoverato per tre mesi a Milano per due serie ferite da lanciamine e da mitragliatrice ricevute sulle trincee tra Fossalta di Piave e Monastier durante gli ultimi strascichi della Battaglia del Solstizio, nella notte tra l'8 e il 9 luglio 1918, avrebbe incontrato Agnes von Kurowski, un'infermiera americana con cui intrecciò un breve e castissimo flirt.
Sarebbe stato lo spunto (enormemente ingigantito) per dar vita nel 1929 a quel grande romanzo che è "Forewell to the arms" (Addio alle armi), tradotto in film ben due volte nel 1932 e nel 1957, entrambe con grande successo di pubblico e di critica.

33. AL TRIVIO DI PARADISO VIENE VERSATO L'ULTIMO SANGUE 

Al di là di quanto avvenisse a Codroipo con gli americani, era poco più a sud, sulla via per Monfalcone, che il fronte dimostrava di essere ancora "caldo".
Mentre elementi celeri della 4° divisione di Barattieri alle 15,00 entravano a Manzano e Buttrio l'8° Lancieri di Montebello di Tavani appena arrivato da Udine riceveva a Gradisca d'Isonzo la resa della locale guarnigione austriaca, si faceva notare anche il 2° Piemonte Reale di Pio Angelini, che tra San Giorgio di Nogaro e Cervignano catturava un intero comando di divisione e ingenti quantità di materiali, entrando poco prima delle 15,00 nella stessa Cervignano e poi a Grado, aprendo così la strada alla presa di Aquileia da parte della 2° divisione di Litta Modignani.
Ma non era finita.

La sera precedente anche la 23° divisione bersaglieri del pluridecorato Tenente Generale Gustavo Fara, protagonista nel terribile fatto d'armi di Sciarra Sciatt in Libia (v. https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Sciara_Sciatt) ed ex comandante del caporale Benito Mussolini all'11° bersaglieri, dopo essere passata alla III° armata del Duca Emanuele Filiberto con le sue due brigate, la VI° (8° e 13° reggimento) e la VII° (2° e 3°), aveva avuto l'ordine perentorio di andare avanti al massimo della velocità per farsi trovare al momento dell'Armistizio il più vicino possibile al vecchio confine:

"Domani la 23ma divisione preceduta dai cavalleggeri Aquila, punti su Gradisca per la direttrice Madrisio-Rivignano-Castions di Strada-Versa-Gradisca".

Passato il Tagliamento a Madrisio, i bersaglieri dell'8° e 13° reggimento della VI° brigata (colonnello brigadiere Giovanni Dho), che aveva avuto già l'onore di essere citata nel bollettino n. 1.260 del 31 ottobre (per la seconda volta dopo il n. 1120 durante la battaglia del Solstizio) si erano così ritrovati ad inseguire in direzione di Ariis di Rivignano, sulla riva sinistra del fiume Stella, ciò che restava di un'intera divisione magiara di cavalleria, l'11° K.u. Honved di Debrecen (Debrezin in tedesco) del Maggior Generale Paul Hegedus: non tutti gli ungheresi si rassegnavano alla fine dell'Impero, così era loro ferma intenzione quella di opporsi il più possibile all'avanzata italiana, sull'onda di quanto ordinato da Boroevic.
Fu proprio in queste circostanze che caddero gli ultimi uomini sul fronte italiano della Grande Guerra.

Di essi abbiamo ormai un vago ricordo, affidato ai posteri dal diario di un bersagliere dell'8° reggimento, Dionigio Annovi (https://digilander.libero.it/frontedeserto/diari/annovi.htm), dal racconto autobiografico del giovanissimo ufficiale dei bersaglieri Giuseppe Rotolo (http://soldatinodipiombo.blogspot.com/2013/07/lo-scontro-di-paradiso-4-novembre-1918.html), nonché dagli scritti e dalle parole di Gabriele D'Annunzio (in particolare il discorso tenuto al Campidoglio il 5 maggio 1919), oltre che dalle poche e ormai consunte lapidi commemorative e dalle motivazioni delle decorazioni ottenute da chi vi partecipò.

Già alle 05,00 di mattina di quel piovoso lunedì 4 novembre il XII° battaglione ciclisti dell'8° bersaglieri aveva avuto un durissimo scontro per superare una trincea nemica, riferisce Annovi, in cui aveva perso 34 uomini (17 soldati caduti e 2 ufficiali e 15 soldati feriti), contro un totale di almeno 150 tra caduti e feriti austro-ungarici, ma non era finita ancora.
Sin da quella stessa mattina, dice Rotolo, i bersaglieri erano stati informati che alle 15,00 sarebbe scattato l'Armistizio, ma avevano ricevuto un nuovo ordine: quello di dirigere verso il piccolo borgo di Paradiso, un grumo di casupole sparse di contadini, frazione del comune di Pocenia, a metà strada tra Muzzana del Turgnano, a sud, e Castions di Strada, a nord, dov'era stata segnalata la presenza di due irriducibili e combattivi reggimenti di cavalleria.
Forse non sapevano esattamente chi fossero, ma erano con tutta probabilità alcuni squadroni di mitraglieri degli Ussari, appartenenti al 10° K.u.K. Husarenregiment "Friedrich Wilhelm III. Konig von Preussen" ed all'11° K.u.K. Husarenregiment "Ferdinand I. Konig von Bulgarien" del Gruppo "Heinlein"aggregato all'ormai dissolta 11° divisione di Hegedus, rimasti fedeli all'Impero a differenza della maggior parte dei loro connazionali e fermamente intenzionati a impedire agli italiani di superare i confini del 1866.

Il XII° ciclisti costituiva l'avanguardia del I° gruppo del 27° Cavalleggeri dell'Aquila, un gruppo tattico di formazione al comando del vicecomandante di quel reggimento, il tenente colonnello Pietro Pezzi-Siboni, un ufficiale romagnolo di Russi (RA) di padre garibaldino a Mentana e madre di altolocata famiglia carbonara e liberale, che ci ha lasciato una preziosa collezione di migliaia di sue foto sulla vita quotidiana al fronte.
Di tale gruppo facevano parte, oltre al battaglione ciclisti e tre squadroni dell'Aquila, pure una batteria da campagna trasformata in batteria a cavallo coi serventi montati ed anche elementi del 25° Lancieri di Mantova, probabilmente della consistenza di uno squadrone: nell'insieme doveva trattarsi di circa 600 uomini.
Proseguendo nell'avanzata, dopo aver sostenuto qualche breve scontro di fucileria senza danni nell'attraversamento del piccolo ma profondo torrente Stella, pur rallentato dalla necessità di riattare in qualche modo un ponte demolito trovato sulla strada, il XII° fu finalmente in vista del piccolo paese di Torsa, circa un chilometro a est del villaggio di Ariis appena superato, dove però fu accolto da un nutrissimo fuoco di fucili e mitragliatrici nascoste tra le case, sui tetti e le vie cittadine.
I bersaglieri si disposero per attaccare da più lati il paese, protetti dalla pur scarsa vegetazione della campagna, senza impegnare direttamente la strada che conduceva all'interno del centro abitato, e appena in posizione scattarono in avanti.
Si era intorno alle 14,00.
Mancava un'ora all'Armistizio.


Alberto Riva Villasanta
(Cagliari, 20/8/1900-
Torsa, 4/11/1918)
In testa a quegli scafati veterani c'era il plotone delle fiamme cremisi reggimentali al comando di un classe '900, il sottotenente Alberto Riva di Villasanta, cagliaritano purosangue, 18enne da meno di tre mesi, il cui padre Giovanni, un maggiore della brigata Sassari due volte medaglia d'argento, nipote dell'Aiutante di Campo del Duca di Savoia-Aosta, era caduto a Castelgomberto sull'Altopiano di Asiago il 7 giugno 1916.
Il ragazzo, scappato ai primi di ottobre del '17 dalla casa di famiglia di Milano, dove risiedeva coi suoi dall'inizio della guerra, si era arruolato sotto età nel 90° reggimento Salerno: una volta scoperta la sua vera età era stato confinato in retrovia, ma poi era tornato in prima linea e dopo aver combattuto valorosamente sul Grappa e sul Piave era stato ammesso al corso allievi  ufficiali presso il Comando della III° armata, in cui era arrivato primo.
Entrato così nell'8° bersaglieri col grado di aspirante, si era già guadagnato una medaglia d'argento nell'agosto del 1918 sul Piave al comando di un plotone degli arditi, guadagnandosi anche la promozione a sottotenente.
Ad onta dell'età non si trattava quindi propriamente di un novellino, tutt'altro, e proprio lui guidava con coraggio e determinazione l'assalto dei suoi arditi alle postazioni nemiche in paese, probabilmente pure superiori di numero rispetto a quanto ci si aspettava, conquistandole una a una.
Stavolta l'entusiasmo giovanile però lo tradì: mentre correva davanti ai suoi all'inseguimento degli ussari in ripiegamento verso Paradiso il ragazzino con le stellette, colto completamente allo scoperto, ricevette purtroppo un colpo in piena fronte sparato da un cecchino nemico appostato sul campanile della piccola chiesa di Santa Maria Annunziata.
Morì senza un solo grido.
Erano le 14,30. 
Mezz'ora all'Armistizio.
Alberto Riva sarebbe stato decorato con la medaglia d'oro alla memoria con Motu Proprio di S.A.R. Vittorio Emanuele II°. 
Riposa ora, non lontano dal padre, nel Sacrario Monumentale di Redipuglia.

Mentre molti bersaglieri e arditi vogliosi di vendetta si lanciavano verso il campanile e le poche case del piccolo centro alla ricerca dei cecchini e degli altri soldati eventualmente ancora nascosti, gli altri, inforcate le biciclette, si lanciarono in direzione del nemico, ma dopo poche centinaia di metri un muro di fuoco li costrinse a fermarsi: non veniva solo da Paradiso, ma anche da più lontano sulla stressa strada.
Questa infatti si trasformava in uscita dal paese in una polverosa rotabile (l'attuale provinciale S.P. 87), che dopo aver lambito Paradiso si biforcava dopo circa 500 metri, formando un trivio con la strada (l'attuale regionale S.R. 353) che a sinistra, costeggiando a partire da un certo momento il torrente Cormor, portava in direzione di Castions di Strada, e a destra invece si dirigeva verso Muzzana.
Almeno una compagnia di fucilieri e diversi nidi di mitragliatrici nemici si erano così posizionati a caposaldo tra l'avanguardia acquartierata tra gli abituri di Paradiso e più indietro i distaccamenti a destra e a sinistra del trivio, distanziati tra loro da non più di una cinquantina di metri.
Gli ussari avevano preparato un'autentica trappola mortale: disponevano infatti di campo totalmente libero davanti a loro ed erano in grado di poter spazzare via con un feroce tiro incrociato chiunque percorresse quella strada.
Presi d'infilata da tutti quei centri di fuoco, i ciclisti non potevano che avere la peggio: costretti a buttarsi a terra ad a ripararsi tra le sterpaglie e gli arbusti sotto il piano di marcia, erano ormai inchiodati su quella strada dalle raffiche nemiche senza nemmeno potere alzare troppo la testa, anche se cercavano con le loro mitragliatrici di rispondere come meglio potevano al fuoco nemico...
Ma il passaggio era sbarrato, impossibile proseguire oltre come da ordini ricevuti.

Improvvisamente, però, si udì un suono divenuto ormai familiare in quei mesi: una ritmata eco di zoccoli scalpitanti, che si accompagnava ad una nuvola di polvere dentro la quale si intuiva una massa di corpi in movimento.
"Arriva la cavalleria!", fu il grido di esultanza dei bersaglieri rimasti in paese.
Era l'avanguardia del I° gruppo di Pezzi-Siboni, il 4° squadrone del 27° Cavalleggeri dell'Aquila guidato dal capitano Ultimo Grilli.
Erano le 14,45.
Mancavano solo 15 minuti all'Armistizio.

Passò qualche interminabile secondo: mentre a Torsa continuava la ricerca casa per casa degli ussari superstiti, sulla strada no, sulla strada ora era calato il silenzio, i bersaglieri del XII° stavano attendendo, e con loro anche il nemico.
I cavalleggeri guardavano interrogativi il loro comandante.
Possiamo immaginare i pensieri che attraversavano la loro mente e il loro cuore:
"Ancora pochi minuti ed è finita".
"Un attacco su quella strada allo scoperto è quasi suicida".
"Nessuno potrebbe biasimarci per un'eventuale rinuncia".
"Cosa ce ne facciamo di poche centinaia di metri in più?"
"Sono quattro anni che combattiamo, ora è inutile, ora basta!"
Sì, erano pensieri logici, non c'era alcun segno di codardia nel concepirli ma...
"...Ma intanto lì davanti a noi c'è gente che si spara addosso, soffre, è ferita, gente che muore".
"Abbiamo avuto un ordine, e noi gli ordini li rispettiamo".
"È morto un sottotenente ragazzino, oggi, un classe '900, a mezz'ora dall'Armistizio...E noi dovremmo ritirarci?"
"Dobbiamo attaccare, per la Dignità della divisa, per Rispetto di noi stessi, per l'Onore del reggimento e dello stesso nemico, che non si arrende fino alla fine"...

Calmissimo, Grilli li squadrò tutti uno per uno: Pezzi-Siboni gli aveva ricordato che avevano l'ordine di attaccare, ma i suoi avevano un'età media che non superava i 22 anni e mezzo, tra loro c'erano molti classe '99 e padri di famiglia, diversi veterani e tante matricole, entusiasti e disillusi...
Poi, data un'occhiata al suo orologio, prese la decisione che ritenne più giusta.
Chiamò a sé i suoi due comandanti di plotone, il tenente Augusto Piersanti, 21enne di Norcia, e il sottotenente Achille Balsamo di Loreto, 19enne di Napoli, e disse poche parole:

"Ho avuto l'ordine di attaccare. 
Carichiamo, per la Patria".

I tre plotoni si disposero uno più avanti, quello del comandante al centro, gli altri due su entrambe le ali ai lati della strada, quello di Piersanti a destra, l'altro di Balsamo a sinistra.



Grilli sguainò la sciabola e urlò: "Avanti!"
I cavalli percorsero a passo lento poche decine di metri, poi cominciarono progressivamente ad accelerare fino alla posizione dei bersaglieri.
I bersaglieri, prima di buttarsi sui fossati laterali per farli passare, gridavano quasi tutti: "Viva la cavalleria!"
Ormai a circa 200 metri da Paradiso, Grilli fece dare alla tromba il segnale della carica.
Erano le 14,55.
Cinque minuti all'Armistizio.

Nel fragore della carica, da Paradiso cominciarono a sparare sui cavalleggeri, e così pure dal trivio.
I bersaglieri, nella polvere che copriva l'attacco della cavalleria davanti a loro, sentirono urlare "Savoia!" sotto il fuoco intensissimo della fucileria e delle mitragliatrici nemiche che sparavano al riparo dei pochi abituri di Paradiso.
A quel punto balzarono in sella alle biciclette e si lanciarono anche loro in avanti, ma intanto i tre plotoni del 27°, partiti separati, nella furia della carica erano diventati una cosa sola, per poi allargarsi di nuovo per non dare modo alle mitragliatrici di colpire nel mucchio: con un mortale movimento sinusoidale apparentemente invincibile erano entrati nel perimetro difensivo ungherese e l'avevano messo a ferro e fuoco.
Furono in un attimo sulla prima linea di difesa, entrarono dentro i capisaldi, andarono oltre, ruppero a sciabolate le ultime resistenze e proseguirono senza fermarsi mai incontro al trivio, mentre nel frattempo a completare l'opera arrivavano a loro volta i bersaglieri, pressoché ignorati dal nemico, e da lontano si sentiva la tromba che annunciava l'arrivo del resto del gruppo squadroni di Pezzi-Siboni.

(Fonte: https://www.qdpnews.it/vittorio-veneto/22307-vittorio-veneto-si-cercano-30-giovani-volontari-per-il-raduno-nazionale-dell-arma-di-cavalleria)


Ma la carica del 4° squadrone continuava, nel frastuono terribile delle armi del nemico e di quelle dei bersaglieri, che cercavano di coprire l'assalto della cavalleria.
Ormai erano solo a centro metri.
Le mitragliatrici austro-ungariche sparavano, sparavano, abbattendo cavalli e cavalieri: da dietro certo sopraggiungevano gli altri squadroni, ma non c'era più tempo.
Era il 4° che doveva chiudere la partita!


Achille Balsamo di Loreto
I tre plotoni di Grilli cominciarono a sbandare, a disarticolarsi tra di loro, alcuni cavalli imbizzarriti e senza cavaliere tornarono indietro, altri si fermarono accanto ai loro cavalieri caduti a terra.
Il tenente Piersanti ed il sottotenente Balsamo non ci pensarono su due volte e si lanciarono in avanti da soli, incitando i loro uomini a seguirli:"Avanti, Italia!"

Li seguirono tutti, andando ferocemente incontro al fuoco mortale.
Erano rimasti sì e no in una decina, quelli che arrivarono addosso alle mitragliatrici degli increduli ussari, posizionate poco più in alto, su un ponticello.
Piersanti e Balsamo furono i primi a lanciarsi su di esse ed a sciabolarne i serventi, ma erano troppo vicini alle altre Mg, troppo esposti, troppo in alto per sfuggire al Fato: Piersanti fu disarcionato e cadde a terra, col suo cavallo che continuò a correre oltre la linea del nemico, Balsamo e il suo furono invece colpiti entrambi e caddero pesantemente davanti alla siepe nemica, mentre nel frattempo arrivavano sulla linea del nemico anche gli altri squadroni.
I due ufficiali sarebbero stati entrambi decorati con la medaglia d'argento alla memoria.
I serventi non ebbero il tempo di esultare, perché furono subito investiti dalla marea umana degli altri cavalieri, che li travolsero e dopo aver oltrepassato il ponticello ritornarono indietro per finirli.
Ormai battuti, gli ungheresi smisero di sparare, alzando le mani.
In quel preciso momento dal campo nemico si udirono alcuni squilli di tromba, mentre nel cielo un aereo italiano comparso improvvisamente fece ululare una sirena, dopo aver srotolato un lungo striscione tricolore.
Campane lontane si misero a suonare.
Erano le 15,00.
L'ora dell'Armistizio.

Nella battaglia di Paradiso, l'ultima del Regio Esercito sul suolo italiano, caddero 9 italiani e almeno 14 ne furono contati tra le file degli austro-ungarici (altre fonti parlano di 19 o addirittura 21 caduti nemici).
Con Augusto Piersanti, Achille Balsamo di Loreto ed Alberto Riva di Villasanta caddero anche il caporale Giulio Marchesini, i soldati Giovanni Quintavalli, Girolamo Schiavon, Carlo Sulla del 27° Cavalleggeri de L'Aquila, il caporalmaggiore Giuseppe Pezzarossa del 25° Lancieri di Mantova ed il soldato Giovanni Arghitu dell'8° bersaglieri.
Augusto Piersanti e Achille Balsamo di Loreto furono gli ultimi due caduti in assoluto sul fronte italiano.
(V. http://www.pernondimenticarelagrandeguerra.it/augusto-piersanti-lultimo-caduto-della-grande-guerra/).

Gabriele D'Annunzio, il 5 maggio 1919, alla vigilia dell'impresa di Fiume, avrebbe ricordato il primo così:

"Tenetelo a mente, non lo dimenticate più: Augusto Piersanti volle morire per coprire del suo corpo e del suo amore la sua terra qualche palmo più in là. 
La sua mano era impigliata nella criniera del suo fedele. 
Non gli decretate una statua equestre, non ha bisogno del bronzo per essere eternato. 
È più potente del metallo imperiale.
Egli è vivo..."


Appena venti giorni prima, il 15 aprile 1918, proprio in coincidenza del trivio era stato inaugurato alla presenza di Emanuele Filiberto, Duca di Savoia-Aosta, che vi tenne un bellissimo discorso, il monumento alla memoria dei valorosi che morirono quel giorno.
Sarebbe stato in assoluto il primo di una lunga serie che sarebbero stari eretti negli anni, in tutta Italia.

Una foto scattata al momento dell'inaugurazione del monumento di Paradiso, il 15 aprile 1918











Esso recita così:

"Qui, nell'ultimo bagliore della lotta, 

i Bersaglieri della 23esima divisione
i Lancieri di Mantova
e i Cavalleggeri di Aquila
caricando il nemico 
con la radiosa visione della vittoria
donarono alla Patria
la loro fiorente giovinezza

Ore 15 del 4 Novembre MCMXVVVIII"

Per quella carica avrebbe avuto la medaglia d'argento al Valore militare anche il tenente colonnello Pezzi-Siboni, ma nessun riconoscimento sarebbe stato dato allo stendardo del 27° Cavalleggeri  de L'Aquila.
L'8° bersaglieri avrebbe avuto invece la medaglia d'argento al Valor militare, come il fratello 13° (quest'ultimo per l'intera guerra).


LA GUERRA NON È FINITA
La battaglia di Vittorio Veneto, Terza battaglia del Piave, era finita, con la schiacciante vittoria italiana ed un bilancio ufficiale di 36.498 perdite tra morti, feriti e dispersi tra gli italiani e i loro alleati (1.830 britannici e 588 francesi) e di ben 90.000 tra morti, dispersi e feriti tra gli austro-ungarici, da aggiungersi ai 24 generali, 10.634 ufficiali e 416.116 uomini di truppa presi prigionieri ed alle 6.818 bocche da fuoco catturate insieme a interi depositi di armi e materiali vari (cifre all'11 novembre).
Nonostante l'Armistizio, le forze italiane avrebbero proseguito ancora la loro avanzata, senza ovviamente trovare alcuna opposizione, fino addirittura a Innsbruck, ben oltre il limite stabilito dai termini del patto di Villa Giusti, che prevedevano, oltre alla smobilitazione totale dell'esercito nemico, anche il suo ritiro fino a nord della linea del Brennero, finalizzato ovviamente al conseguimento dell'annessione del Trentino e dell'Alto Adige.
Non pochi sarebbero stati i rimpianti per non essere arrivati in tempo fino a Vienna, come probabilmente sarebbe stato possibile se il Piave non fosse stato in piena nei primi giorni dell'offensiva: dopo, con la richiesta di Armistizio austro-ungarica in corso, non si sarebbe potuto fare oggettivamente di più.
Non sarebbe comunque servito probabilmente a nulla, se non al prestigio del nostro esercito, visto che il Trattato di Parigi del 19 settembre 1919 accettò la nostra annessione di Trentino e Alto-Adige ma si fermò a lì.
Anzi, gli americani si infuriarono con noi, perché avevamo platealmente a loro detta rubato territori mai italiani come Bolzano  e altri, in spregio ai famosi 14 punti enucleati da Wilson nel suo discorso di ormai quasi due anni prima.
Da qui sarebbe derivata anche l'impuntatura americana su Fiume, raggiunta dal XXVI° C.A. di Asclepia Gandolfo solo il 17 novembre 1918, quindi ben 13 giorni dopo l'Armistizio, 6 dopo la resa della Germania: la cosiddetta "Questione fiumana", sorta a a causa del desiderio di Wilson di farne una Città-Stato aderente alla Società delle Nazioni, di quello della Jugoslavia di prendersela senza tante storie, di quello dell'Italia di averla lei, per ricomporre con Trieste e Pola il mosaico dell'italianità della Venezia Giulia, sarebbe stata infine risolta grazie a un coupe de theatre del solito Gabriele D'Annunzio, che dopo aver messo insieme poco meno di 3.000 volontari ex militari (o militari tutt'ora) del Regio Esercito per lo più di fanteria e artiglieria, passati alla storia come i Legionari di Fiume, si sarebbe impadronito della città nello stesso settembre 1919.
Fiume sarebbe infine stata annessa nel 1924 all'Italia al termine di spericolate vicende conclusesi non senza spargimento di sangue.
Ma tutto questo non attiene all'argomento di questo lavoro, magari se ne parlerà più in là.

Il conflitto in Italia, come si è detto, era finito, ma proseguiva sul fronte occidentale, dove era presente tuttora un forte contingente militare italiano, quello composto dalle truppe del II° C.A. (3° e 8° divisione) al comando del Tenente Generale Alberico Albricci, posto a sua volta alle dipendenze della V° armata francese del Generale Henry Mathias Berthelot.
Oltre a queste forze, c'erano anche il XVI° C.A. del Maggior Generale Giacinto Ferrero (13°, 36° e 38° divisione) in Albania e la 35° divisione rinforzata in Macedonia al comando in quel momento del parigrado Ernesto Mombelli, per non contare il contingente che sarebbe stato mandato in Turchia e ovviamente le truppe in Cirenaica dove, più silenziosa e meno conosciuta, era proseguita la lotta contro le tribù senussite fomentate da tedeschi e turchi.

La fine definitiva sarebbe comunque avvenuta una settimana dopo quella sul fronte italiano, l'11 novembre 1918, quando su un vagone ferroviario a Compiègne la Germania firmò a sua volta la resa.
Hitler se la sarebbe legata al dito: in quello stesso vagone, poi dato alle fiamme, il 22 giugno 1940 sarebbe stato firmato il secondo Armistizio, quello stavolta della resa della Francia alla Germania nel secondo conflitto mondiale.
Ma anche di questo magari ne parleremo un'altra volta.

Le perdite complessive dell'Italia furono nell'intera guerra di 651.000 caduti e 950.000 almeno tra feriti e mutilati, con circa 1.000.000 di perdite anche tra i civili, ma in tutto il mondo i morti, tra militari e civili, superarono i 17.000.000!*
La Grande Guerra, quando finì, lasciò in tutti la sensazione che non ve ne sarebbero state altre, almeno non in quelle proporzioni, ma la realtà si sarebbe purtroppo rivelata ben diversa: la morte di tre Imperi, quello tedesco (Guglielmo II° abdicò il 9 novembre 1918), quello austro-ungarico (Carlo I° fu costretto a farlo l'11 novembre) e quello ottomano, col loro frazionamento in tante realtà nazionali diverse, spesso nate in lite già tra di loro, avrebbe lasciato troppe questioni irrisolte, troppi risentimenti politici e ideologici senza sbocco, spesso sfociati in tutta Europa in sommovimenti politici e rivoluzionari, e a peggiorare le cose ci si sarebbero messe l'epidemia spagnola, che avrebbe fatto 20 milioni di morti in tutta Europa (1 milione solo in Italia) e la crisi economica del 1929, che avrebbe mandato sul lastrico milioni e milioni di famiglie.
Per quanto riguarda l'Italia, la bocciatura di gran parte delle nostre rivendicazioni territoriali (protettorato sull'Albania, possesso del porto di Valona, alcuni territori turchi, parte delle colonie ex tedesche, oltre alla citata questione fiumana), soprattutto per volontà degli Stati Uniti, unita al fatto che Francia e Inghilterra nonostante tutto riuscissero invece a strappare decisamente più risultati dalle trattative di Pace, alimentò il mito della "Vittoria mutilata" nato con D'Annunzio, tra i detonatori del Fascismo, fatto proprio soprattutto dagli ex educi che mano a mano venivano smobilitati e tornavano alle loro case, in un'epoca di contrasti sociali e politici che raramente trovarono una classe politica liberale adeguata a farvi fronte.
E alla fine la Grande Guerra altro non si sarebbe rivelata che un'anticipo, si può dire il primo tempo, di un conflitto ancora più grande e letale, la Seconda Guerra Mondiale.
Ma pure di questo forse se ne parlerà un'altra volta.

*https://it.wikipedia.org/wiki/Conteggio_delle_vittime_della_prima_guerra_mondiale

34. IL BOLLETTINO DELLA VITTORIA

(https://www.youtube.com/watch?v=PcvxCtndWEU)









Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12 

BOLLETTINO DI GUERRA N. 1268

"La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. 
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatrè divisioni austroungariche, è finita. 
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d'armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, dell'VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. 
Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. 
L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento, ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. 
Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. 
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza".

Firmato: Diaz

35. LA CANZONE DEL PIAVE

(https://www.youtube.com/watch?v=YNqcK2boZLM)

E.A. Mario
 (Napoli, 5/5/1884- 24/6/1961)
Il 23 giugno 1918, a battaglia del Solstizio appena finita, il famoso compositore Giovanni Ermete Gaeta, noto con lo pseudonimo di E.A. Mario, ex impiegato delle poste divenuto tra i più celebrati esponenti della canzone napoletana della prima metà del secolo scorso e autore anche di brani patriottici molto popolari, scrisse di getto le parole di quello che è forse il più conosciuto, apprezzato e commovente canto patriottico italiano, ancora adesso a distanza di cento anni impresso nel patrimonio collettivo del nostro popolo, "La Leggenda del Piave", conosciuta anche come "La Canzone del Piave", un commosso omaggio al sacrificio dei nostri soldati che in pochi minuti descrive le nostre vicende belliche, dall'entusiasmo iniziale del 24  maggio 1915 primo giorno di guerra, al tracollo di Caporetto, fino alla disperata ma vittoriosa difesa nella prima e nella seconda battaglia sul Piave.
Divenuta immediatamente un successo nazionale di enormi proporzioni, la canzone fu letteralmente adottata dai nostri fanti, che la cantavano nei momenti di rara quiete persino in prima linea, tanto che al termine del conflitto lo stesso Armando Diaz telegrafò al compositore per fargli sapere quanto essa fosse servita ad infondere coraggio e motivazione ai suoi soldati, "più di un generale".

Per la sua forte valenza simbolica ed emozionale la Canzone del Piave fu per qualche anno inno nazionale provvisorio italiano, nel Periodo Costituente, sotto la Reggenza di Umberto II°, in sostituzione della "Marcia Reale", come segno di evidente discontinuità col caotico, disgraziato, folle e sanguinoso ultimo periodo di regno di Vittorio Emanuele III° (anche perché, per inciso, E.A. Mario era notoriamente mazziniano e repubblicano).
Si dice che sarebbe stata anche la preferita di Alcide De Gasperi all'interno dell'Assemblea Costituente, se non fosse che E.A. Mario rifiutò la sua proposta di creare l'inno ufficiale della D.C. in occasione delle prime elezioni libere, rispondendogli di non essere abituato a lavorare su commissione,  ma solo guidato dall'ispirazione del momento: così De Gasperi, offeso, avrebbe a quel punto quasi per dispetto perorato la causa dell'unico altro brano in lizza, il "Canto degli Italiani" di Goffredo Mameli, che infatti fu quello alla fine prescelto.
Se mi è concesso di dirlo in questa mia piccola tribuna di periferia, la Canzone del Piave ha a mio parere un impatto emotivo ed una spontaneità di accenti decisamente più vicini al sentimento della gente comune, quella che sul Piave fu effettivamente protagonista, ben lontani dagli accenti retorici tipici dell'epopea risorgimentale che invece sono propri del testo di Mameli, non nascondo quindi di preferirla di gran lunga all'inno attuale.
Nel 2008 Umberto Bossi, forse per puro spirito polemico o forse no, la ripropose invano come Inno ufficiale dello Stato italiano.

Per capire quanto forte fosse il legame con questa melodia dei sopravvissuti della Grande Guerra e i loro figli e nipoti, anche in un'epoca di profonde contraddizioni politiche come l'immediato secondo dopoguerra, basti vedere la mitica scena del comizio di Peppone davanti alla chiesa di Don Camillo, nel film "Don Camillo e l'Onorevole Peppone" (1955), tratto dai romanzi di Giovannino Guareschi, quando alla denuncia di Peppone della retorica risorgimental-patriottica del capitalismo vista come strumento contro i lavoratori il prete risponde facendo diffondere dall'altoparlante posto sul campanile proprio le parole della Canzone del Piave.
Non vi dico più nulla, guardatela e basta, la trovate qui sotto.

IL DISCORSO DI PEPPONE
https://www.youtube.com/watch?v=1MlMii5BW50

Il Monte Pelago oggi, butterato dai colpi dell'artiglieria



DEDICA
Ciao papà, questo pezzo lo dedico a te.
Non hai partecipato a nessuna guerra, per fortuna, ma sei stato un grande soldato, lo so, i continui attestati di stima e affetto che provengono dai tuoi colleghi e dai tuoi ex soldati me lo confermano ogni giorno, ma soprattutto sei stato un grande marito e padre.
Mi permetto di allegare questa foto, che ho tratto dal sito ARTIGLIERI 27° R.A.P.S. (http://artiglieri27raps.blogspot.com/2013/04/20-04-1964-20-04-2013.html), dedicato al 27° semoventi di Udine (Caserma OSOPPO), il tuo primo reparto operativo.
Si tratta di una foto scattata il 20 aprile 1964 e pubblicata dal Messaggero Veneto del giorno dopo, con l'intero reggimento schierato a Udine, in occasione del suo arrivo in città.
L'ho scoperta solo pochi mesi fa, dopo la tua...partenza per una lunga trasferta, una trasferta che prima o poi faremo tutti.
E in questa foto ci sei tu,
 il secondo da sinistra, giovane e bel tenentino di 26 anni, con il prestigioso e delicato ruolo di alfiere.
Ora scusami, allego la foto e scappo, perché tra un po' le lacrime mi impediranno di scrivere ancora.
Ti voglio bene, pa'.
Ciao.










AVVERTENZA

Come sempre in questi casi, voi mi conoscete, questo post lo ritengo tuttora in corso d'opera.
Se qualche lettore avesse osservazioni da farmi, precisazioni, correzioni, qualunque cosa, può scrivermi direttamente alla mia mail, nella mia pagina facebook o nei commenti: sarò ben lieto di provvedere se del caso alle opportune modifiche.
Vi confesso che sono giunto molto lungo sui termini che mi ero posto per la pubblicazione, e questo non solo ha fatto sì che probabilmente dovrò comunque piano piano porre mano a una rivisitazione critica di quanto ho scritto, per verificare eventuali ridondanze, ripetizioni o escursioni fuori tema (ecco perché vi ringrazio in anticipo delle vostre eventuali segnalazioni al riguardo), ma ha anche compromesso un po' l'ordinario andamento del blog.
Cercherò di rimediare nei prossimi giorni.

Nel frattempo, grazie a chi volesse dedicare un po' del suo tempo alla lettura di questo lavoro.

FORSE TI POSSONO INTERESSARE ANCHE I SEGUENTI LINK TRATTI DAL MIO BLOG:

- LA STORIA DELLE COLONIE ITALIANE: LA CONQUISTA DELLA LIBIA
http://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2015/12/la-storia-delle-colonie-italiane-la.html

- LA STORIA DELLE COLONIE ITALIANE: LA RICONQUISTA DELLA LIBIA E LA COLONIZZAZIONE DEGLI ANNI '30
http://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2016/06/la-storia-delle-colonie-italiane-la.html

- L'ATTENTATO DI SARAJEVO
http://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2016/06/lattentato-di-sarajevo.html

- QUANDO IL PIAVE MORMORAVA
https://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2015/05/quando-il-piave-mormorava.html

- CHI HA CAUSATO CAPORETTO?
http://ilforconedeldiavolo.blogspot.com/2017/11/chi-ha-causato-caporetto.html


BIBLIOGRAFIA E LINK SPECIFICI

A parte i riferimenti già presenti nel testo, mi sono stati utili:

- L'ESERCITO AUSTRO-UNGARICO K.U.K. (forum su NETWARGAMING ITALIA)
http://www.netwargamingitalia.net/forum/threads/lesercito-austro-ungarico-k-u-k.6324/

- ARS BELLICA, sulle TRE BATTAGLIE DEL PIAVE
http://www.arsbellica.it/pagine/contemporanea/Piave/Piave.html

- Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO-Piave, Giugno 1918, Soldiershop Publishing-Italia Storica

Francesco Apicella, DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO 90 ANNI DOPO
http://www.tempiocavalleriaitaliana.it/public/biblioteca/pubblicazioni/Francesco%20Apicella%20-%20Da%20Caporetto%20a%20Vittorio%20Veneto.pdf

- LA VITTORIA ITALIANA DEL PIAVE nelle memorie dell'ARCIDUCA GIUSEPPE, edito a cura del DIRETTORIO DEL P.N.F., 1934.XII
http://www.youblisher.com/p/1691102-Memorie-dell-Arciduca-Giuseppe/

- Sulle due BATTAGLIE DEI TRE MONTI (Prima e Seconda battaglia del Piave)
http://www.sassodiasiago.it/museo/battaglia_tre_monti.htm
http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/battaglia-tre-monti.aspx

- Carlo Dariol, LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO (con particolare attenzione al Basso Piave)
http://www.elevamentealcubo.it/crocedipiave/1918_battagliadelsolstizio.htm

- Fausto Vignola (Generale di brigata dei carabinieri -riserva), "Grande Guerra: 15 giugno 1918, quando l'Artiglieria disse no al nemico. Storia della Battaglia del Solstizio", tratto dal sito Report Difesa, fondato e diretto da Luca Tatarelli
http://www.reportdifesa.it/grande-guerra-15-giugno-1918-quando-lartiglieria-disse-no-al-nemico-storia-della-battaglia-del-solstizio/

- 90 ANNI FA- IL PIAVE E LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO
http://www.centrostudimilitari.it/Conferenze%20testi/2008-05-12.pdf

- ASSOCIAZIONE STORICO-CULTURALE BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO
http://www.battagliadelsolstizio.it/

- SULL'OPERAZIONE "LAWINE"
https://www.bergamonews.it/2017/06/25/grande-guerra-pillola-128-la-battaglia-del-solstizio-lawine-al-passo-del-tonale/257977/

- DAL SITO DEL COMUNE DI SAN BIAGIO DI CALLALTA
http://www.comune.sanbiagio.tv.it/p/vivere/cenni-storici/battaglia-del-solstizio

- Nuovo Monitore Napoletano, LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO: PIAVE 1918
http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2386:la-battaglia-del-solstizio-piave-1918&catid=84&Itemid=28

- BATTAGLIA DEL MONTELLO, XV-XXIII GIUGNO MCMXVIII NEL VI° ANNIVERSARIO
http://www.academia.edu/8062627/Battaglia_del_Montello_1918

Altri contributi sulla battaglia del Montello:
http://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/riconquista-montello.aspx
http://www.sulmontello.org/19giu.html

-Istituto TRECCANI, voce VITTORIO VENETO (a cura di Vittorio Moschini, Ugo Cavallero, Elio Migliorini), 1937
http://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-veneto_%28Enciclopedia-Italiana%29/

- Mario A. Morselli, LA BATTAGLIA DI VITTORIO VENETO 
http://www.museobadoglio.altervista.org/docs/battaglia.pdf

- Wikipedia, voce LA BATTAGLIA DI VITTORIO VENETO
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Vittorio_Veneto

- Generale di brigata Adriano Alberti, VITTORIO VENETO, Parte I- LA LOTTA SUL GRAPPA, Sunto estratto dalla pubblicazione "l'Italia e la fine della guerra", a cura del Ministero della Guerra, Stato Maggiore Centrale-Ufficio Storico, Libreria dello Stato, 1924
http://www.montegrappa100.eu/wp-content/uploads/2011/12/1918-24-ottobre-del-gen.-Adriano-Alberti-La-lotta-sul-Grappa-stralcio.pdf

- Cosimo Enrico Marseglia, DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO, Eunomia. Rivista semestrale di di Storia e Politica Internazionali, Università del Salento, 2015
http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia/article/viewFile/15752/13655

- Francesco Apicella, BREVE STORIA DELLA CAVALLERIA E ALTRI SCRITTI, Edizione fuori commercio a cura della SCUOLA DI CAVALLERIA
http://www.esercito.difesa.it/organizzazione/armi-e-corpi/Cavalleria/Documents/Storia_cavalleria.pdf

- LA CAVALLERIA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE, a cura dell'Associazione nazionale arma di cavalleria
http://www.assocavalleria.eu/prima-guerra-mondiale.html

- I REGGIMENTI DI CAVALLERIA (SCHEMA)
http://xoomer.virgilio.it/tspadave/anac/cavrgt2.htm

- Padre Reginaldo Giuliani, GLI ARDITI, Milano, F.lli Treves Editori
https://www.lacabalesta.it/biblioteca/Giuliani/Arditi/Arditi01_truppescelte.html 

- SUGLI ARDITI NEL 1918
https://it.wikisource.org/wiki/Noi_arditi/Anno_di_guerra_1918

- SULLA GRANDE GUERRA
http://www.lagrandeguerra.net

- SULLA GUERRA AEREA
http://www.ilfrontedelcielo.it/

- VIDEO: LA BATTAGLIA DALL'ASTICO AL PIAVE (REGIO ESERCITO, 1918)
https://www.youtube.com/watch?v=wnUoEcB5uaY

- SOLDATI ITALIANI IN MACEDONIA, E FU VERA EPOPEA, articolo di Alberto Rosselli
http://win.storiain.net/arret/num203/artic6.asp

- ITALIANI IN ALBANIA, MACEDONIA, FRANCIA E MANCIURIA (1918)
https://cronologia.leonardo.it/storia/a1918n.htm

- GLI ITALIANI IN FRANCIA
https://digilander.libero.it/fiammecremisi/guerra1/171.htm

-SUI CINQUE TRATTATI FINALI DI PACE DI PARIGI (VERSAILLES, SAINT GERMAIN, NEULLY, SÈVRES E TRIANON)
https://cultura.biografieonline.it/conferenza-pace-parigi-1919/

- MEMORIA E STORIA
http://www.memoriaestoria.it

- STELLETTE A SEI PUNTE, articolo di STEFANO BIGUZZI su BRESCIAOGGI (SUL CONTRIBUTO DEI MILITARI ITALIANI DI ORIGINE EBRAICA NELLA GRANDE GUERRA)
http://www.bresciaoggi.it/home/cultura/stellette-a-sei-punte-1.6371802 










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